di Mauro Gervasini

MostraDelCinema.jpgLa passata edizione della Mostra del cinema di Venezia resterà negli annali per due motivi: il verdetto della giuria presieduta da Quentin Tarantino, che ha premiato solo amici e sodali dimostrando oltretutto una certa strafottenza («Avessi avuto un ulteriore premio l’avrei dato a Takashi Miike» ha affermato Quentin; se passavano dal Lido la segretaria o la tata, premiava pure loro); e l’elevato numero di pellicole italiane nelle varie sezioni. Ben 41 tra lungometraggi e corti. Numero spropositato o effettiva, improvvisa ricchezza della cinematografia nazionale? Si lamenta l’amico sceneggiatore di uno dei film in questione: «Proporre 41 titoli italiani è come non proporne nessuno». Forse. Ma è un fatto che mai come quest’anno si sia dimostrata una vitalità impensabile, dati i tempi che corrono.

I tempi che corrono

Non è un luogo comune. Come da più parti si fa notare, il cinema italiano è sotto assedio. Meno di 70 milioni di euro all’anno i soldi del Fus (Fondo unico dello spettacolo) riservati alla settima arte dopo i numerosi tagli imposti dal ministro Tremonti. Precariato diffuso tra le maestranze. Difficoltà di sviluppare nuovi progetti. Distribuzioni ostaggio di un duopolio (Rai Cinema-Medusa) che in realtà è un monopolio, dal momento che Rai Cinema e l’affiliata 01 si stanno dimostrando inefficienti. Soggetti esteri costretti a scendere a patti con la realtà monopolistica italiana come in nessun altro paese occidentale (i multiplex della catena americana Warner Village sono ormai per metà di Medusa). Scarsezza cronica di investimenti privati nonostante l’introduzione delle agevolazioni fiscali (per ora il tax shelter, in futuro si spera anche il tax credit). Atteggiamento della politica. Quest’ultimo è un punto particolarmente dolente. Da mesi è in atto una campagna diffamatoria, e in alcuni casi persino intimidatoria, da parte di settori del governo nei confronti del cinema italiano, descritto come un coacervo di parassiti che campano a spese dello Stato. Facile per chi tiene i cordoni della borsa (specie se la si è svuotata) gridare allo sperpero, così da crearsi un alibi per i mancati investimenti. Quello del cinema è percepito come un ambiente ostile (perché sarebbe «tutto di sinistra») contro il quale si rischia poco in termini elettorali. Quindi, via alla guerra senza quartiere. Spesso i film vengono preventivamente criticati da scranni istituzionali.
Emblematica una frase del sottosegretario ai Beni e alle Attività culturali Francesco Giro a proposito di Vallanzasca — Gli angeli del male di Michele Placido: «Sono convinto, senza averlo visto, che si tratti del solito fumettone, prodotto della fiction a tutti i costi, una replica furba e malriuscita di Romanzo criminale, trasferita da Roma a Milano». La critica è ovviamente legittima, ma è quel «senza averlo visto» a dettare la linea generale del Ministero della Cultura. In occasione dell’ultimo Festival di Cannes, Bondi contestò pubblicamente la presenza in selezione ufficiale di Draquila di Sabrina Guzzanti, «senza averlo visto». E sempre il ministro, interpellato dal “Corriere della Sera” in occasione della sua vistosa assenza dalla Mostra del cinema di Venezia, ha dichiarato che era con Ugo Tognazzi l’ultimo film italiano apprezzato. Tognazzi è morto da vent’anni. Atteggiamenti e provocazioni che si commentano da soli.

Eccellenze

Nelle varie sezioni della Mostra, tra i titoli italiani visti, ce ne erano di eccellenti. Noi credevamo di Mario Martone. Tratto dall’omonimo romanzo di Anna Banti, mai ripubblicato negli ultimi 30 anni, è un lavoro televisivo nella più alta accezione del termine. Seguendo l’esempio delle produzioni “pedagogiche” di Roberto Rossellini (Vanina Vanini, La presa del potere da parte di Luigi XIV), il regista sceglie di raccontare la vita di figure “piccole” (tre giovani patrioti) a confronto con i grandi sommovimenti della Storia. Il risultato è un problematico affresco del Risorgimento che nella sua drammatica incompiutezza getta le fondamenta dell’Italia di oggi.
La solitudine dei numeri primi di Saverio Costanzo. Per chi scrive, la sorpresa del festival. Stravolgendo il modesto best seller di Paolo Giordano, il film è prima di tutto una grande riflessione sugli archetipi della fiaba. Un horror tra il Kubrick di Shining e L’uccello dalle piume di cristallo di Dario Argento (di cui torna, ossessiva, angosciante, la musica). L’horror come genere politico, il solo che possa rappresentare la levatrice per antonomasia di traumi e fobie, vale a dire la famiglia, quella che costringe Pollicino e i suoi fratellini a perdersi nel bosco.
La pecora nera di Ascanio Celestini. Storia di Nicola, nato negli anni Sessanta, prima della legge Basaglia, e “dimenticato” dalla madre schizofrenica in un manicomio, o con termine più gentile, oggi, centro di igiene mentale (religioso). Tratto da un testo teatrale dello stesso Ascanio, ma sviluppato sul grande schermo con gusto squisitamente cinematografico, è un film da non perdere perché con la scusa di un pazzariello interpretato dallo stesso Celestini racconta di noi, di come siamo ingabbiati nelle disillusioni (i “favolosi” anni Sessanta mai diventati realtà), assediati dalla paura del contesto “normale”, senza più sogni a disposizione.
El sicario — Room 164 di Gianfranco Rosi. Impressionante documentario su un killer dei narcos messicani. Incappucciato per restare anonimo, chiuso tra le quattro mura della camera di un motel in passato adibita a luogo di tortura, il criminale dissociato (ma non pentito) ricostruisce il suo imprinting con la morte e l’orrore e con agghiacciante nonchalance disegna su un foglio schemini che riproducono operazioni delittuose, traffici di droga, violenze inenarrabili. Dalla banalità alla compiacenza del male.

