di Gioacchino Toni

Mario Catania, Cannabis. Il futuro è verde canapa, Diarkos edizioni, Santarcangelo di Romagna (RN) 2020, € 16,50

«L’unico vero “pericolo” che la canapa rappresenta, è quello di essere alla portata di tutti: una risorsa rinnovabile e inesauribile che non si può controllare a tavolino, che è folle proibire e impossibile sotterrare, senza vederla spuntare di nuovo per poter finalmente dire: “Sono tornata”. Il suo più grande nemico è l’ignoranza e il modo migliore per sconfiggerla è quello di raccontarne i benefici a più persone possibili.» Mario Catania

In questo libro che si apre con una prefazione di Raphael Mechoulam, tra i padri della ricerca su cannabis e cannabinoidi, Mario Catania, oltre a passare in rassegna i principali utilizzi possibili di una pianta che è stata definita “maiale vegetale” per l’utilizzabilità di ogni sua parte, tratteggia le vicende attorno alle quali si è venuta a creare l’accantonamento della canapa e una censura ideologica nei suoi confronti.

Sull’onda dell’attuale rivalutazione di questa pianta nei più diversi settori, Catania mostra il ruolo che potrebbe avere a livello economico, ambientale e medico. Alla luce dei cambiamenti nazionali e internazionali, nel libro vengono dunque affrontate quelle che possono esser considerate le tre anime del fenomeno canapa: la legalizzazione ricreativa, il futuro come risorsa agroindustriale e il mondo medico.

Se l’ostilità statunitense nei confronti della canapa all’inizio del Novecento può essere collegata al timore dei grandi imprenditori americani che un suo uso industriale potesse minacciare gli affari delle grandi aziende della carta, del petrolio, del cotone e delle fibre sintetiche, nondimeno occorre ricordare come la marijuana sia stata utilizzata per attaccare gli immigrati messicani; d’altra parte la prima legge statunitense di messa al bando di uno stupefacente è quella contro l’oppio di fine Ottocento promulgata per colpire gli immigrati cinesi.

Le aggressive campagne di stampa, la paura per la sostanza legata all’imperante razzismo contro i messicani in quel periodo, unite alla comparsa delle prime fibre sintetiche e al proibizionismo imperante nei confronti della cannabis a livello internazionale, furono tutti elementi che hanno portato la canapa, pianta fino ad allora utilizzata largamente anche negli Stati Uniti, a essere bandita. E l’elemento che fa più riflettere è che una campagna iniziata denigrando e ingigantendo gli effetti psicotropi della sostanza, portò in molti Paesi al divieto anche per gli utilizzi industriali in cui gli effetti stupefacenti avevano davvero poco a che fare. (pp. 88-89)

Se il Marijuana Tax Act viene promulgato nel 1937, supportato a dovere da un’incredibile campagna di stampa, le fake news sulla cannabis create e fatte circolare ad arte per demonizzare questa pianta iniziano già nei primi del Novecento, dopo la rivoluzione messicana, quando i migranti, nel varcare il confine del Texas e della Louisiana, portano in dote anche l’abitudine di fumare marihuana.

Serviva una scusa per criminalizzarli, e quella scusa fu la cannabis. Il primo passaggio fu quello di cambiare il nome a una sostanza che gli americani conoscevano bene, perché la utilizzavano per i propri vestiti, per il cordame, per le navi, per gli equipaggiamenti militari, e la custodivano comunemente nell’armadietto dei medicinali. Però la chiamavano cannabis, o hemp. Così quando iniziò l’ossessiva campagna mediatica che parlava in modo assillante dell’erba assassina che fumavano i messicani, ritenuti inferiori e selvaggi e dipinti come criminali, il termine marijuana, dal messicano marihuana, appunto, suona cupo e sinistro, ma soprattutto è completamente nuovo alle orecchie degli americani. La guerra contro la canapa per come la conosciamo oggi inizia da qui: la demonizzazione della cannabis fu un mezzo per demonizzare i messicani stessi. (pp. 89-90)

Nei primissimi anni Trenta la marijuana viene messa fuori legge da una trentina di stati americani e viene fondato il Federal Bureau of Narcotics, sotto il controllo del dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti. La campagna proibizionista può contare sulla grancassa, tra gli altri, del colosso editoriale del magnate William Randolph Hearst, considerato tra i padri del giornalismo scandalistico, a cui si è ispirato Orson Welles per il suo film Quarto potere (1941). La campagna scatenata contro la cannabis tende ad associarla alla violenza, agli omicidi e agli stupri da parte dei migranti messicani nei confronti delle donne bianche. Nel corso delgi anni Trenta anche Hollywood si mobilita con documentari proiettati nelle sale come Refeer madness (1936) e Marijuana, assassin of youth (1937). È in questo clima che si arriva all’approvazione da parte del Congresso del Marijuana Tax Act nel 1937 che, pur senza vietare il possesso o il consumo della pianta, ne rende impossibile l’utilizzo attraverso una forte tassazione.

