di Federica Vicino

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– E cosa ci sarebbe laggiù?
– “Laggiù”?
– In questo ipotetico aldilà, che cosa c’è.
Stavolta gli venne da ridere. Laggiù
Si scostò, per quel poco che gli era possibile, dal microfono. Il telelaser gli si piantò di nuovo al centro della pupilla. Una lama sottilissima, colorata e caldissima infilata nell’occhio. Non doveva essere piacevole come sensazione.
– Non dovrebbe muoversi.
– Sì, ho capito.
Il telelaser oscillò appena. L’uomo cominciava a dar segni di impazienza.
– Non abbiamo altri mezzi, mi spiace.
– Sì, sì, va bene.
Stavano perdendo il filo del discorso. E Ratko non amava la conversazione. Meno che mai, quella.


La camera di analisi non era che uno stanzino: attrezzatura robotizzata, nessun contatto medico-paziente; si comunica con l’interfono; l’analista se ne sta al di là del vetro; osserva le reazioni leggendo dati dal monitor del computer. Questo a patto che il paziente collabori.
Ratko non sembrava collaborativo. Ma, soprattutto, non sembrava pazzo. Di questo, il dottor Mahueller era sinceramente sorpreso.
Aveva ascoltato la sua deposizione-fiume a bocca aperta; domandandosi come potesse una mente umana disporre di una tale fantasia. Un interrogatorio delirante, nel quale non c’era stata traccia di delirio. Piuttosto, quale razionalità nell’enunciazione dei fatti! Quale indicibile coerenza! Quale perizia nella citazione di accadimenti storici precisi: nomi, date, personaggi… nulla era risultato frutto della pura invenzione. No, decisamente ciascuno degli eventi storici che quel singolare personaggio aveva indicato nel suo racconto era effettivamente accaduto.
La logica aveva imposto un’analisi scientifica più accurata. Ratko era un essere vivente che prescindeva i più elementari principi della logica: ammalato di una non-malattia, oppure sano di una salute “ammalata”. Ma in ogni caso, fenomeno scientificamente inspiegabile. Questo aveva colpito il dottor Mahueller; questo lo aveva spinto ad indagare ancora sul “caso-chiuso Ratko Dirkler”.
Chiuso, sì. Perché la sentenza era stata pronunciata e Ratko Dirkler era stato giudicato colpevole e condannato alla pena capitale. E, data l’efferatezza dei delitti, sarebbe stato difficile immaginare un differente esito per quel processo.
– Lei poco fa sorrideva delle mie domande.
– Chiedo scusa.
Inoltre, a dispetto dell’atteggiamento sprezzante dimostrato con gli agenti del Servizio di Vigilanza Speciale della Polizia, l’uomo si mostrava singolarmente affabile nei confronti di Mahueller, quasi fosse ben disposto verso di lui.
– No, non si scusi, signor Dirkler. Mi dica, piuttosto, cosa c’era in quei quesiti che la induceva a sorridere.
Ratko fece un lungo sospiro. Telelaser a parte, stavolta doveva riuscire a guardare il medico dritto negli occhi. Non era facile, attraverso il vetro.
– Erano quesiti errati, e lei lo sa, dottore. — borbottò, dopo un’occhiata fulminea.
Una voce stanca rimbombava ormai nel microfono.
Mahueller spense l’interfono. Si rivolse all’assistente sanitario.
– Il paziente vuole parlare direttamente con me. Senza macchine. Io e lui, faccia a faccia.
– Non credo sia possibile, dottore. —gli rispose l’altro in tono asettico — Il prigioniero è sottoposto ad un regime di vigilanza speciale. E poi è estremamente pericoloso.
– Questo sì… – blaterò ancora Mahueller, ma era evidente che parlava ormai fra sé — Pericoloso sì, pazzo no.