Bagliori

Questi dunque i titoli italiani che ci sono piaciuti di più tra quelli visti. Va detto però che altre opere, magari irrisolte, hanno riservato momenti di ottimo cinema, spunti di riflessione non banali, squarci di vitalità non pervenuti in altre cinematografie (tipo quella nordamericana, sempre più in caduta libera anche nella categoria “indie”). Citiamo soltanto, e in ordine sparso, Il primo incarico di Giorgia Cecere, Gorbaciof di Stefano Incerti, Sorelle mai di Marco Bellocchio, Tajabone di Salvatore Mereu, L’amore buio di Antonio Capuano…
Una pattuglia non sperduta che può in alcuni casi aver diviso i cinefili del Lido ma non ha lasciato indifferenti. Sorprende casomai che la critica — ammesso esista ancora un’entità simile — non si sia accorta di quel che accadeva tra le pieghe del programma. Da quanti anni in concorso non c’erano tre titoli italiani su quattro pienamente convincenti? Da quanti anni nelle sezioni collaterali — in particolare Orizzonti, snobbata dai giornalisti — non ci si imbatteva in film così coraggiosi e importanti, specie per la ricerca di strade espressive inedite? Da quanti anni il dibattito sul cinema italiano riusciva ad andare finalmente oltre il solito — a volte giustificato, per carità — piagnisteo?

La critica

La critica cinematografica non esiste più. Non ci sono più intellettuali appassionati che intorno al cinema sappiano ancora creare discussione. Mancano totalmente le figure di riferimento. Pur dando atto a Mereghetti (l’uomo, non il dizionario) di resistere con coraggio sulle pagine del “Corriere della Sera”, relegato però al solo commento del mainstream (ovvero dei film in concorso, senza nessuna possibilità di scoprire se vi sia qualcosa di degno altrove), è sconcertante il panorama degli altri quotidiani.
Una delle penne più vivaci d’Italia, Valerio Caprara, è stato quest’anno estromesso dal suo ruolo perché il quotidiano per cui scrive da trentuno anni ha deciso di fare a meno di lui, potendo usufruire di un altro giornalista già inviato da una testata sorella (beninteso, senza che nessuno si sia domandato quale dei due fosse più bravo).
Le pagine di cinema di “Repubblica” sono imbarazzanti. I lunghi scritti di Natalia Aspesi – sempre sospesi tra l’invettiva in bella prosa, il biografismo colorato, la narrazione minuziosa fino allo spoiler delle trame — possono certamente accontentare i lettori e le lettrici di lungo corso della grande giornalista ma nulla hanno a che fare con la critica e il racconto del cinema. Altri quotidiani si barcamenano con le firme nobili di ottuagenari che non mollano, recensori improvvisati o semplicemente penne che fanno il loro onesto lavoro senza però mai fare la differenza. Lo sa bene Marco Müller, che infatti la conferenza stampa (l’unica a manifestazione iniziata) l’ha voluta fare con il popolo cinéphile dei siti internet (comunità autoreferenziale ma ormai imprescindibile perché fa numero, “massa”).

Festival

Alla fatidica domanda: «servono ancora i festival di cinema?» rispondiamo senza esitazione. Sì. Chi sostiene il contrario è ipocrita. Non perché i festival concepiti come lo sono oggi non presentino problemi e magagne, anzi. Lo strapotere del “mercato” – l’occasione per buyers e produttori di fare affari – impone le agende anche dei direttori artistici, e questo è certo un male. Tuttavia hanno ancora una enorme rilevanza sociale e culturale. Da un punto di vista esperienziale, il festival permette a moltissimi ragazzi di vivere per dieci giorni insieme e attorno ai film. Chi ne ha avuto una frequentazione dal basso (a spese sue, in campeggio, in appartamenti o camere di fortuna, perfino in spiaggia se location e clima lo permettono) sa di cosa stiamo parlando.
A contare in questo senso è soprattutto lo “spogliatoio”: i legami e le amicizie che si creano, lo scambio culturale e umano. Per gli appassionati di cinema i festival offrono la possibilità di vedere film che altrimenti resterebbero invisibili. Questo punto è fondamentale per svelare un’altra clamorosa ipocrisia del nostro tempo. Si dice che su internet ormai si trovi tutto, ma davvero in questo caso tutto è sinonimo di nulla perché se non sai cosa andare a cercare e perché, continuerai a navigare come un naufrago in balia della corrente. I festival servono a questo. Ci sono persone che cercano i film e te li propongono. Novanta tutti assieme in dieci giorni. Non ci si potrebbe riflettere su, magari trasformandoli in una vera occasione di turismo culturale (calmierando i prezzi e lavorando sulle strutture di accoglimento) a partire proprio dal Lido? In fretta però, prima che Venezia affondi.