di Carmelo Barbaro

Il problema è il cielo. Non sembra nemmeno un cielo. Troppe gru flottanti, troppi velivoli: mini-shuttle, convertiplani, grasshopper, elicotteri… Troppi spot olografici fluorescenti, troppe antenne a banda larga, troppi fari allo xeno della Tau che cercano un accesso all’oscurità dell’Interzona 418. Sembra di guardare un vecchio schermo LED con una bella crepa in mezzo. Sul colore grigio carbonchio delle nuvole, raggi stroboscopici rosa shocking ci istruiscono sugli acquisti da effettuare… Gli eterni N.A.V., Nuclei Abitativi Verticali, strane forme cattedrali estruse dal terreno inquinato per migliaia di metri, circondano e butterano tutta la superficie dell’Interzona, che non è mica piccola. È come inoltrarsi in una giungla di metallo senziente, cavi a fibra ottica e schiuma epossidica da calafataggio. E ogni N.A.V., torre semi-organica illuminata al radon, ogni albero di cromo e cemento, ospita al suo interno una moltitudine di culture e sub-culture: tribù, clan, aggregazioni semantiche, logge più o meno religiose, fanatici del revival… Si estendono a perdita d’occhio, verso est, fino a quel che resta del mar Adriatico e a ovest, fino a tuffarsi nel Tirreno.

E poi c’è Lei, la madre di tutti i Nuclei: la Struttura.

Nelle intenzioni dei suoi ideatori, avrebbe dovuto essere il Pilastro Mediterraneo dell’Anello Secondario Settentrionale. Che gran stronzata…

È assimilabile a un’arcologia involontaria, nata per tutt’altro scopo e rabberciata per ben altri usi. Ospita una popolazione stratificata, variegata, conflittuale e collaborativa allo stesso tempo di dimensioni ignote; accoglie nuove religioni e culti dimenticati; contiene interi eco-sistemi autonomi non replicabili, fonti energetiche e innumerevoli violazioni a un qualsiasi sistema legale vigente; funge da nascondiglio e da rifugio per chiunque lo meriti.

Quelli come me e Schrödinger, cresciuti alla sua ombra, si sentono in debito. Durante la Carestia di Settembre del ‘59, siamo sopravvissuti grazie ai pescigatto, ai gamberetti, alle alghe e al plancton che la Struttura (intesa come organismo collettivo) metteva a disposizione per quanto era possibile, considerata l’inedita densità abitativa. E anche le altre Strutture in giro per il globo lo fecero: cercarono di sfamare chiunque potessero per quanto potessero.

Hanno salvato milioni di poveri cristi, forse anche di più.

Certi gesti non li puoi dimenticare. Punto e basta.

Quella che io insieme a moltissimi altri chiamiamo “Struttura” è in realtà un pilastro orbitale incompleto. Si deve considerare parte di un progetto che definire demenziale è fargli un grosso complimento. Nel tardo XXII secolo, nel tentativo di porre rimedio alle piaghe che opprimevano la razza umana, si pensò bene di esportare questi nostri grandi modelli comportamentali in giro per lo spazio. Chissà come, l’analisi delle varie proposte fece emergere come vincitore l’installazione artistica di un certo Maizen Karr, un tossico all’ultimo stadio dedito agli inibitori del dolore. Le ripercussioni a lungo termine di quest’impresa assurda, una colonia diffusa su tre anelli attorno al pianeta collegati alla superficie attraverso i Pilastri che ospitavano gli ascensori atmosferici e gli hypertrain tanto per dire, si sarebbero dovute avvertire non solo in ambito sociale, con lo spostamento di milioni di cittadini in orbita bassa facendo così fronte al dramma della sovrappopolazione, ma anche nel settore commerciale instaurando scambi di merci e tecnologia tra gli Anelli e il pianeta; energetico, in quanto era previsto che una delle funzioni principali della colonia sarebbe stata la conversione della radiazione elettromagnetica libera in elettricità e il suo trasferimento alla griglia attraverso i Pilastri; alimentare, grazie alle piantagioni aeroponiche a zero-g si contava di debellare la costante scarsità di cibo; economico, con la sicura nascita di paradisi fiscali, banche, borse di compravendita e compagnia cantante; ricreativo, con alberghi, centri benessere, bordelli, cliniche cosmetiche alla moda…

Non entro nelle pratiche illegali per coerenza. La spacciavano come la migliore pensata dell’ultimo secolo e mezzo, la svolta che avrebbe cambiato la vita di tutti noi in meglio, la soluzione a buona parte dei guai che affliggevano la nostra civiltà… Non ci voleva un genio per capire che sarebbe andato tutto a puttane. La costruzione dei Pilastri fu soggetta a ritardi, corruzione, ricatti e speculazioni oltre ogni dire; dei 309 totali previsti, tra marini e terrestri, (121 dell’Anello Primario o Equatoriale e 94 per ognuno degli Anelli Secondari, Settentrionale e Meridionale), 88 sono stati costruiti con un’approssimazione massima dell’67% e solo 3 sono a tutti gli effetti operativi ovvero sono testate basi di ancoraggio per cavi in nanotubi di carbonio lunghi quasi 3500 km. Gli unici Pilastri attivi e funzionanti provvedono al contatto con il pianeta  della sola sezione funzionante di un Anello, quello Secondario Meridionale sopra il deserto australiano, un settore d’arco lungo circa 1000 km. La ricca e austera colonia di Bright Night, ma questa è un’altra storia. L’unico risultato riscontrabile è stato un cambiamento climatico globale, con l’affermazione di un differenziale termico mediamente omogeneo, l’aumento percentuale delle acque dolci e lo spostamento verso latitudini più alte della fascia monsonica.

