SULLE ORME DI JOHN FANTE, DEI SUOI LIBRI E DELLA MEMORIA VENDUTA. UNA STRANA STORIA…

di As Chianese

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Fante è lo scrittore più maledetto d’America.”
Charles Bukowski

Non me ne vorrà il bravo cantautore Vinicio Capossela, se per il titolo di questo mio gli rubo qualcosa. Ma a differenza di tanti lettori, che questo Natale rincorrevano qualsiasi cosa avesse scritto tale Dan Brown, la mia vista ha avuto un breve seppur fatidico salto di qualità quando, tra gli scaffali del mediastore di turno, ho intravisto un libro di John Fante (1909 — 1983). Erano anni che aspettavo con impazienza la ripubblicazione delle opere di questo straordinario autore italo — americano. Uscito per la Einaudi, La Confraternita dell’Uva, è un libro che finalmente si può reperire senza problemi in qualunque libreria, un romanzo di incredibile bellezza e straziante malinconia che si dipana lentamente, davanti agli occhi del lettore, come fosse un intenso film di Michael Cimino, più che mai etnico.


Conosciuto dai fantiani di vecchia data come La Confraternita del Chianti, il romanzo fu pubblicato nel 1977, con grande favore di critica e pubblico tanto da incoronarlo secondo capolavoro dello scrittore di Denver, dopo il monumentale Chiedi alla Polvere (1939). A questo libro, all’epoca, si interessò per un adattamento cinematografico il Francis Ford Coppola fresco di Oscar per Il Padrino (1972), stimolato più che mai dallo sceneggiatore Robert Towne, fantiano sfegatato autore di quel capolavoro noir che è Chinatown (1974) di Roman Polanski, che gli valse l’Oscar. Storia autobiografica di amore e di odio filiale, La Confraternita è quanto di più populista e sincero possa esistere in letteratura, una tragica ballata che sfida all’unisono la schizofrenia e la logica, immolando la narrazione del presente a quei corsi e ricorsi storici della memoria personale (familiare) che sono tipici della produzione di Fante.
E’ la storia di Henry Molise, scrittore di successo dall’infanzia poverissima, che torna nella vecchia cittadina di origine per far visita all’amato/odiato padre, Nick il “primo scalpellino d’America”, che lo coinvolge in una folle impresa sui monti prima di morire di diabete e riconquistare l’affetto, o almeno la benevola memoria postuma, del figlio. Ma il vero protagonista è lui: il Chianti, il vino freddo di Angelo Musso che scalda i corpi nervosi degli italiani facinorosi della cricca di Nick. Questo nettare degli dei che offuscando il pensiero allevia le quotidiane fatiche, ma che lentamente perpetra (regala?) una dolce morte. Un perverso gioco di specchi in cui anche il liberale Henry, ben presto, si troverà invischiato. La morale de La Confraternita sembra essere quella che il sangue del proprio sangue, per quanto amaro possa essere, duramente si mastica ma non si sputa. Mentre il vino viene mandato giù tutto d’un fiato, a garganella, quasi come fosse una componente essenziale del sangue stesso. Ma non è l’elogio dell’alcolismo, è poesia. Allo stato puro.
Strano il destino di Mr. John Fante, figlio di un emigrante abruzzese originario di Torricella Peligna e di una italo — americana di seconda generazione. Quasi uno scrittore per necessità, che ha combattuto la fame facendo a Los Angeles i lavori più umili, sempre incoraggiato dalla penna benevola del critico e amico H. L. Mencken, che riesce a fargli racimolare qualche soldo pubblicando i suoi racconti sulle riviste di narrativa specializzate. John Fante è il suo alter ego: Arturo Bandini, aspirante scrittore con le pezze al culo, cattolico osservante ma poco convinto, che si trova catapultato a Los Ageles vivendo di stenti e cercando di mettere due frasi in fila per realizzare il suo sogno.
John Fante o della difficoltà di scrivere. Perché la sua trilogia avente come protagonista il suo alter ego, composta da Aspetta primavera, Bandini (1938), Chiedi alla Polvere (1939) e Sogni di Bunker Hill (1977) è uno studio sulla crisi creativa. Ma anche un complesso discorso tra l’ambizione e l’accettazione (degli immigrati) nella società americana. Iscrivibili alla lista dei capolavori anche la stessa Confraternita insieme all’ideale seguito Un Anno Terribile e quel Full of Life che divenne nel ’56 un delizioso film con Judy Holliday per la regia di Richard Quine, capace di meritarsi la candidatura all’Oscar per la sceneggiatura sempre ad opera di Fante. Traguardo prezioso per uno scrittore prestato ad Hollywood e mai restituito, che come William Faulkner e Raymond Chandler si dedicherà all’industria della celluloide con il puro scopo di poter vivere degnamente, di avere il frigo pieno. Nel 1975 sarà addirittura di ritorno in Italia per lavorare come sceneggiatore per Dino De Laurentiis.
Morirà di diabete come il suo Nick Molise ne La Confraternita, John Fante, l’autore che è presente più che mai nei libri di Charles Bukowski, il cattivo ragazzo della letteratura americana post – beat generation, che lo citerà nei suoi racconti e romanzi, che incontratolo per caso in una biblioteca si infatuerà a tal punto da fargli ristampare tutti gli scritti dalla Black Sparrow Press, per cui all’epoca pubblicava. Ed era oramai alla fine, il vecchio zio Hank quando accettò di farsi intervistare dalla nostra Fernanda Pivano. Ancora ricordava i libri dello scrittore di Denver e ancora era un loro supporter. Rimase inebetito quando si rese conto che la Pivano, famosa per la sua amicizia con Ernest Hemingway e per la sua conoscenze della letteratura americana, quasi non conosceva Fante.
L’autore di Post Office si rammaricò parecchio, per lui era impossibile che un italiano non conoscesse quello che per anni era stata la voce degli italiani d’America. John Fante, il figlio diseredato di una terra che non regala più sogni. Lo sceneggiatore per necessità, che scrive film per non restare affamato e affranto in qualche lercia stanzetta di Bunker Hill, con la mente sospesa sul da farsi: incerto se sgranare l’ennesimo rosario o farla finalmente finita. Quanto di più maledettamente “vero” la carta stampata vi abbia mai rivelato.

