di Giuseppe Genna

siticover.jpgTroppi paradisi nella terra in cui, da tempo, di paradiso non si scorge l’ombra. Il titolo ironico (no: sardonico) del nuovo romanzo-mondo di Walter Siti è, come spesso accade per certi libri fondamentali, tutto il testo e la struttura che lo sostanzia. Non c’è soltanto il cinismo, il disincanto, la cattiveria che ride al pari della morte; c’è anche l’ombra di una speranza che si erige su ceneri attive (radioattive) di una memoria che è esperienza consumata, la traiettoria del degrado di un tempo, di una nazione, dell’occidente tutto – e di sé.
Complesso, strutturatissimo, scritto con una lingua capace di un’ampiezza di spettro impressionante – dall’aulico-sublime al basso-parlato, spesso entrambi i registri giocati sul comico, quando non sul drammatico meditativo o sul saggistico -, Troppi paradisi è in assoluto il primo esempio di postmodernism in Italia da molti anni a questa parte: non sfiorando mai, se non in un punto preciso, che merita trattazione a sé – il tragico, trova una forma per il tragico nella contemporaneità. Questo è ciò che la critica italiana non ha mai compreso, citando un postmoderno che non è mai stato l’equivalente del postmodernism angloamericano. Siti riesce nell’impresa, aggiungendo ciò che agli angloamericani non riesce: stende un romanzo che può dirsi pensiero in movimento e che commuove.

waltersiti.jpgAccenni vaghi alla trama, che potete reperire altrove facilmente. Il protagonista è Walter Siti, l’uomo, il critico, l’intellettuale, il temuto barone della lobbydella Normale di Pisa, il curatore degli scritti pasoliniani, il gossipparo che è capace di sputtanare chiunque (vedasi il secondo exergo del libro, un passo da una lettera del responsabile einaudiano Ernesto Ferrero: “Faccia il mostro, e non rompa le scatole”): la maschera Walter Siti, in pratica, sorretta con entusiasmo disincantato e difensivo fino alla stesura di questa cronistoria tutt’altro che dolce, che è la vicenda di come la maschera si corroda, per congestione, per stanchezza, per troppo di mondo. In questa postura precisa della stanchezza, Siti raggiunge d’un balzo l’estrema avanguardia della narrativa italiana, cioè il nuovo ragionamento sull’io che delira e allucina il mondo, nell’incertezza della percezione non tanto come rappresentante di oggettività o, all’opposto, di relativismo che libera poetiche dell’assurdo, quanto di apertura alla domanda su cosa sia in sé, quali porte spalanchi (e senza stupefacenti che non siano le storie, la moltitudine di storie in digressione infinita) il semplice fatto di percepire.
Andrà letto sotto questa lampadina dal filo di tungsteno malcerto, il memorabile incipit (“Mi chiamo Walter Siti, come tutti”). Memorabile, perché plagio, e perché plagio dichiarato qualche pagina dopo. Non viene dichiarato l’originale: è il “Je m’appelle Érik Satie comme tout le monde”. Da questo movimento di fac-similazione della letteratura, sortisce il medesimo movimento che rovescia la realtà in un’indistinzione tra verità e falsità, che ha perno sull’io, ontologicamente rappresentante di vero e falso: il professore universitario Walter Siti condivide una relazione omosessuale di stampo quasi coniugale con Sergio, uno dei personaggi letterari più indimenticabili di questi anni romanzeschi italiani. Operatore nel complesso retromondo della tv, Sergio attraversa una tundra cospiratoria via via comica, grottesca, a rischio psichico; e in parallelo, mentre degenera e risorge causticamente dimidiato nel mondo del piccolo schermo, ne segue l’andamento e il ritmo il disfacimento della relazione stessa con Walter Siti, scrutatore mai attonito della giungla complottista in cui le scimmie antropoidi passano da reality a format alternativi. E’ un decadimento della passione, della libido il cui impulso è stato comunque istituzionalizzato (nel rapporto con il proprio compagno) – allegoria di una grave meditazione sulla fine di se stessi e della società in cui si vive. La libido non è governabile e la scommessa di Siti si sgretola in maniera commovente secondo le tappe per cui la libido stessa, dopo l’illusione della sua praticabilità in calma (che sarebbe l’auspicato esito della sua istituzionalizzazione), non si scatena nuovamente, poiché il tempo è passato, sopravviene una bruma di non mattutina stanchezza, si cercano attraverso una disperata volontà le antiche frenesie, trasformandole nella loro parodia, qui resa attraverso fibrillazioni e isterie (nel senso protofreudiano del termine). La realtà è che l’io ha varcato una soglia fatale e nessun cinismo, nessuna delle usate (abusate…) difese, cinismo in primis, vale più a sostenere il piacere come principio di realtà: è la saturazione della libido.
Tuttavia non è attraverso Sergio e le sue emulazioni fallite di imprese donchisciottesche e catodiche, che Walter Siti supera questa soglia fatale. Il compimento (così come in Giovanni il tempo “E’ compiuto”) avviene nel buco bianco del romanzo: la morte del padre. Liquidata in una raggelante frase, che merita oltretutto un’osservazione linguistica:

Sta famosa esperienza archetipa, nel complesso, si è rivelata deludente.

