di Nico Maccentelli

(Capitoli 5 e 6)

5.

Le mani grasse di Salvatore si tormentavano l’un l’altra freneticamente. Le teneva appoggiate sulle ginocchia e di tanto in tanto stringeva tra le dita il grosso anello d’oro con pietra turchese che aveva sul mignolo della mano destra.

— Quindi, ricapitolando, durante la partita non siete mai entrati, neppure per un istante. — Improta guardava con occhi assenti il palazzo di fronte alla finestra del suo studio: un edificio grigio fuliggine, dai connotati mitteleuropei.

— Anzi, le dirò di più — esclamò sudando il ciccione, — Ciro si è assentato dieci minuti per andare a prendere i nostri spuntini dalla fornaia.

— Che ha confermato — intervenne Cattabriga.

Il commissario tamburellò pensieroso le dita della mano destra sul portacarte di cuoio.

Ciro, che fino a quel momento non aveva profferito parola, e che era rimasto a fissare i due poliziotti con uno sguardo vagamente cinico, sbottò: — Per quanto tempo ancora avete bisogno di noi, qui in questura?

— Fino a quando non avremo deciso se farvi chiudere l’attività, oppure no! — rispose Improta.

Il magrolino sgranò gli occhi, mentre il suo collega madido di sudore, incassò la testa tra le spalle, come una vecchia tartaruga impaurita.

— Via commissà! — replicò Ciro più accomodante, — lei non può farci restare senza lavoro.

— Possiamo sì, finché non avremo la certezza che il vostro accidente di Laserminchia, o come cavolo si chiama, sia effettivamente sicuro!

— Ma commissà! questo delitto poteva accadere ovunque, anche in oratorio!

— Anche in oratorio! — confermò Salvatore facendo eco al compaesano.

Improta senza smettere di tamburellare con le dita sul tavolo, guardò Cattabriga con l’aria di uno che chiede “e adesso di questi qui che ne facciamo?”. L’ispettore aveva un’espressione perplessa. Allargò le braccia sconsolato.

— Commissà — disse Salvatore, — giù teniamo famiglia…

Le dita di Improta si fermarono di colpo. — Potete andare allora — disse sospirando.

— Grazie commissà! — esclamò Salvatore con un velo di luce umida sugli occhi.

Ciro gli fece eco con un “grazie” secco, chiuso tra i denti.

— Andate… — li esortò ancora il commissario, mentre i due napoletani guadagnavano la porta. Ma non appena l’ebbero richiusa, completò la frase con un — affanculo! — sibilato a denti stretti. Poi rivolgendosi all’ispettore: — Che ne pensa Cattabriga?

L’ispettore scosse la testa — Ma…

— Dovevo provarci, ma questi non c’entrano niente! — sbottò Improta sconsolato.

Cattabriga avvalorò l’asserzione del commissario con un ragionamento del tutto logico. — Manca il movente, anzi, per loro consumare un crimine lì sarebbe stato addirittura controproducente: è logico che sarebbero stati i primi ad essere sospettati, interrogati, per non parlare del rischio di farsi chiudere l’attività. 

— E poi hanno l’alibi.

— Che è la cosa che conta di più.

— A questo punto ispettore, rompere i coglioni a quei ragazzi diventa inevitabile. E lei sa da chi iniziare.

— Dice il ragazzo che abbiamo trattenuto?

— E chi se no? — rispose il commissario con un risolino sarcastico. E aggiunse: — Ma non subito. Lasciamolo rosolare un po’ a fuoco lento. Che ora è Cattabriga?

L’ispettore guardò l’orologio. — L’una e trentacinque.

— Bene. Interroghiamolo domattina. C’è da giurarci che dopo una notte in questura, il guaglione sarà diventato più loquace di quanto non lo sia stato sinora.

— Se lo dice lei — commentò Cattabriga. — Ma io non darei così per scontato che…

— Ispettore — lo interruppe Improta, — lei è ancora agli inizi. Se lo lasci dire da uno che ha tanti anni di mestiere sulle spalle. Questo tipo di omicidi che maturano in ambienti giovanili, sono ovvi e scontati come la scoperta dell’acqua calda. Le cause sembrano tante fotocopie: noia, gelosia, rivalsa, o perché no? Droga… Comunque sempre futili motivi. Questi giovani sono prevedibili come il sole che sorge all’alba.

Il commissario rimase per pochi istanti come assorto. Poi concluse: — E in ogni caso, caro Cattabriga, è l’unica pista che abbiamo in mano in questo momento. Vediamo di percorrerla senza tralasciare alcun particolare.

— Farò il possibile, commissario.

— E anche l’impossibile. C’è quella pistola fantasma che è come se fosse puntata sulle nostre teste. Ho faticato non poco a tenere buono il questore. Se non vogliamo ritrovarci a guidare le auto ministeriali, sarà meglio darci da fare.

