di Giorgio Bona

Qui le precedenti puntate.

Parlare di una fabbrica senza averla vissuta non è cosa semplice. Ben vengano racconti, testimonianze, documenti, ma l’esperienza diretta, quella che diremmo, con linguaggio un po’ banale, vissuta sul campo, è un’altra cosa.

La mia prima e unica esperienza, se così possiamo definirla, risale al lontano 1977 e durò circa tre ore.

Andò così.

Non farò il nome, anche se quella realtà è chiusa da diversi anni.

Mi presentai per un colloquio nella sede di Milano. Ero disorientato percorrendo il lungo corridoio che portava nell’ufficio del capo del personale. Un ufficio di cattivo gusto, un po’ sfarzoso, quasi kitch, con moquettes e pareti di velluto rosso.

Il colloquio fu molto banale. A mio parere era già stato tutto deciso a priori.

Infatti, dopo quell’incontro, avrei dovuto presentarmi alla sede dello stabilimento in Liguria per un ulteriore colloquio con il Direttore e attendere la lettera di assunzione che sarebbe arrivata da lì a breve.

Due giorni dopo, poco prima delle ore otto, ero all’ingresso, dove stazionavano le guardie giurate della sorveglianza e una di loro mi accompagnò direttamente in direzione.

Feci circa un’ora e mezza di anticamera nell’attesa poi i soliti convenevoli, una stretta di mano, sentirmi fare la predica di quello che si aspettavano dal sottoscritto: impegno, dedizione e sacrificio e che sarebbero stati ampiamente ricompensati e con prospettive per il futuro.

Passai tutto il tempo in compagnia del direttore. Mi guidò nei diversi reparti illustrandomi tutte le fasi delle lavorazioni, la produzione, i processi. Naturalmente in quella circostanza sentii raccontare le solite balle sull’attività di un’azienda all’avanguardia non solo in Italia.

Dovevo aver fatto una buona impressione. Occorreva soltanto aspettare la lettera che confermasse la mia assunzione.

All’uscita, ai cancelli, qualcuno richiamò la mia attenzione, era un gruppo composto da poche persone che mi chiese un aiuto.

Conversai con uno di loro. Erano lì per una protesta che stava animando la tranquillità turistica di quella località marina. Dovevano mettere un lunghissimo striscione davanti alla cancellata che perimetrava la fabbrica.

Lessi il contenuto. Riportava: il cromo nel c..o dei padroni.

Li aiutai e allungammo questo striscione fissandolo alla lunga cancellata.

Non sono in grado di dire se la sorveglianza all’ingresso avesse notato qualcosa, se qualcosa altro avesse potuto far cambiare opinione nei miei confronti. Posso soltanto dire che quella lettera non arrivò mai e io non fui assunto.

Non so nel modo più assoluto dire cosa sia successo, non me ne sono mai preoccupato. In ogni caso, a distanza di tempo, devo rivelare, un po’ ci avevo sperato che quella lettera non arrivasse mai.

Racconto questo fatto dopo aver letto recentemente un articolo di Nicola Pondrano che ha rimestato i miei ricordi sulla realtà della fabbrica. Nelle sue righe trovo tutto quello che mi sembrava aver visto in un arco di tempo molto stretto, che però servì a rivelarmi molte cose.

Nel suo scritto, curato per Afeva (l’associazione vittime dell’amianto che ha la sua sede a Casale Monferrato dove è nata), Nicola Pondrano, sindacalista della FIOM-CGIL che con Bruno Pesce (Segretario della Camera del Lavoro ai tempi dell’interminabile vertenza Eternit e in prima fila per la lotta all’amianto) afferma con parole ferme e decise come negli anni 50 e 60 l’operaio era assoggettato al padrone con norme di comportamento vincolanti.

Riporto qui ciò che ha scritto Nicola nel suo toccate articolo quando racconta l’assunzione avvenuta allo stabilimento Eternit di Casale Monferrato in cui fu assunto l’11 settembre 1974. Allora lo stabilimento contava di circa 1054 Unità.

L’impatto in azienda fu per me sconvolgente. Fin da subito percepii una situazione grave, vedendo i tanti manifesti affissi all’ingresso della fabbrica, con l’elenco dei lavoratori morti: Mario, 54 anni, Antonio, 56 anni, Agostino, 59 anni, ecc. Tutti morivano prima di andare in pensione.

Era uno stabilimento vecchio – come ho raccontato come principale teste di accusa nel primo processo Eternit – e c’era una polverosità incredibile, nonostante l’umidità legata alle lavorazioni. Era un girone dantesco.