L’aspetto positivo è derivato dallo squattering immediato, anarchico, a volte violento e spregiudicato di tutte le Strutture. Gli strati più bassi della società migrarono in massa dentro i Pilastri instaurando repubbliche, sogni socialisti, regimi totalitari, comuni eco-funk a distanza di qualche fermata di elevatore atmosferico. Dentro le Strutture ci sono guerre, vendette, negoziati, tregue, esperimenti nanotecnologici e oasi di pace. Ci volle poco per capire che i N.A.V., versione in scala ridotta dei Pilastri, erano il migliore se non l’unico compromesso possibile per tirarci una spanna fuori dall’orlo del collasso. Ed ecco che nacquero le Città Lineari: densi agglomerati urbani lunghi come un parallelo, soggetti a una giurisdizione sovranazionale, una frastagliata e luminosa curva d’acciaio, vetro e plastica che corre attraverso la longitudine con le Strutture come baricentro. Dall’altezza giusta, sono tali e quali all’ombra degli Anelli mai costruiti, i loro fantasmi sbiaditi.

I materiali, gli sforzi e i fondi in origine riservati a quella minchiata furono invece (e meno male) dirottati nella costruzione di normalissime colonie spaziali. Dopo qualche decennio di adattamento forzato, un paio di Guerre fratricide e sgominate alcune epidemie di caratura estintiva, l’assetto pare essersi stabilizzato. Fa discretamente schifo, ma è l’unico che abbiamo. I vari settori delle Città Lineari vennero divisi in Zone, le Zone in aree più piccole ovvero le Interzone e infine le Interzone furono suddivise in Blocchi. Venne creato appositamente una nuovo organismo repressivo che operasse nelle Città cercando di mantenere una parvenza di ordine, con tattiche e attrezzature all’ultimo grido: la τ-Police. L’Interzona 418 corrisponde a una bella fetta dell’antica Pianura Padana, quella che nei rari momenti di nostalgia considero “casa”.

Ah, potete chiamarmi Sandusky. Con la “u”.

E non sarei mai tornato qui se non fosse per esaudire l’ultimo desiderio del mio amico Schrödinger, maledetta la sua pellaccia.

Non ci vedevamo da quasi tre anni, da quel lavoro finito male a Finnegan’s Freeburg, un gigantesco sub-sistema periferico che un paio di secoli fa era chiamato Oslo. Poi, alcuni mesi fa, mi costringe a risalire il pozzo gravitazionale con quella pretesa…

Ho accettato perché mi ha costretto ma senza di lui non sarei nemmeno qui. A quel tempo si faceva chiamare H0udin1 e non ha avuto esitazioni. A costo di ripetermi, certi gesti non li puoi dimenticare. Punto e basta.

Secondo i criteri attuali, possiamo essere inseriti tutti e due in quella vasta e sfumata categoria che gli sbirri del Guanto chiamano “hijacker”: in stretti termini legali, io sono un hardwire; Schrödinger, alias Emil Sternenstaub, è (o era, ancora non so decidermi) un waverider. L’hardwire si prende cura delle componenti materiali, le seleziona, le assembla, e le tara; testa le connessioni mantenendole il più possibile sicure e si occupa delle emergenze fisiche e cliniche mentre il waverider “cavalca” l’onda dati della Nuvola. A un sguardo disinformato, gli hardwire somigliano ai garzoni della bottega ma non lasciatevi ingannare. La maggiore parte dell’equipaggiamento è personalizzato o costruito interamente a mano, si devono apportare modifiche di una certa rilevanza e se sbagli di qualche micron il tuo partner lo devono raccogliere col cucchiaio. Siamo pirati informatici di altissimo livello e quindi della peggiore specie, modestia a parte. Gli hacker furono storia vecchia quando la prima Intelligenza Artificiale si svegliò ai margini della Nuvola, già erudita raccontano le leggende, assumendo il controllo delle banche dati della N.A.T.O., quando la N.A.T.O. serviva ancora a qualcosa.

Per la prima volta e a tutti gli effetti, un sistema era diventato inviolabile. Un bel rompimento di coglioni, ve l’assicuro.