L’ispettore annuì, ma più per dovere. Quando uscì dall’ufficio di Improta, fece un lungo sospiro e scosse la testa.

6.

“Stia tranquillo. Lei ha avuto o no uno screzio con la vittima? È più che logico che…”, “…ma è solo una formalità…”, “Venturoli, le portiamo dei panini…”, “è comodo? Macché cella di sicurezza…” I muri però erano grigi. E sapeva di trovarsi nello scantinato della questura, alle 3 di notte.

Il divano di finta pelle marrone in cui si trovava sdraiato era maledettamente scomodo. Stefano era da ore che vedeva davanti a sé la foto del presidente della repubblica, con il suo sorriso evocativo di gesta gloriose, scattata probabilmente in qualche cerimonia ufficiale. Di fianco all’allegro quadretto ce n’era un altro non meno squallido, raffigurante un paesaggio dolomitico. Probabilmente avevano acquistato la cornice senza togliere la foto in dotazione, perché quell’immagine l’aveva già vista nelle vetrine di numerosi negozi di foto-ottica.

Apparentemente sembrava libero. Era solo trattenuto per accertamenti, dicevano. Ma sapeva che qualcuno stava piantonando la stanza. Sentiva muovere di tanto in tanto dietro la porta. Ogni tanto di là sentiva parlare qualcuno. Qualcuno che voleva incastrarlo, che era lì per questo. Quando questa considerazione si faceva largo tra le pieghe dei suoi pensieri, un lungo brivido gli correva giù per la schiena.

Luca morto. E lui lì. Che buffo: a parte quella volta per il passaporto, non era mai entrato in questura. Per questo, gli era sempre sembrato un luogo dove si risolvono problemi burocratici, gli aveva dato l’impressione di una grande macchina tritascartoffie. Poi c’era un’altra parte del suo immaginario che era legata ai telefilm americani. Aveva quasi l’idea che la vera polizia fosse quella degli Hammer, di Miami Vice, e che i poliziotti italiani, come i carabinieri, esistessero solo nelle barzellette e nei vecchi film anni ‘60 tipo: “Milano violenta”, o in quelli romani del commissario Nico, che con due sberle faceva parlare Bombolo e risolveva tutto.

Ma c’era anche la polizia da palazzetto dello sport, quella che presidiava le partite di basket, che scrutava ogni mossa che l’onda umana della fossa dei leoni produceva nei momenti salienti della partita. File di coglioni coi caschi e i manganelli pronti. Li aveva visti usare una volta sola, dopo un fitto lancio di oggetti per un fallo in attacco dato a uno dei due stranieri della squadra di casa, nel finale di partita.

Una roba che li aveva fatti perdere la coppa. Anche se il suo atteggiamento nei confronti della tifoseria ultrà era sempre stato di indifferenza, tipica di chi sta nelle parterre centrali e non si mischia certo con gli esaltati, mostrò una certa simpatia nei confronti di questi ragazzi con le sciarpe portate sul volto e gli occhi da invasati. Persino gli altri tifosi vicino a lui, da sempre più ammodo, signori attempati e giovani con l’abbronzatura artificiale e telefonino si accalorarono rispondendo alla curva invasata con richiami primordiali. Si andava a casa, che diamine. Quinto fallo… esce… una bella porcata.

Il palazzetto quella volta si alzò come un sol uomo e, nella manciata di secondi che mancavano al suono della campana di fine partita, gli agenti faticarono non poco a trattenere l’inevitabile invasione di campo. Distribuivano manganellate a destra e a manca, come se dovessero rificcare nel suo spazio definito, una massa compatta di un qualcosa privo di specifiche individualità, un qualcosa di vivo solo perché massa brulicante, bestia informe e incontrollabile.

Al suono della campana, i poliziotti furono travolti come conseguenza ingloriosa della spossante attesa di quel preciso, annunciato istante, in cui tra parquet e spalti non c’era più differenza. Dove la linea magica che separava il luogo dello spettacolo da quello degli spettatori veniva spazzata via da una folla umana imbizzarrita.

Divennero tutti attori in un sol colpo: pubblico pagante, giocatori, tecnici e forze dell’ordine. Gli agenti furono sì travolti, ricordò Stefano, ma non senza fare danni. Come maschere antiche comparvero volti insanguinati e smorfie di dolore. Stefano nel pigia pigia riuscì a raggiungere il parquet insieme a Sergio. Ma ora che era lì non sapeva proprio che fare. Lo capì quando fu sfiorato da una manganellata tirata alla ‘ndocojo cojo. Lui e Sergio guadagnarono più velocemente possibile l’uscita, tornando tra i tifosi “civili”.