Trascorse le successive 48 ore a rielaborare dati. Ascoltò e riascoltò. La voce di Ratko fluiva morbida dalla radiotrasmissione al sistema di elaborazione fono-dati del computer. Un flusso continuo.
Mahueller divorava cioccolata e spicchi d’arancia: mai come allora la sua dipendenza dal cacao l’aveva reso schiavo. Tavolette all’80%. Nerissime, e ancora più amare.
L’esame del computer non dava esito. Deduzione: non patologia psicanalitica in atto. Meno che mai neuropsichiatrica: per diradare ogni dubbio, il dottor Mahueller aveva richiesto un esame endoscopico dei tessuti molli. Risonanza magnetica con contrasto. Tutto negativo. Deduzione: non lesioni cerebrali tali da generare alterazioni del comportamento.
Il computer rielaborava in quel momento un passaggio curioso della seduta in camera di analisi, nel quale Ratko aveva detto:
– Lei, dottore, è dotato di un intuito particolare.
– Davvero? — aveva ironizzato Mahueller, naturalmente per dissimulare l’imbarazzo — E da cosa lo deduce, signor Dirkler?
– Dallo stanzino blindato nel quale mi ha cacciato per esaminarmi. — era stata la risposta.
Era seguito un silenzio. Poi Ratko aveva aggiunto:
– Lei, dottore, aveva intuito la pericolosità di un incontro tete a tete fra noi. Lei sa chi sono, o meglio che cosa sono, e cosa sono venuto a fare qui.
Già. Mahueller interruppe la registrazione. Non voleva sentirglielo dire ancora una volta. Trangugiò altra cioccolata. Durante l’interrogatorio, Ratko Dirkler aveva continuato a fissarlo con un’insistenza persino indiscreta. Aveva dichiarato che avrebbe parlato solo con lui e solo in sua presenza. E così era stato. L’avevano preso in parola. Un delinquente che cava gli occhi alle sue vittime prima di ammazzarle, d’altronde, ha più bisogno d’uno strizzacervelli che di un magistrato.
– Perché è lì che sta l’anima: negli occhi. — aveva dichiarato, rispondendo a domanda precisa.
Ed era quella, l’anima, che — a suo dire — gli stava a cuore. Catturare anime era la sua missione. Tradotto in termini pratici, era significato omicidi in serie: sei, per la precisione. Vittime apparentemente scelte a caso; dinamica analoga e agghiacciante: tutte si erano praticamente lasciate cavare gli occhi senza opporre la minima resistenza.
Mahueller supponeva, a tal proposito, che Ratko praticasse l’ipnosi. E persino con una certa perizia.
Il bello era venuto dopo, quando l’uomo aveva iniziato a parlare di un non meglio identificato aldilà, della non-materia e delle cellule aggregate per il nucleo. Di non-tempo e di non-luogo. In quel modo Ratko s’era tirato dietro qualche risata grassa di qualcuno degli agenti di vigilanza speciale, ma nulla di più. Aveva parlato di sé come di un’entità dissimile.
Entità dissimile.
Con una missione da compiere.
Catturare anime.
Portarle con sé nel non-luogo.

Mahueller si scosse.
E comunque non si trattava di un pazzo.

Il professor Costantino Adantimi viveva con la sua anziana madre e due gatti in una palazzina degli anni del post-colonialismo globale. Ora in decadenza. Viveva del suo stipendio di docente universitario. In perfetta solitudine. E carico di superflua ricchezza. Anch’essa in decadenza. Lui, e quelli come lui, avrebbero finito, di lì a poco, col diventare un nuovo ceto sociale. Ingombrante e velleitario, sebbene economicamente autosufficiente.
Quest’idea fu rafforzata dall’aspetto dimesso che il professore mostrava di sé e delle sue cose: vestito di cenci vecchi, rincagnato, incartapecorito e ingiallito fra le pile inenarrabili dei suoi preziosissimi — e polverosissimi — libri e gli schermi flashanti dei suoi computer. Mahueller ebbe una specie di brivido nello stringergli la mano. Esangue e sudaticcia, con unghie lunghe e annerite.
Cercò di non guardarsi troppo attorno, in quella casa piena di pezzi d’antiquariato e oggetti d’arte, lussureggiante e pacchiana come una reggia ottocentesca. Cercò di non far caso a nulla di quell’assurdo contesto. Cercò di andare subito al dunque.
– Quei suoi studi sui buchi neri, professore… – mormorò con cautela.
Ora, a dispetto del suo aspetto fisico e della sua età, Costantino Adantimi aveva una mente eccezionalmente lucida.
– I calcoli — disse — sono tutti esatti. Confermano l’inversione dell’energia, se è questo che le interessa sapere, dottore. Ma i calcoli sono calcoli. Altro è dimostrare la non materia con un grafico, altro è toccarla con mano.
Come dargli torto?
Mahueller volle vedere i calcoli; volle farseli spiegare e il professore glieli spiegò con un entusiasmo e un trasporto quasi giovanili. Ma si interruppe di colpo dinnanzi alla domanda:
– Lei crede che nella non-materia possa esserci vita, professore?
Dopo una breve riflessione, Costantino Adantimi elaborò un sillogismo: se nella materia c’è vita, nella non-materia deve necessariamente esserci la non-vita. Ma, aveva aggiunto poi, attenzione: noi intendiamo per vita un aggregato di energia, non tenendo conto del fatto che anche la disaggregazione — nota sotto la mitica denominazione di “caos”- è in realtà una forma di energia. In questo caso l’equazione materia-vita non ridà.
Non faceva una grinza.
– Purtroppo siamo fuori del mio campo. — aveva concluso Adantimi — Questa è filosofia.