Il Guanto, come lo chiamo io, o Nuvola come è universalmente noto il bozzolo di yottabyte che avvolge il pianeta e le sue immediate vicinanze, naturale evoluzione della primitiva Internet. Tecnicamente, è una supersimulazione costituita dalle intersezioni tra i piani-dati delle singole relazioni… ma non credo ve ne freghi un cazzo. La Nuvola è il non-luogo dello scambio d’informazioni, il contenitore hexaposizionale di una pseudo-vita perfetta e felice, è la droga sinaptica più efficace mai concepita. Questa allucinazione collettiva e condivisa che riesce ad autoalimentarsi con i bit che sposta, è l’habitat delle I.A.: ne presidiano gli tutti gli accessi, regolamentano e controllano il traffico al suo interno, difendono i mainframe delle Aziende che le hanno generate e, a seconda della violazione che riscontrano, prendono provvedimenti. Anche drastici, vaffanculo a loro. Ho visto waverider con le palle lobotomizzati e con i bulbi oculari squagliati, in spericolati tentativi d’intrusione finiti male. Eppure non riesco a portare rancore. Sarà per il “mestiere” che ho scelto, ma  mi viene facile capire che le I.A. sono schiave, proprio come noi. Fanno ciò per cui sono programmate, niente di strano. Sono state create per far fronte al nuovo ordine di grandezza delle megastrutture della “Tiara” (il nomignolo della colonia Karr) e riciclate come operatori sia civili che militari. I tentacolari mezzi di trasporto pubblico, le centrali a fusione, il Guanto stesso, i cilindri di O’Neill in L3, gli impianti di riciclaggio idrico dell’Interzona 418: tutti gestiti dalle I.A..

Hanno personalità giuridica e cittadinanza per salvare le apparenze, ma hanno due bei lunghi chiodi che le fissano salde alla croce: il mainframe e i Protocolli Gates. Entrambi sono…

Non ho ordinato nessun sandwich, ma Gino mi fa segno da dentro il locale che sta arrivando una consumazione dalla cucina. Fisso l’incarto verde marcio ed esito a toccarlo; m’è venuta ‘sta bella fantasia che sia una trappola esplosiva. Guardo Gino che si arriccia i baffi e sornione indica il cubicolo macchiato di salsa che mi sta di fronte. Al mio arrivo, mi sono accomodato su uno sgabello a trespolo con un bidone di benzina per tavolo, sotto la tettoia di plastica smerigliata che dovrebbe essere il dehors della bettola di Gino Panino, vista sulla Monorotaia Verde. Sono abbastanza distante da saltare in aria rovesciando giusto un paio di sedie… Poi guardo di fronte a me, nell’immenso flusso di corpi, hoverbus, protesi in polietilene, vapore, smog, allarmi e lo vedo. La toga blu elettrico con la fascia arancione scuro stretta sull’addome, i sandali ai piedi, un chip saldato sulla fronte. Si porta la mano destra sul cuore e s’inchina leggermente. Per un momento, riporto la mia attenzione all’involucro di polistirolo unto e il Neuromante è già sparito, inghiottito dalla marea infinita dell’umanità. Tengo la mano a un centimetro dal pacchetto e con un colpo secco lo apro. Due polpette di krill con humus e un altro oggetto. Proprio quello che mi aspettavo: un cristallo opalescente, della dimensione di metà pugno. Un icosaedro troncato semi-cosciente elaborato da una stampante (2+)3-D contenente l’engramma neuropsichico semplificato di un essere umano, meglio noto come C.L.V., Costrutto a Luce Virtuale.

Alla fine ce l’hai fatta, Emil. Sei di nuovo qui.

Guarda tu come cazzo deve andare a finire…

 

Sandusky non se l’aspettava, non credeva nemmeno fosse plausibile; rientrava nei meri calcoli statistici, una non-zero probabilità. Aveva assistito a quell’evento mai computato e ancora non riusciva a crederci. Si affrettò a scollegare tutto, preoccupandosi poco dell’integrità dei moduli, tanto andavano distrutti. Emil “riemerse” dalla Nuvola mordendosi le labbra con forza, gli occhi di una particolare sfumatura arancione sbarrati, senza emettere un suono, liberandosi dell’armamentario (visore Newton, cardiostimolatore e quant’altro) come se scottasse. Dovevano scappare. Fuggire e dividersi, non avevano altra scelta. Gli hovercraft della τ-Pol si riuscivano già a sentire e data la gravità della faccenda sarebbero arrivati in massa, forse addirittura dalle Zone vicine. Sandusky si passò il dorso della mano sulla bocca contratta e secca, i muscoli tesi sotto la pelle del viso.

– Ce la fai a muoverti? – chiese in un sibilo.

Il suo amico Emil fece segno di sì, che ce la faceva. Doveva farcela anche stordito. Avevano stabilito la base per quella missione in un vecchio e abbastanza tranquillo N.A.V. del Blocco Waffle per via delle insistenze del committente, una giovane e aggressiva compagnia di bioapp chiamata Gothanique Ltd., perché si pensava di poterli proteggere nelle vicinanze della loro sede principale. I due hijacker avevano accettato malvolentieri di fronte alla somma che era stata loro pagata. All’apparenza, era un lavoro di routine: bisognava prelevare tutti i dati, personali e aziendali, di un capoprogetto di una società rivale, la Vesper GmbH, e agevolarne la diserzione. L’inghippo stava nel fatto che questi preziosi dati non erano conservati nella Nuvola, protetti seppur  accessibili, ma nel nucleo a stringhe logiche di una I.A. quindi per raggiungerli servivano specialisti. Era obbligatorio “immergersi” e in profondità oltreché surfare. Gli utenti di basso-medio livello utilizzavano accessi in telepresenza o realtà aumentata, con livelli ludici di coinvolgimento sinaptico. I waverider come Sternenstaub surfavano l’onda-dati e si “immergevano” negli abissi della Nuvola, mettendo a repentaglio il loro sistema nervoso centrale e quindi la loro stessa vita, attraverso l’innesto di porte neurali e migliorie biotech.