Si sapeva che l’amianto provocava l’asbestosi, si parlava spesso di “tumur dii pulmun, (tumore ai polmoni in piemontese) ma nel 1978 ci fu un caso che sconvolse l’intera comunità: Giannina, la magazziniera della Eternit, da tutti amata e rispettata morì all’ospedale pneumologico  La Bertagnetta di Vercelli. Morì a 49 anni di mesotelioma pleurico, il tumore provocato dall’amianto.

Fu un pugno nello stomaco, ma ci fece prendere cognizione del problema.

Iniziarono così i processi di consapevolezza e di analisi, grazie al lavoro della Commissione Ambiente insediatasi all’interno della fabbrica, in cui fui nominato insieme a Padre Bernardino Zanella, prete operaio alla Eternit, figura fondamentale nel favorire una presa di coscienza collettiva del problema amianto.

Padre Zanella era consapevole del pericolo provocato dalla fibra e non soltanto per gli operai che la lavoravano.

I danni prodotti dall’amianto hanno origini antiche. Civiltà ormai scomparse ne fecero uso e già si riscontravano inconsapevolmente danni di notevole rilievo.

Addirittura Plinio il Vecchio rilevò che gli schiavi destinati alle miniere di amianto presentavano problemi di salute molto più frequenti rispetto ad altri schiavi destinati ad altre mansioni.

Soltanto verso la seconda metà del 700 si parlò di due casi patologici riconducibili al mesotelioma: il primo riconducibile al medico francese J. Lieutad che praticò circa 3000 autopsie e il secondo a E. Wagner che diede la definizione di mesotelioma come patologia maligna.

Soltanto dopo la rivoluzione industriale si riscontra un grande utilizzo dell’amianto ma alle soglie 19° secolo, quando l’esposizione alla fibra direttamente legata ai danni che provocava sulla salute divenne più evidente, nacquero forti dubbi che misero tutto in discussione.

In quegli anni predominavano malattie come la tubercolosi per cui i medici dell’epoca furono tratti in inganno e interpretavano come cicatrici tubercolari le fibrosi pleuropolmonari da asbesto e ancor peggio da mesotelioma.

Ecco i segnali che hanno dato un riscontro ignorato per lungo tempo. Allora, dal momento che abbiamo accennato all’associazione delle vittime, proviamo con il prossimo passaggio a parlare del lungo processo, lungo e doloroso, dove la richiesta di risarcimento non potrà essere mai abbastanza.

 

Alessandria non è New Oleans. Eppure la sera di sabato 2 agosto sembrava veramente di essere nella capitale della Lousiana.

Con un po’ di immaginazione il fiume Tanaro poteva assumere le sembianze del Mississippi. Scuro, limaccioso, arrabbiato. Per circa mezzora ebbi l’impressione di trovarmi in un libro di Tom Piazza, “la città che era” quando l’uragano Katrina passò con una furia distruttrice lasciando nel panico la popolazione.

Vengo al dunque. La furia del vento che sferzava a oltre 100 km l’ora non solo ha sradicato alberi devastando le pochissime zone verdi, abbattuto recinzioni e muretti. In quella mezzora sono stati scoperchiati tetti e si è mostrato quanto amianto ci sia ancora dentro il centro abitato.

Onduline di eternit volarono ingombrando diverse strade della città. Per alcuni giorni c’erano vie invase da pezzi di lastre di asbesto. Sopra passavano automobili e pedoni  e tutto diventava ghiaietto, polvere.

Ogni volta che si parla di amianto, qui, in Piemonte, la gente ti guarda dall’alto in basso, allibita. Ci sono cittadini che non sono assolutamente coscienti di cosa sia quella polvere e cosa possa provocare.

Ora, il problema è che la provincia di Alessandria era considerata in assoluto una delle più amiantizzate d’Italia. Nella città le coperture di amianto ancora da bonificare sono moltissime.

Ma quello che è necessario, prima di tutto, è l’esatta informazione che deve arrivare ai cittadini sul problema, perché in una delle province più “amiantizzate” sembra che non tutti abbiano la consapevolezza di quello cui si va incontro.

Nell’improvviso danno del disastro la rimozione dell’asbesto non è avvenuta in tempi brevissimi, per cui la fibra è rimasta a rischio esposizione dei cittadini per diversi giorni.

Sul pericolo tutti tacciono e possiamo soltanto sperare di non ritrovare sorprese negli anni futuri, sapendo del periodo di incubazione della fibra dopo l’inalazione.

Sarebbe anche difficile in un contesto come questo stabilire delle responsabilità in merito. Chi ha rivestito i tetti con l’amianto? Allora si poteva fare. Chi non lo ha rimosso? Se non si sta sfaldando, se non si rilevano crepe, allora bastava denunciarlo per il censimento. Tutto ha un suo percorso stabilito.