Eppure l’iniziale confusione s’era diradata in fretta. La visita al professor Adantimi non era stata del tutto infruttuosa. Per rifletterci meglio su, Mahueller si rinchiuse in un baretto di periferia saturo di fumo e di esalazioni alcoliche. Se ne stette addossato alla vetrina, guardando fisso fuori e sorseggiando acquavite aromatizzata alla cannella.
“Caos”… ripassava a mente.
“Materia” e “non materia”. “Luogo” e “non-luogo”.
Osservando l’alone di condensa rotondo che si disegnava sul vetro davanti alla sua bocca, il dottore intuì l’errore. Osservava la non-materia materializzarsi sul vetro: respiro e condensa. O meglio: respiro da un lato, condensa dall’altro. Due concetti a sé: distinti e distanziati tanto nella realtà quanto nella sua mente. Due idee diverse, due principi diversi. Eppure, sempre respiro.
– Era questo l’errore?
Ratko Dirkler sorrise appena. Il mantello nero gli scendeva giù fino agli occhi; lo sguardo perduto nelle pieghe della lana, le labbra appena intuibili nella penombra. Con quel travestimento, con un tesserino di riconoscimento rubato e con la complicità di Mahueller, era evaso dal Carcere Federale di Massima Sicurezza.
– Sorprendente intuito, il suo, dottore. — sussurrò. — L’errore era quello. Non si può collocare la non materia in un luogo; e non si può collocare il non luogo in una dimensione materiale.
Mahueller ebbe un fremito. Bevve l’ultimo lunghissimo sorso di acquavite alla cannella e, con un gesto, invitò Ratko Dirkler a fare lo stesso.
– Meglio levarci di torno. — farfugliò.
Spiò di fuori: in strada l’aria era densa di umidità. Rare sagome umane comparivano e scomparivano nella nebbia, avvolte dal buio. Era il momento ideale per dileguarsi.