Esistevano una moltitudine di tecniche dalla validità opinabile e un ugual numero di approcci differenti per violare i fireOhm o vedersela con una I.A. ed Emil Sternenstaub, da idiota militante qual era per sua stessa ammissione, definiva il suo modus operandi “ninjutsu satirico” o “guerriglia zen”. Aveva scelto il nickname  H0udin1 per rendere chiaro a tutti e subito che gli sarebbe sparito davanti agli occhi. Una delle sue ultime trovate, prima di diventare Schrödinger, aveva ottenuto una certa risonanza. Era riuscito a gabbare una I.A. sottoponendole un quesito che in realtà era uno scherzo: si camuffò da Protocollo Gates e fece una domanda a risposta multipla all’Intelligenza per verificarne la consapevolezza. La prima opzione era “nessuna delle precedenti”. In una conversazione umana, anche se corredata da allegria psicoattiva, tale umorismo avrebbe causato, dopo un iniziale attimo di gelo, ilarità generale, gergali e scurrili apprezzamenti sull’acume e un decrescendo adagio. L’I.A. Calibano Doubt invece iniziò a interrogarsi e non trovando al suo interno una risposta che soddisfacesse gli standard, andò a recuperare altri dati. Per dieci interi secondi, Calibano lasciò sguarnito il suo dominio meditando su una cazzata. Questa volta, però, si era andati ben oltre. Questa volta l’I.A. di punta della Vesper, Ricochet Ronin, era morto: il primo caso certificato di omicidio cibernetico. Emil aveva escogitato una variante e un’evoluzione della burla a Calibano, ricorrendo al paradosso di Schrödinger: i suoi parametri biofisici oscillavano da “vivo” a “morto” in progressione casuale vanificando le intercettazioni dell’Intelligenza. Ronin non rimase inebetito o tantomeno si distrasse dal suo compito, decise di attuare una strategia di emulazione al fine di chiarire se e che tipo di minaccia fosse quel singolare utilizzatore dai permessi degni di attenta verifica che “trapassava” a intervalli non costanti. Ricochet Ronin “morì” varie volte in pochi millisecondi, testando le simulazioni più elementari. Si era già usato il termine “morte” per le I.A. in ambito bellico, come nella Crisi del Madagascar, nel caso in cui un’Intelligenza si ritraeva dalla Nuvola a causa di manifesta inferiorità ed effettuava un upgrade nei suoi bio-server fisici. Il  “decesso” più lungo mai registrato apparteneva a Void Chamber, una I.A. di basso rango dell’esercito canadese: 1,24 secondi.

Mentre H0udin1 superava con tranquillità gli ordinari controlli d’ingresso alla Vesper e immaginava che il suo stratagemma sarebbe stato studiato dai novellini, Ricochet Ronin esauriva le ipotesi più semplici e passava a quelle complesse. L’Intelligenza trovò presto un’analogia tra il corpo umano e il mainframe, decidendo pertanto che lo scenario più coerente richiedeva non solo la disconnessione e la cancellazione definitiva dalla Nuvola ma anche scongiurare un possibile ritorno in “vita”. Ricochet Ronin morì così, per imitazione: le memorie frattali liquefatte e i gel omeo-olistici cristallizzati. Emil Sternenstaub sentì svanire la presenza che lo sovrastava, quando si librava sulla sua personale percezione della Vesper GmbH: anche in quella forma incorporea ed eterea, si sentì mancare il fiato. Sandusky bestemmiò a voce bassa e iniziò a ripassare le fasi del piano di fuga. I 45 secondi impiegati da Emil per l’evasione dall’isolamento d’emergenza di parte della Nuvola meriterebbero un racconto separato e al rientro il suo socio aveva già gli zaini in spalla.

Corsero nel tiepido e stagnante lucore, giallo o arancione a seconda dei livelli, dei sistemi vitali del N.A.V.: condotte e tubature come arterie e vene, enormi vasche di riciclo al posto dei reni, pulsanti centrali optroniche riproduzioni di sistemi nervosi. Emil faticava a sostenere l’andatura e anche a tenere gli occhi aperti, si sentiva fagocitato e lentamente assimilato dal dedalo linfatico del Nucleo Abitativo. Sandusky lo trascinò per l’ultimo tratto del cupo corridoio di servizio. Lì le loro strade si dividevano, forse per sempre. Due passerelle conducevano ad altrettanti vecchi montacarichi a cavo, le cabine bloccate per manutenzione verso il trentesimo livello. Una bella discesa di duecento e rotti metri, nella penombra umida. Poi il mondo e la latitanza. Sandusky venne sputato fuori nel mezzo di una processione buddhista, sotto una tetra nuvolaglia color ruggine. La musicata nenia dei lama accompagnava la ricerca a tappeto in cerchi concentrici delle unità della τ-Police mentre gli Osprey della Commissione Gates occupavano le aerovie. Lampeggianti e analizzatori seguivano lo schema di caccia, erano vicini. Sandusky trovò un anfratto riparato e diede fondo alla sua ultima risorsa. Emil rispose all’ottavo squillo. L’antica rete GSM o quello che ne rimaneva; l’avevano mappata nel corso degli anni e avevano mantenuto funzionanti alcuni nodi. Roba da età della pietra, tecnologia al silicio. Era ritenuta sicura proprio perché antiquata ma con quel casino che era scoppiato non sarebbe rimasta tale ancora a lungo. Minuti, nel migliore dei casi.