Per via tematica, va detto che la morte del padre, percepita come deludente, è il cuore della saturazione libidica. La delusione, che annulla il processo energetico dell’elaborazione del lutto, erode i margini della metamorfosi e della rinascita, dell’assunzione del ruolo di padre (esperienza sfiorata con Sergio, per quanto compulsivamente enuncia con sospetta continuità il personaggio Siti), e quindi immette in una zona grigia in cui, essendo assente il no, il dolore, la sofferenza, non si può più crescere, non si può più appassionarsi. La depressione indotta dal lutto è anch’essa un momento transitorio in cui sembra che appassionarsi sia impossibile: ma è perché si è totalmente assorbiti da una passione unica, il lutto stesso, e si tratta di un’esperienza che non ha di fronte a sé (se non in casi patologici) l’indefinitezza della waste land. Siti, nelle poche, apparentemente distratte pagine dedicate alla morte e al funerale del padre, supera invece la soglia decisiva: il rovesciamento su che cosa sia egli stesso dopo questa delusione. Nemmeno l’archetipo lo scuote: per lui, l’ancestrale, che sarebbe l’archetipa violazione, è violato – non è interessante. Non c’è più rapporto con l’ancestrale. E questo è il motivo-guida del libro, che sviluppo subito dopo una superficiale osservazione di stampo linguistico.
Che è questa: a bella posta, Siti inserisce in quella dichiarazione di delusione due errori – uno sintattico e uno concettuale. Quello sintattico: la troncatura iniziale è errata, la sua forma corretta (poiché esiste una sintassi del basso e Siti ne ha dato fino a questo punto ostinata dimostrazione) sarebbe ‘Sta e non Sta. Questo errore di sintassi è a mio avviso un feticcio di atto mancato linguistico, il lapsus inserito a forza nel tessuto testuale: ha il valore di topica, intensifica la fac-similazione dell’esperienza a cui Siti allude, che sarebbe l’esperienza della scoperta di non potere più accedere a (o meglio: godere de) l’esperienza. Il secondo errore, concettuale, è invece il vero lapsus: “nel complesso” è un attutuente della verità che l’autore sta enunciando, poiché si dichiara che, sebbene in generale l’esperienza della morte del padre sia stata delusiva, non in toto si è dimostrata tale. Devono esserci stati apici di dolore in cui Walter Siti ha vissuto la morte paterna come tragedia classica. Questi apici non sono testimoniati nelle pagine dedicate al drammatico episodio. L’autentico nascondimento sta qui: qui è il buco del libro, il perno inesistente e vuoto che fa roteare intorno a sé, fino al discioglimento di ogni questione, l’universo di chiacchiera e realtà di cui Siti è attentissimo, superegoico, filologico demiurgo. Intorno a questo buco nero, prima che l’eccessiva gravità divori tutto, astri collassati incarnano le difese del passato, i bei tempi in cui la macchina e la maschera, cioè le dissimulazioni, funzionavano. Lo sguardo del protagonista scarica queste difese sugli intimi, o comunque sugli altri, in un’opera di disperata esteriorizzazione: “Mia madre gestisce la propria vedovanza come un piccolo capitale, più che un lutto un lusso” – ecco il cinismo scambiato per realismo, ecco la confessione fintamente piena, crudelmente più vera della verità. Ma è un residuo: il romanzo dimostra che è proprio questa macchina che si smonta, pezzo per pezzo, dapprima con l’arma bennota del cinismo autodirezionato (dopo essere stato eterodirezionato), poi con quella, gradualmente sempre più umana fino ai limiti dell’umano, della debolezza e quindi della pietà, cioè lo sfondo antropico, la sostanza specie-specifica (bisogna correre alle righe finali del libro per capire quanta pietà, verso gli altri e verso – finalmente – se stesso, sia il culmine di questo romanzo).
Accennavo alla questione dell’interruzione del rapporto con l’ancestrale. Siti declina questo motivo in ogni digressione, in ogni intorcinamento saggistico (sono brani impressionanti, per lucidità e scatti del pensiero) che interseca nel filato testuale. Non trovo soluzione ermeneutica all’altezza della citazione diretta, per la profondità a cui giunge Siti quando, nello smontamento della macchina egoica che conosceva e nel procedere a passi incerti in questa zona di indifferenziato non sapere e non sentire, scrive “più da sociologo ormai che da erotomane”:

Credo che si possa essere d’accordo, però, sul fatto che il grande progetto dell’Occidente, l’unicum che lo contraddistingue tra tutte le società umane, sia l’ambizione di costruire una convivenza senza Dio. Non mi vengono in mente altri esempi, forse la Cina confuciana, ma ho l’impressione che lì fosse un affare delle élite, e che nelle povere campagne gli dèi locali andassero forte. Da noi il progetto, consapevole o no, è di massa. Inutile controdedurre ricordando il successo del Papa, anche tra i giovani, e la devozione a Padre Pio, o Comunione e Liberazione o oltre. Sono, per quanto paradossale sembri, fenomeni residuali o di reazione; la gente stima gli uomini di chiesa, i santi, magari prega e va a messa, ma nessuno crede più davvero nell’esistenza di un altro mondo, col Paradiso e la resurrezione delle anime. Se ci credessero, vivrebbero in tutt’altra maniera.
Per resistere senza la speranza nell’aldilà, bisogna poter sperare nel paradiso in terra. […]
La merce come surrogato della felicità, non è certo una scoperta nuova: il romanzo di Zola dedicato ai grandi magazzini (1883) si intitola Au bonheur des dames. Ma più il tempo passava, più ci si rendeva conto che alcune cose non erano comprabili: le persone, gli oggetti troppo distanti da noi, i sogni, i rapporti umani. La falla rischiava di far abortire il progetto, o almeno di ritardarne l’avanzata trionfale; un modello di soluzione è stato fornito proprio dall’arte e dalla letteratura. Fin da quando Dio c’era ancora, e la realtà era puzzolente, bruta, refrattaria, l’arte garantiva una via di mezzo, un mondo alternativo informato a una ratio superiore. […] L’immagine, ecco la parola magica. Se si accettava che la realtà fosse sostituita dall’immagine della realtà, il paradiso in terra tornava ad essere possibile.
Se l’arte era capace di questo, non restava che ampliare il procedimento, soprassedendo sulla qualità e puntando a un’arte di massa. E’ quello che il Novecento ha lentamente ottenuto, col cinema, col design, con la pubblicità, coi video musicali; e alla fine col look, con l’estetizzazione dell’esistenza, col trasformare in spettacolo la stessa informazione, e l’economia tutta.

Rigorosa genealogia secondo tradizione postnovecentesca, di cifra soprattutto franco-tedesca. Ed ecco la svolta imperiosa, l’impennata delle onde di pensiero che Siti lancia sulla costa del finisterrae occidentale, abbandonando ogni tradizione filosofica, ogni fenomenologia accertata, e spalancando un’intuizione che renderebbe da sola questo romanzo imperdibile:

Il godimento artistico prevede una scissione dell’Io (io che credo alla finzione, io che non ci credo); sulla scissione dell’Io sono fondate le perversioni; ogni godimento artistico è strutturalmente perverso, come sosteneva Winnicott. Dunque, se l’Occidente ha instaurato un’estetizzazione di massa, questo vuol dire che il consumismo occidentale si fonda su una perversione di massa.
Ammettendo che la mia ipotesi sia corretta, ecco che gli omosessuali vengono a trovarsi al centro oscuro del teorema; sono i migliori interpreti dello Zeitgeist, sono avvantaggiati nel nuovo contesto come handicappati che si adattano meglio degli altri a condizioni mutate. […] Gli omosessuali sono condizionati da sempre a desiderare non una persona, ma un’immagine. […] Il loro oggetto d’amore è, per definizione, un surrogato: è la proiezione di un ircocervo originario, non esistente in natura, metà angelo, metà specchio e metà madre (sì, tre metà) – e quindi la loro non può essere la ricerca di un individuo reale, ma appunto di qualcosa che rimandi ad altro, e di cui si deve restare in superficie perché se andassimo in profondità scopriremmo che non è lui. Quale oggetto migliore di un’immagine, che una profondità non ce l’ha proprio? L’immagine, in quanto è limitata da un contorno che la preserva dallo sfilacciarsi in conseguenze e legami, è un infinito intensivo invece che estensivo, un infinito concentrato e addomesticato.
[…] L’omosessualità come avanguardia dell’integrazione consumistica; maestri di recitazione, nell’epoca della recitazione universale. E maestri di regressione infantile, nell’epoca dell’infantilismo di massa: se il consumismo è la lotta del conscio contro l’inconscio, dell’immaturità contro la maturità, gli omosessuali ne sono gli alfieri – nel loro sesso spiccio bruciano le sublimazioni sentimentali, come nel suo progetto di dominio il consumismo azzera le sublimazioni culturali.