Il cinema ha omaggiato due volte i romanzi di fante. Col pasticciato e prolisso Aspetta Primavera, Bandini (1989) di Dominique Deruddère e Michael Bacall. Dove la sola Ornella Muti si cimenta adeguatamente col dramma fantiano, lasciando che professionisti come Joe Mantegna, Faye Dunaway e Burt Young si limitino ad un onesta routine recitativa. Ma la seconda occasione sarà riuscire a vedere al cinema quel Chiedi alla Polvere (2005) che lo sceneggiatore e regista Robert Towne ha appena finito di girare con Colin Farrell nel ruolo di Arturo Bandini, Salma Hayek e Donald Sutherland.

La strana storia, in cui in qualche modo mi trovo invischiato anche io, inizia così: nel più classico dei modi, a monte di una celebrativa monografia. Durante il Natale di quest’anno, io che ho avuto modo di leggere Angeli a pezzi e Agganci, i due libri di Dan Fante usciti miracolosamente anche da noi per Marcos y Marcos. Decido di mettermi in contatto col figlio dello scrittore di Chiedi alla Polvere, per tenere con lui un intervista via e-mail che sia la base di un saggio sulla letteratura e il cinema di John Fante. Supportato dal gentilissimo italo americano Dan Aspromonte, vengo presentato telematicamente al figlio di Fante che accetta con entusiasmo la mia idea.
Appena gli invio le mie venti, semplici, domande vengo messo al corrente di tale situazione: forse riceverò una sua risposta in estate in quanto occupato nella stesura di una sceneggiatura e un racconto, per rispondere alle domande ci vorrà all’incirca due settimane a alla fine (dulcis in fundo) Fante chiede 2000 dollari per realizzare l’intervista. Ovviamene gli dico di non disporre di tale cifra e che comunque la cosa mi lascia sinceramente esterrefatto visto che in sette anni di duro lavoro nella critica cinematografica, nessuno mi aveva mai chiesto un centesimo.
Fu così che Dan Fante mi chiese di inoltrare le mie domanda suo fratello Jim, con la speranza che mi dia una mano. Appena iniziamo a scriverci, Jim Fante mi premette subito che vuole un compenso per il suo lavoro. Io non so che faccia nella vita questo personaggio. Ma di sicuro non deve essere qualcosa di gratificante perché mi parla tristemente di “particolare situazione”, di “famiglia da mantenere” e “grande affetto ritrovato per il suo caro padre”. Dicendomi però, che con le sue risposte io avrei di sicuro trovato la giusta ispirazione per scrivere il mio saggio. Così facendo mi ritrovo ad inviare alcune delucidazioni in merito alla figura del saggista per come la concepisce l’editoria italiana. Gli spiego che con i 2000 dollari richiestimi dal fratello, oggi una famiglia italiana ci campa su per giù per due mesi. Che per il mio ultimo saggio, su uno scrittore unanimemente considerato uno dei più grandi della letteratura fantascientifica europea, ho dovuto penare come non mai e scendere a molti compromessi per riuscire a trovare un editore che lo pubblicasse. Perché oggi, in Italia, riuscire a stampare un libro di saggistica letteraria specializzata che non parli dei soliti grandi antichi è un vero e proprio miracolo.
Jim Fante capisce finalmente anche la mia “situazione” assicurandomi che risponderà alle mie domande. Se questo dovesse succedere pubblicherò in anteprima le risposte su Carmilla on Line, come dovutissima ricompensa a chi ha avuto la pazienza di leggere questa strana storia sulla scia di un sentito omaggio a un grande della letteratura americana.