Allora torniamo a Casale Monferrato, città dell’amianto, provincia di Alessandria, candidata ad essere città libera dall’amianto.

A Casale Monferrato, dopo la chiusura della Eternit, una rivista, “Comunicazione Pubblica”, sostenuta da autorevoli figure del mondo scientifico e sanitario, si rivelò in quegli anni lo strumento utile e necessario a modificare abitudini e modi di pensare generalizzati che avevano portato addirittura a familiarizzare con il materiale fino a sottovalutarne la micidiale nocività.

Aveva lo scopo di preparare il cittadino rendendolo un principale alleato, diligente e consapevole, affinchè si rendesse conto della gravità del problema e si presentasse preparato e informato per avviare il faticoso lavoro di bonifica in quelle strutture contaminate senza provocare dispersione di polveri pericolose.

Perché, come detto nelle puntate precedenti, il problema amianto non riguardava soltanto la fabbrica e il suo spazio limitrofo, bensì avesse coinvolto tutto il territorio.

Allora faccio riferimento a un articolo de “Il Monferrato” del 2009. Il Monferrato”, settimanale della città di Casale, raccontava di un processo nel 2008 relativo alla morte di due ferrovieri a causa del mesotelioma. Con una richiesta di indennizzo alle ferrovie della città per l’utilizzo dell’amianto.

Inutile dire che la tesi venne considerata molto discutibile, in quanto i legali delle ferrovie cercarono di discolpare l’azienda FS ritenendo che la colpa fosse soltanto da imputare alla fabbrica.

Lavoravano a Casale e sono morti di mesotelioma. La causa non poteva essere che la Eternit. Era la tesi con cui i legali dell’azienda ferrovie cercavano di difendere l’azienda nella vertenza che vedeva parte lesa gli eredi di due ferrovieri scomparsi a causa della fibra killer.

Era una causa dove si cercò di dimostrare che a Casale esisteva un inquinamento ambientale causato dalla fabbrica e che proprio per questo la fibra killer colpì non soltanto chi lavorava all’a Eternit, ma anche i cittadini.

La risposta delle Ferrovie non si fece attendere: in città sono tutti i cittadini esposti al rischio amianto a causa della fabbrica, quindi le ferrovie non hanno alcuna responsabilità.

La risposta della controparte fu altrettanto decisa. La questione vera, secondo i legali dei familiari delle due vittime, stava nell’utilizzo dell’amianto nel settore ferroviario: è comprovato non soltanto per la coibentazione delle carrozze ma, proprio a Casale, per i trasporti che facevano le ferrovie per conto di Eternit. A questo punto resta da definire la responsabilità, se sia del datore di lavoro o vadano rintracciate in una generica esposizione ambientale.

Scopo delle ferrovie era soprattutto quello di evitare che lo stesso tipo di responsabilità potesse essere attribuito al personale viaggiante, allargando la platea di quelli cui potevano chiedere il risarcimento.

La causa cercava di dimostrare che esisteva un inquinamento ambientale diffuso che colpì non soltanto chi lavorava alla Eternit, ma metteva a rischio tutta la popolazione. Ecco che la difesa delle ferrovie sosteneva che, siccome in città erano tutti a rischio, non potevano prendersi una colpa di cui si chiamavano fuori,

L’accusa del legale delle vittime andava in una direzione, ovvero faceva riferimento alla coibentazione delle carrozze e per conto dei trasporti che le ferrovie facevano per conto di Eternit a quei trenini a scartamento ridotto che dalla stazione ferroviaria andavano verso Via Oggero senza alcuna protezione.

Infatti una delle due vittime lavorava a quel processo.

La ragione su cui si fondava l’accusa nei confronti delle Ferrovie dello Stato era legata al fatto che non avevano adottato misure di sicurezza durante il trasporto di questo materiale, notoriamente pericoloso.

Il figlio di una delle due vittime racconta che ai tempi in cui la fabbrica era in attività la stazione era invasa da treni carichi di amianto e che il padre si trovava proprio a smistare questi arrivi.

Abbiamo già parlato in una delle precedenti puntate dei treni a scartamento ridotto che dalla stazione ferroviaria andavano verso Via Oggero per il trasporto della fibra, come racconta la testimonianza del figlio di una vittima. Tutto ciò avveniva senza alcuna protezione con dispersione del pulviscolo per larghi tratti delle vie cittadine.

In una situazione come questa la responsabilità sembra allargarsi e nessuno vuole assumersela dal momento che l’accusa è gravissima e pesantissima.

Certo, è difficile dare una risposta. Proviamo a parlarne prossimamente entrando nel merito del processo Eternit.

Un processo che non si è ancora chiuso.

Un processo lungo un eternit.

(continua)