Questa genealogia di specie nuova (a parte i prodromi di Huxley e, soprattutto, del Seme inquieto di Burgess) è la storia di una determinata ontologia dell’io: di un io che è particolare e individuato, ma altempo stesso tipico, e che ha nome, come tutti, Walter Siti. La sua devastazione, comminata al lettore per piccole dosi progressive, come un processo di mitridatizzazione, consiste nella discesa ad infera in quell’infinito addomesticato, sfondandolo, per scoprire che quell’altro immaginato, al fondo, non è lui. Siti mette in scena una commedia della paura, un’opera di arte e artesianesimo psichico, andando verso quella zona che, qui in Italia, ha un eccellente corrispettivo filosofico nella variazione che giorgio Agamben compie sulla categoria di “post-storia”, per esempio nel saggio L’aperto. Ciò consiste nel “trattare i fantasmi come cosa vera”, e qui non è Agamben, ma il medesimo Siti: “Da giovane ero limpido, illeso, perché me ne stavo seduto davanti alla realtà: io non toccavo lei, lei non toccava me”. Adesso, nonostante il recupero parziale dell’esperienza (un nuovo amore per Walter Siti: Marcello, che a rigor di termini doveva chiamarsi Walter: ma avrebbe rievocato il paradigma-specchio che Siti stesso richiama nella sua fenomenologia omosessuale…), qualunque affermazione si trasforma in domanda o in forma dubitativa: spalancamento dell’aperto che fa paura:

Svaluterò, inflazionerò, quando l’ingresso sarà moneta corrente? Riscoprirò la polis, la solidarietà, il futuro? Non credo. Forse da domani sarò un uomo peggiore.
[…] Ricordo la frase siderale di Beckett, in cui dice che il suo più grande terrore è sempre stato quello di “morire prima di esser nato”. Ora sono nato: da circa sette mesi sono nato. Se in più di mille pagine ho prodotto un sosia, era perché io non c’ero, non ci volevo essere: adesso ci sono. Ora che Dio mi ama, non ho più bisogno di esibirmi.

Le affermazioni del secondo periodo (tra le righe finali del romanzo) sono il residuo salino di ciò che si è discriminato attraverso le domande e gli sbigottimenti e l’autoabbattimento del primo periodo. Ecco righe che potrebbero fare da manifesto a ciò che sta accadendo alla nuova letteratura italiana: questo processo di discesa e risalita, in cui io e mondo sono la medesima inconosciuta realtà, è un momento sempre presente, il messianesimo secondo le categorie di Taubes o il Bardo tibetano, l’inframmezzo in cui la storia e le storie si fanno, attraverso cecità, per riemergere non con godimento estetico (nessuna perversione in quest’atto che non è creativo, perché disseppellisce e fa affiorare ciò che è già creato: nomi, forme, ritmi), ma con consapevolezza chiara, lucido sguardo di una trasparenza cristallina e, al limite, inquietante e pacificante allo stesso tempo.

Il postmodernism italiano compresso nelle 425 pagine di Troppi paradisi mi ha costretto a concentrarmi su nuclei che pertengono la teoria della letteratura, più che la descrizione oggettiva di che cosa sia in realtà questo romanzo. Questo romanzo è in diretta connessione con il Petrolio di Pasolini, ma con una clausola importante: rovescia le tesi più vetuste di Pasolini, ingloba laddove Pasolini esclude, non utilizza il de-fragmenting pasoliniano. E, soprattutto, sgancia definitivamente la figura autoriale di Walter Siti da ogni citazione giornalistica che tiri in ballo Pasolini: non c’entra niente Pasolini, se non a un livello così profondo che possiamo risalire alla sua radice atrabiliare percorrendo la nera schiena del tempo della letteratura: in Petrolio e in Troppi Paradisi (nonostante l’autore richiami Underworld a modello) si inscena l’esplosione di una provincia conchiusa e assoluta, che raggiunge un’estensione vastissima deflagrando, ed è la provincia luciferina dei Demoni di Dostoevskij. Il teatro umano e caricaturale (immenso sia in Pasolini sia in Siti) è un intrico non di massa, ma di folla semi-individuata, caratterizzata, allegorica, carnacialesca secondo le categorie di Bachtin (e non simile alle folle anonime di DeLillo).
Troppi paradisi di Walter Siti è a mio avviso il miglior romanzo di quest’anno, ma è certo che rimarrà nei prossimi anni, punto di riferimento vago, matrice carsica e sfumata, poiché la letteratura sta strutturandosi per dialoghi tra testi che configureranno non un museo, ma un arcipelago, con isole magari distanti tra loro, però in connessione, in sistema. L’aria non serena dell’ovest è il mare in cui questo arcipelago staglia le proprie cime laviche, ognuna delle quali non racconta se stessa – e questo è in definitiva il ritratto morfologico del miglior romanzo di Walter Siti.

Walter Siti – Troppi paradisi – Einaudi – 18.50 euro