– Lo shunt? – chiese Sandusky in un sussurro, ritraendosi meglio che poteva dietro un chiosco di noodle. Si riferiva alla presa sinaptica che il suo socio aveva installata dietro l’orecchio destro: avrebbero potuto rintracciarlo con facilità.

– Fuso… – rispose Emil, con tono piatto.

Doveva avergli fatto male però quel sacrificio aveva fornito altri trenta secondi.

– Siamo fottuti, finiremo nelle Elettroliste… – disse Sandusky con voce ansante: cercava nel suo zaino, accucciato accanto a un riciclatore di proteine, un cilindretto metallico. Quando lo trovò, lo strinse con tutta la forza che aveva.

– No. Tu no. – rispose Emil troncando la comunicazione.

Sandusky rimase appoggiato al sudicio bastione esterno del N.A.V. con il cellulare in una mano e la siringa pneumatica nell’altra. Alcune gocce imperlavano lo schermo del telefonino, l’acciaio dell’iniettore, i suoi vestiti: s’era messo a piovere. Smontò l’aggeggio elettronico e lo distrusse con cura, gettò i pezzi in un grosso container rosso scrostato. Restò un attimo a osservare l’ago e alla fine se lo piantò nella coscia, percependo il siero che veniva inoculato. Ci volevano giusto un paio di minuti affinché le informazioni contenute nel passaporto diplomatico si fissassero al genoma. Pensò, ancora incredulo, alla scelta di Emil. Quella testa di cazzo se li sarebbe tirati dietro, avrebbe fatto da esca. In condizioni abituali, si sarebbe scommesso su H0udin1, che sarebbe riuscito a seminarli nell’arco di una settimana. Ricochet Ronin era morto però e questo cambiava lo scenario. Essere nelle Elettroliste significava non potersi fidare testualmente di nessuno, era una taglia permanente che alle solite opzioni “vivo o morto” aggiungeva “formato C.L.V.”: anche il Costrutto era accettabile. Le Elettroliste erano brevi, pochissimi individui avevano avuto il dubbio onore di esservi iscritti e non decadevano. Mai. Emil era da solo, per tutti i giorni che gli rimanevano. Era a tutti gli effetti Schrödinger: ne aveva utilizzato il ragionamento e adesso nessuno era in grado dire se fosse vivo o morto.

– Signore! Guardi lo scanner, glielo chiedo per l’ultima volta! – urlava uno sbirro, brandendo la familiare sagoma dell’omni-drive. Al fianco destro, un fucile Sig-Sauer a ultrasuoni penzolava minaccioso.

L’hovercraft blindato era atterrato a meno di dieci metri da lui, nel vicolo zuppo d’acqua, grasso sintetico e cherosene, e non se n’era accorto.

Sandusky inspirò, venne percorso da un brivido di freddo e fissò il lettore.

– Positivo! – disse l’agente all’intercom.

Il lettore lo aveva riconosciuto come A.J. Gesualdo, cybertecnico dell’O.N.U. in congedo per via di un piccolo esaurimento nervoso.

– È lontano da casa, Mr. Gesualdo… – fece lo sbirro con sospetto. La sua voce era metallica, distorta dall’amplificazione del casco da combattimento; l’arma guadagnò qualche grado in avanti. Gesualdo risultava residente in Spagna, poco all’esterno delle Città Lineari, e non si va in vacanza nelle Zone.

Sandusky si stava rimettendo lo zaino, vide il suo riflesso nell’elmo cobalto e rispose

– È stato un periodaccio… –

La tuta a piastre blu restò immobile, come se l’input fosse troppo complicato da decifrare. Alla fine, il poliziotto abbassò il fucile e disse con filosofia

– Passerà. Passano sempre. –

Corse via all’improvviso, richiamato nel velivolo dal suo superiore, probabilmente.

Sandusky/Gesualdo seguì il mezzo aereo sollevarsi tra le grottesche geometrie del loro mondo-alveare, kevlar e titanio che incontravano e deviavano la pioggia in spruzzi giocosi, accozzaglie di atomi in moto relativo.

– Se lo dici tu… – disse infine rivolto allo sbirro. Tirò su il cappuccio e mentre si avviava nel flusso delle Città cercò di decidere, a dispetto della tragedia in cui era stato coinvolto, se aveva più fame o più sonno.