Ma erano altri tempi. A scuola iniziarono le occupazioni e i poliziotti ebbero un’altra fisionomia nella sua testa. Questi signori in borghese venivano semplicemente a chiedere di non occupare la presidenza, a sapere per quanto tempo sarebbe durata l’assemblea permanente. Con gentilezza e discrezione, come si conviene fare in un liceo frequentato da ragazzi dei quartieri collinari o comunque residenziali.

Erano gli anni della scoperta del punk rock, dei gruppi fuori di kotenna, che nei loro testi davano delle merde ai pulotti, i fottuti stronzi che non facevano fumare in santa pace, che fermavano ai posti di blocco le auto vecchie e usate dei nuovi giovani bohémien in camicia scozzese. Che guardavano con indifferenza la selva di spille e spillette e di magliette che mischiavano le foglie di cannabis alle svastiche, le aquile reali alle falci e martello e alle “A” cerchiate dell’anarchia, i simboli dell’antimilitarismo con gli stemmi dei parà, destra e sinistra e palla al centro, partite a calcetto, sniffi pesi a casa di Sandro che c’ha il fratello skin, un po’ fanatico il bambino. 

Sinistra e destra e tutto e il contrario di tutto, ma la maria dappertutto, assaporando nuovi ambienti e nuove tribù, “dove c’è quel gruppo di ragazze un po’ coatte, ma gran fiche”, o “dove là si può fumare in pace, cazzo”.

Il poliziotto che entrò in quel momento gli sembrò diverso dagli altri. Abbastanza giovane, con una folta capigliatura tirata all’indietro e lo sguardo perplesso ma non indagatorio, quasi indulgente. Era quel coglione che l’aveva condotto lì, ormai… quattro ore fa.

Cattabriga lo fissò alzando le sopracciglia e socchiudendo gli occhi. — Tu un assassino… — l’ispettore scosse la testa in segno di diniego, che poteva essere una risposta negativa alla sua affermazione o un commento compassionevole su questa generazione di piccoli imbecilli ben imbottiti di serial televisivi, con serial killer per protagonisti.

Dallo stomaco di Stefano partì un groppo che gli salì fino in gola. Intuiva il perché era stato trattenuto. Lo sguardo sfuggente di Silvia era stato più chiaro di un’ammissione dichiarata. La stronza doveva avere spifferato tutta la vicenda tra lui, lei e Luca. Anche se non avevano neppure avuto il tempo di fare una bella litigata, capiva che per gli sbirri poteva essere indubbiamente una buona traccia da seguire.

— Mi incriminerete?

— Stai tranquillo. Noi ci muoviamo solo se abbiamo sospetti più che fondati.

Cattabriga si mise a sedere davanti al ragazzo e aggiunse: — E per sospetti fondati ci vuol ben altro che una bagatella tra ragazzi.

— Silvia vi ha parlato dei casini tra lei, me e… Luca.

— Sì ce n’ha parlato…

— Ed è per questo che mi trattenete qui, senza neppure dirmi se sono arrestato oppure no.

Cattabriga sorrise. — Arrestato, che parola grossa. Diciamo solo che sono in atto degli accertamenti. È ovvio che sei nel pieno diritto di consultare un avvocato. E infatti sono qui per questo. Conosci qualche buon penalista da chiamare domattina?

— Ma è assurdo!

— A volte quello che sembra assurdo, in realtà si rivela vero. Nel nostro lavoro non possiamo scartare alcuna ipotesi.

— Insomma, mi avete già condannato prima ancora di vedere se sono colpevole oppure no.

Yuri non si scompose. — In che film hai sentito questa battuta?

Al ragazzo tremavano le labbra. Era come se avesse una frase appesa alla bocca che non trovava il coraggio di buttarsi nel vuoto come suono. Forse perché il vuoto di quella stanza grigia di questura, grigia di uniformi lise, di scartoffie unte e impolverate, di foto del Presidente della Repubblica e di quadri delle Dolomiti, era proprio “il vuoto”, un luogo dove regnano sovrani l’indifferenza e il cinismo. Capì che non poteva chiedere aiuto a nessuno. L’ingranaggio si era già messo in moto inesorabilmente, come nei film americani: la folle caccia di capri espiatori seguendo le strade più facili, quelle scoperte prima, senza fare tanta fatica, basta che la storia fili, sia coerente, basta che oltre alla vittima ci sia il maggiordomo. Ed è ancora una volta il maggiordomo a dover dimostrare la propria innocenza, non gli investigatori la sua colpevolezza.

L’incubo a volte entra in punta di piedi, come nel film di Tornatore “Una pura formalità”, con Roman Polansky e Gerard Depardieu. Solo che stavolta non era un film, no non era un film.

Yuri spezzò il filo dei pensieri di Stefano, concludendo in modo perentorio. — Comunque, tranquillo: non abbiamo ancora alcuna ipotesi formata. Il caso è solo all’inizio.

(Fine della terza puntata, la prossima: domenica 24/03/2019)

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