Venendo all’Italia, se a cavallo tra Otto e Novecento la canapa viene studiata per le sue proprietà mediche, con il fascismo – che indica nell’hashish un “nemico della razza” e una “droga da negri” – prende ufficialmente il via il proibizionismo in questo paese. Nel 1934 la legislazione sugli stupefacenti introduce il “ricovero coatto” dei “tossicomani” in “case di salute”. Nonostante gli interventi legislativi volti a reprimere la diffusione di “sostanze velenose aventi azione stupefacente”, non mancano pubblicazioni di regime che, attorno alla metà degli anni Venti, celebrano la canapa sia in quanto eccellenza autarchica utile all’emancipazione del paese dalle fibre tessili straniere, che per il suo dare lavoro a oltre 30 mila persone nell’industria canapiera nazionale.

Se negli anni Dieci l’Italia figura tra i maggiori produttori di canapa, a partire dalla crisi del 1929 iniziano i problemi per le fibre tessili naturali e per la canapicoltura in particolare, tanto che nel 1933 si decide di intervenire a livello statale a sostegno della produzione canapicola dando vita ai consorzi provinciali per la difesa della canapicoltura. Alla fine del conflitto mondiale questo tipo di produzione nazionale risente della crisi mondiale che riveste le principali fibre naturali soppiantate da quelle artificiali nella fabbricazione di manufatti a uso industriale. Dopo gli anni Sessanta le superfici coltivata a canapa sul territorio nazionale quasi scompaiono ed a ciò si aggiungono le leggi antidroga.

Venendo agli anni più recenti, è da segnalare come nel 2013, primo paese al mondo, l’Uruguay abbia varato una legge per la legalizzazione della cannabis per contrastare i narcotrafficanti. Nel 2017 in Italia è la stessa Direzione Nazionale Antimafia a invitare il mondo politico a superare la logica della semplice proibizione. Negli Stati Uniti la cannabis legale è attualmente, considerato anche l’indotto, tra i settori che stanno creando più posti di lavoro. Stando ad alcune ricerche pubblicate sul JAMA Internal Medicine del 2014, negli stati nordamericani in cui è stato autorizzato l’uso di cannabis terapeutica si è avuto un decremento del tasso di mortalità annuale per overdose da analgesici oppiacei pari al 24,8% rispetto agli stati in cui è stato mantenuto il divieto. Più in generale, in ambito medico la cannabis si presta al trattamento di varie patologie, mostrandosi efficace nei casi di dolore cronico sia di origine neuropatica che infiammatoria, come dimostrano diverse testimonianze riportate dal libro, tanto che alcune grandi aziende farmaceutiche hanno iniziato ad entrare direttamente nel settore.

I nemici della cannabis legale sono tanti. Le grandi multinazionali di alcolici e farmaci vedono in essa un temibile concorrente in quanto la sua legalizzazione farebbe calare i consumi alcol e quelli di farmaci come gli antidolorifici e gli antipsicotici. Due importanti studi canadesi, realizzati dai ricercatori dell’Università di Victoria e della facoltà universitaria di medicina di Dalhousie, hanno recentemente documentato come la cannabis a uso medico contribuisca in maniera significativa a far diminuire i consumi di farmaci come oppioidi, antidepressivi e benzodiazepine, oltre che di alcol. Secondo una ricerca condotta dagli analisti di New Frontier Data, la legalizzazione della cannabis potrebbe sostituire il 10% dei farmaci da prescrizione negli Stati Uniti. Alcune grandi multinazionali dell’alcol e del tabacco hanno fiutato l’affare e se da una parte finanziano le campagne proibizioniste, dall’altra iniziano a investire nel settore della cannabis legale.

Secondo l’autore del libro il vero cambiamento epocale nelle politiche sulla cannabis è giunto all’inizio del 2019, quando l’OMS ha proposto una sua riclassificazione riconoscendone le proprietà mediche e identificando alcune preparazioni farmaceutiche a base di cannabis come “sostanze con valore terapeutico a basso rischio di abuso”.

Dalla canapa possono essere derivati prodotti nutraceutici o cosmetici; si può ottenere carta di ottima qualità da piante annuali; può essere ricavato materiale per la bioedilizia o bioplastica biodegradabile; può essere trasformata in combustibile green ed essere utilizzata per la scocca delle automobili (come aveva dimostrato sin dal lontano 1941 Henry Ford con la sua Hemp Body car, costituita all’80% da fibra di canapa e alimentata da etanolo ottenuto dalla stessa pianta); da essa si può ricavare tessuto con una coltivazione meno inquinante del cotone, più resistente e con proprietà antibatteriche e antifungine e dagli scarti si possono ricavare materiali per la costruzione di supercondensatori per lo stoccaggio di energia. Dal punto di vista ambientale, inoltre, la canapa “sequestra” dall’atmosfera un quantitativo di CO2 quattro volte quello degli alberi comuni, migliora i terreni in cui viene coltivata arieggiandoli e assorbendo materiali inquinanti.