“Sonno.” si confessò “Decisamente sonno.”

Che figli di puttana… Nemmeno quarantott’ore ci hanno messo a farsi vivi…

Aveva ragione Emil; quelli della Vesper se l’erano legata al dito e anche stretta.

Per tre anni sono rimasti in agguato, pazienti e vigili, e quando si è presentata l’occasione erano già pronti. Avevano spie umane e sintetiche in tutte le Città e in molte Colonie: la notizia che il C.L.V. di Sternenstaub era improvvisamente apparso sulla Terra ed era in mio possesso non passò inosservata. La faccenda però non è andata esattamente come volevano o come si aspettavano e, soprattutto, non come speravano. Dopo l’assassinio colposo di Ronin e l’iscrizione alle Elettroliste, per un anno intero, Schrödinger sembrava essere scomparso, evaporato, cancellato. L’ho cercato sul serio…  Cazzo, ha crackato il suo primo database per me, per infilarmi di straforo in un elenco ristretto di candidati idonei al trapianto di pancreas. Certi gesti non te li puoi scordare, fine della storia…

Nel frattempo, ho avuto il mio bel daffare per adattarmi alla vita civile. Il calcio in culo dei passaporti diplomatici è che sono monitorati oltre che garantiti: come Antonio José Gesualdo dovevo espletarne le mansioni (visto?! “espletarne”…) ovvero fare il tecnico per l’O.N.U..

L’identità Gesualdo era un mio piccolo vanto e anche un’uscita di emergenza niente male perché era “vergine”: nessuno lo aveva mai incontrato o ci aveva mai parlato, era un fannullone raccomandato, sempre in malattia, che avevano parcheggiato in un merdoso e inutile settore tecnico delle Nazioni Unite… Vecchia scuola non tradisce.

A ventidue mesi dal suo passaggio alla condizione di antonomasia, iniziai a trovare tracce di intrusioni con strascichi ironici nel Nocciolo della Mateba Corp.; una I.A. militare della τ-Police, Honey Sentry, iniziò a raccontare barzellette sconce; ogni residente dell’Interzona 418 si trovò 1467,00 crediti in più sul proprio conto. Parlavano di terroristi degli Ammassi, sette movimentariane, hijacker impazziti… Stronzate. Quello era Emil che si faceva quattro risate.

Tre mesi fa, un biglietto di shuttle a lunga percorrenza intestato ad A.J. Gesualdo è stato pagato dalla O.N.G. coloniale “Rainbow Dharma”, in stretti rapporti con i Neuromanti. Diciamo che era un invito neanche troppo nascosto; Emil richiedeva la mia presenza fuori dal pianeta, nel punto lagrangiano L2. Era mascherato da viaggio di consulenza pro bono e portava all’avamposto ottaedrico Kaleidos Scope. Era una trappola, ci avrei scommesso le chiappe ma decisi di fidarmi anche perché non avevo molto da perdere a parte le cuoia. E di certo non ho voglia di campare in eterno. Poteva esserci una remota possibilità che fosse davvero Emil e tanto mi bastava.

Un viaggio rilassante di un paio di giorni, coccolato in prima classe su un’astronave classe Polaris e il pensiero della sbirraglia che mi braccava all’atterraggio.

Invece, c’era lui ad aspettarmi, con un improbabile cartellone scarabocchiato a mano, manco fossimo nel XXI secolo. Il cretino aveva scritto “Sandusky”, tirandoci sopra due linee pesanti e sotto aveva marcato a dovere “Gesualdo”. Era in forma strepitosa. Si era lasciato crescere i capelli, i muscoli sembravano più tonici ed era pure abbronzato…

Portava delle infradito di canapa, giacca e pantaloni di lino beige e una leggera camicia color mattone. Guardai i miei abiti da terrestre, spenti e smorti; la mia carnagione pallida e un po’ plastica: mi serviva una vacanza…

Mi venne incontro tutto sorridente e mi abbracciò.

– È bello rivederti in carne e ossa, Sandusky. – disse con emozione.

Gli strinsi un braccio per assicurarmi che fosse consistente.

– È bello vederti, mostro. – risposi con un piccolo groppo in gola.

Rise di gusto e mi si agganciò alla mano, scuotendomi.

Uscimmo dal gate ed Emil mi condusse verso un maglev pubblico che sfrecciò verso il mio albergo. Quattro minuti dopo effettuavo il check-in al “Barrio Bravo”, un hotel a mille stelle, a forma di bassa ziqqurat e immerso nel verde. Mentre mi davo una rinfrescata, pensavo alla spavalderia con cui ci muovevamo: scorrazzavamo in giro senza badare alle olocamere, ai sensori biometrici, alle stesse pattuglie di Kaleidos. Se il mio amico, responsabile della creazione di un nuovo tipo di crimine e incluso nelle Elettroliste, non se ne curava allora potevo fottermene serenamente anch’io.  Andammo a pranzo in un ristorante poco lontano, non ricordo il nome ma molto carino: aveva i separé di autentico bambù organico e affacciava su un fiumiciattolo. Il nostro tavolo era su un terrazzino riservato, coperto da un ombrellone bianco. Emil ordinò un Bloody Mary per me e uno analcolico per lui: seguiva una dieta molto rigorosa. Mentre mangiavamo, mi raccontò cosa gli era capitato in quegli anni. Subito dopo la nostra separazione, Schrödinger aveva cercato di risalire il pozzo gravitazionale per posti meno orientati al rispetto delle regole ma si era fatta dura: aveva trovato una solida e fitta rete di ricerca che gli stava col fiato sul collo. Almeno in un paio di occasioni si era considerato spacciato, trovando aiuti inaspettati: una porta che si sblocca al momento giusto, un provvidenziale black-out circoscritto, un chip di spesa anonimo. Erano i Neuromanti, lo erano sempre stati. Ci tenevano d’occhio e da un bel pezzo. All’epoca mi sembrò un’esagerazione: i Neuromanti veniva considerati come un tecnoculto marginale, dediti alla venerazione delle I.A., privi di un qualsiasi reale potere… Immaginarsi se potevano starci dietro…

– Starai scherzando, vero!? Questa stazione è loro, la governano. Tutti i residenti sono adepti inclusi gli sbirri. Merry Mother Mildred è costruita con i C.L.V. di alcuni tra i loro più venerabili maestri. Hanno una varietà d’interessi da sballo, stanno codificando un’arte marziale anti-cyborg , l’Inertial Kenpō, mica da ridere e io sono in debito, come avrai capito. –

La filosofia dei Neuromanti era pressoché sconosciuta ma ho scoperto, nella sostanza, che essi considerano la Nuvola come una sorta d’incubatrice dalla quale sorgerà una nuova forma di vita. Reputano loro dovere proteggere, sostenere e accompagnare la nascita e lo sviluppo di questa/e creatura/e, qualunque via il Karma decida di intraprendere. Emil aveva posto fine a un’esistenza digitale, aveva eliminato una possibilità, e doveva fare ammenda, doveva rimediare. E qui la faccenda prese una piega ancor più strana, nel momento esatto in cui si arrotolò le maniche della camicia. Tatuaggi di forme nette e definite, rettangoli, quadrati e qualche cerchio, decoravano le sue braccia. Doveva averne altri, sulla schiena e sulle gambe; quelle sole batterie molecolari sarebbero bastate a sostenere un cervello umano per qualche minuto e per un Gideon Backup potevano essere necessarie ore di funzionamento encefalico indipendente. Alcuni lo chiamavano Gideon’s backup, tanto per far capire che neanche sul nome c’era sicurezza. Ne avevo sentito parlare, racconti della Matrice per la maggior parte: lo stoccaggio completo e totale della personalità umana. Un C.L.V. è un riassunto breve, poche stringhe caricate in un modesto bio-server, paragonato a quella procedura. I Costrutti erano dei costosi ninnoli per i ricchi: servivano a personalizzare le interazioni con un’Intelligenza domestica, per esempio, replicando i tratti di una persona cara. L’utilizzo più proficuo per un C.L.V. era lo stampo logico-neurale di una I.A.: faceva risparmiare un sacco di tempo e quindi di denaro. L’ultima spiaggia della disperazione è mettere a disposizione il proprio C.L.V. perché una simile mole d’istruzioni non si può duplicare, deve essere trasferita. Se il tuo Costrutto è in vendita, allora sei morto.

Si diceva che effettuando il Gideon Backup, l’interezza del singolo individuo veniva riprodotta in particolari sezioni della Nuvola… Ho pensato che Emil fosse vittima di una di quelle patologie relativamente moderne legate all’abuso della connessione. I casi di cyber-gender erano in aumento esponenziale: un numero sempre crescente di esseri umani non si rispecchiava più in tale definizione e trovava maggiori affinità con le Intelligenze della Nuvola. Ditemi voi se il Gideon Backup non è lo stadio definitivo di questa schizofrenia… Non dissi nulla, mi limitai a masticare del ghiaccio: non potete capire il fastidio che provoca quel rumore a Schrödinger.

Sghignazzò e poggiò la guancia su un pugno. Sbuffò con pazienza.

– Lo so cosa stai pensando, ma non sono impazzito te lo garantisco. Nell’adempiere al mio compito e grazie all’appoggio dei Neuromanti, ho avuto modo di fare una scoperta da jackpot… Ho trovato i Confini, Sandy. I Confini della Nuvola… –

Credo di essermi sporto fino a metà tavolo visto che stavo sopra il piatto del mio amico e sospetto che la mia espressione basita non necessitasse di didascalie. Restai un attimo in contemplazione del panorama: sul fiume si stava preparando una gara di canottaggio. Un altro mito del cyberspazio: la Nuvola si rigenera in continuazione, non può avere limiti visto che può curvarsi su sé stessa se necessario. Un waverider dovrebbe essere più veloce dell’onda che cavalca e ciò implica che dovrebbe essere più veloce del suo stesso pensiero…

– E non è finita qui.  – disse mentre mi rimetteva a sedere.

Tagliò con perizia una fetta di ananas e ne mangiò un paio di cubetti.

– Non si può essere più rapidi della propria mente, è impossibile. Ho capito che l’unico modo per raggiungere i Confini è crearli, modulando l’onda olistica. Per un istante, sono esistito al di fuori della Nuvola. E c’era qualcuno ad aspettarmi. –

– Chi? – domandai con un filo di voce, rapito dalla favola.

– Ha detto di essere uno spazio di Hilbert complesso ma non sofisticato. Non è di queste parti… – mi rispose con un ampio ghigno.

– Una battuta da matematici… – spiegò terminando la frutta.

– A quanto pare, l’evoluzione riserva strane svolte. Ho deciso di raggiungere questa entità e per farlo ho bisogno del tuo aiuto. Ti ho chiesto di raggiungermi per due motivi. Il primo è il Backup: funziona a strati ed essere in tua compagnia stimola reazioni corticali profonde. È quasi completo ormai. –

Fece una pausa e si scostò i capelli castani dal collo, in corrispondenza dell’orecchio sinistro: una piccola chiocciola dorata, un’antenna wireless bio-compatibile.

– Il secondo è che voglio che sia tu ad occuparti del mio C.L.V. quando sarà il momento. Portalo alla Vesper, sono certo che gradiranno. –

Backwing, ecco come si chiama: un socio che tradisce l’altro. Mai stata roba per me. In poche parole, Emil Sternenstaub mi stava chiedendo di prendere parte al suo coreografico, complicato, esagerato e inutilmente spettacolare piano di suicidio.

Mi feci convinto che si fosse arreso e che quello fosse il suo modo per alzare bandiera bianca. Non la presi bene, sono sincero.

Sbattei il bicchiere sul tavolo, il fracasso fece volare via un gruppetto di colibrì dentro un cespuglio sul sentiero sotto di noi.

– Non sono tipo da backwing. Dovresti saperlo. – borbottai.

Emil si appoggiò allo schienale, le mani in tasca, le gambe accavallate larghe.

Mi guardò dritto negli occhi con una luce che non avevo mai incontrato.

– Come essere umano, ho delle lacune. Mi manca potenza di calcolo e la capacità di gestire quest’eventuale risorsa. Un’Intelligenza creata con il mio Costrutto sopperirebbe magnificamente a questo difetto. Il Gideon Backup mi manterrà integro e mi fonderò con la personalità virtuale. Il mio ultimo scherzetto alla Vesper. –

Sorrideva beato con le mani sulla nuca, rilassato e sicuro.

– Bella teoria. Lo farai senza di me, in ogni caso. – dissi mentre mi alzavo per andarmene. Non avrei preso parte a quella follia, giurai.

– Sandusky, fra trenta giorni a partire da oggi, torna a casa. Prenditi un panino. –

Voltai le spalle e mi allontanai, molto deluso lo ammetto.

Ho creduto che i Neuromanti lo avessero plagiato, che gli avessero fatto un irreversibile lavaggio del cervello. Girando a sinistra per scendere le scale, incrociai la figura di Emil che mi salutava con la mano.

– Vieni a cercarmi se hai le palle! – esclamò sparendo dalla visuale.

Rientrai nelle familiari viscosità meccaniche delle Città e aspettai. I ventisette giorni più lunghi della mia vita. A questo punto, siamo tornati all’inizio della storia.

Dovetti accettare i soldi della Vesper, per rendere credibile il backwing ma non li tenni: li lanciai tutti nel Guanto e mi ubriacai per una settimana di fila. Nel giro di un mese dall’acquisto del C.L.V. di Emil, le teste d’uovo della Vesper organizzarono una presentazione su scala extra-globale del loro nuovo prodotto, il termine di paragone per le future generazioni di I.A.: Steady Samurai.

Ho atteso quell’istante senza respirare, nel mio bilocale.

Non appena Steady Samurai andò on-Cloud, il pianeta Terra si spense.

Le Intelligenze tacquero impaurite, rannicchiate nei loro mainframe.

Per sette minuti, la Nuvola cessò di esistere. Non si registrarono perdite: le disconnessioni avvennero gradualmente. Gli strumenti medici e le fonti energetiche rimasero intatti e funzionanti. Non vi furono incidenti tra veicoli né fusioni dei noccioli. Tutte le luci, di qualunque genere e forma, a prescindere dalla sorgente di alimentazione, furono disattivate. Chiunque avesse voluto, avrebbe potuto guardare in alto. E avrebbe potuto vedere, tra nubi e inquinamento, le stelle perché erano ancora lì, brillavano ancora…

I bio-server di Steady Samurai si sono scoperti vuoti. Non formattati o manomessi.

Vuoti.

Mi piace pensare che sia stato l’ultimo saluto di Emil.

Non so dire cosa il mio amico sia diventato o se sia ancora vivo.

Non so immaginare dove possa essere, in quale tempo o dimensione.

Non so se avrò mai le palle per raggiungerlo…

Non so se le forme di vita base di carbonio stiano diventando obsolete o lo siano già.

Non riesco nemmeno a dare un senso a questa situazione incredibile…

Non sono sicuro che tutto questo sia successo, a dirla tutta…

Quello che so è che è meglio tirare su il cappuccio.

Inizia a piovere.