Il dottor Mahueller tirò un lungo respiro. Tentava di dominare così non la paura, ma l’emozione.
Aveva la gola secca, ma provò ugualmente a parlare.
– Sei sicuro di voler fare tutto proprio qui? — domandò.
Ratko appariva singolarmente disteso. Maneggiava strani arnesi, con estrema calma; si ravviava i capelli; con uno sguardo quasi innocente continuava a osservare il dottore.
– Qui o altrove che importanza ha? — rispose.
– Qui potrebbero venirti a cercare.
– Mi lascerò trovare.
Adesso si scambiavano occhiate reciproche.
– Non ho paura. — soggiunse Ratko, con un sorriso. — E lei?
– No, neanch’io. — ribattè Mahueller.
E diceva sul serio. Chiuse gli occhi e provò a rilassarsi.
– Toglimi una curiosità. — disse, mentre ascoltava distrattamente il remoto lavorio di Ratko attorno al suo corpo — Tutto questo ha qualcosa a che fare con i buchi neri?
– Perché chiede questo, dottore?
– Non riesco a farmi un’idea della non materia. Calcoli matematici di eminenti studiosi portano alla conclusione secondo cui il punto di origine di un buco nero sia un anti-aggragato di anti-materia.
– Errore, dottore.
Mahueller schiuse di colpo gli occhi. Si ritrovò già immobilizzato nelle gambe. E si ritrovò aggrappato con tutte le sue forze alla sedia su cui sedeva. La notte riempiva la depandance della villa di strane ombre e lontanissime eco. Ratko aveva voluto far ritorno in quella che era stata la sua casa. Quella che il tam-tam mediatico sul mostro cavaocchi aveva chiamato “la villa degli orrori”. Il teatro di tutti gli orrendi delitti che lo avevano portato a un passo dal patibolo. Da un cassetto estrasse un contenitore sigillato; ne scollò il coperchio; preparò un piccolo attrezzo, che aveva tutta l’aria di un lanciafiamme in miniatura; introdusse la spina nella presa e lo adagiò con cura su di un fianco. Intanto spiegò:
– La sua mente, dottore, pensa per schemi. E non potrebbe essere differentemente, ma… se ha potuto intuire l’essenza della non materia, non pensi ora di comprenderla attraverso i suoi procedimenti cognitivi usuali. La logica non la porterebbe lontano. D’altronde, se davvero ha compreso che cos’è la non materia, non può pretendere di collocarla in uno spazio, quale che sia.
– E dunque? — Mahueller sollecitava una risposta in modo quasi febbrile.
– I buchi neri sono un fenomeno proprio del suo cosmo, e quindi proprio della sua dimensione, che è una dimensione finita, dottore. Lei comprende solo quei fenomeni che si collocano all’interno di determinati confini, che per quanto smisurati possano essere, rimangono sempre e comunque dei confini.
– Stai forse dicendo che non posso comprendere?
– Sto dicendo che io non sono parte dei buchi neri, né derivo da essi.
– Non è una risposta, Ratko.
– E’ un’indicazione.
– Allora dimmi questo: potrò mai diventare un’entità dissimile, io?
Ratko sorrise ancora.
– Lei lo è già stato, dottore. — si limitò a rispondere. E riprese ad armeggiare. Adesso sui polsi di Mahueller.
– Quando?
– C’è un’era ancestrale dentro ognuno di noi, un non-tempo antecedente al tempo, o, se preferisce, un “prima”.
– Una vita prima della vita? — si illuminò Mahueller.
– Non ho parlato di vita, dottore, ma di tempo. Deve convincersi dell’inesattezza delle sue più elementari convinzioni. Solo in questo modo potrà avvicinarsi alla verità. Il tempo, ad esempio, non è che un’illusione: è una dimensione in realtà inesistente, costruita ad hoc dall’essere umano per comprendere i confini del vivere. Una mera astrazione.
– Nient’affatto. — protestò il dottore — Il tempo è un fenomeno riscontrabile nella realtà quotidiana, nella materialità dell’esistenza.
– Me lo dimostri.
– Il giorno e la notte! Il giorno e la notte sono segni tangibili del trascorrere del tempo.
– Il giorno e la notte sono concetti contingenti antitetici, propri della dimensione delle entità simili, o “compatibili”, e cioè di voi umani. Sono uno il contrario dell’altra, due estremi, la cui percezione deve essere necessariamente disgiunta per voi, altrimenti non riuscireste a spiegarvela. Un’entità dissimile, invece, in questo caso non percepisce la scissione. Due concetti opposti non possono che essere lo stesso concetto.
– Due concetti opposti saranno aspetti diversi dello stesso concetto. — provò a esemplificare il dottore.
– No, sono lo stesso concetto, non due aspetti di esso. Provi a seguirmi in questo ragionamento: se prendiamo come principio fondante del nostro pensiero la dissimiglianza, è chiaro che all’interno di essa non potrà più esserci scissione fra elementi di aspetto o di natura differente. Mi comprende?
Dinnanzi allo smarrimento di Mahueller, Ratko si sentì in dovere di spiegare ancora.
– C’è un proverbio, che ho sentito ripetere varie volte dagli esseri umani: gli estremi coincidono. Ebbene, questa potrebbe essere una chiave di lettura del pensiero dissimile. Quando ero nella camera di analisi, lei mi ha fatto una domanda precisa, dottore: mi ha chiesto “cosa c’è laggiù”, alludendo all’ ipotetico mondo ultraterreno dal quale lei immagina che io provenga. Allora io le ho sorriso, ma adesso potrei risponderle semplicemente che “laggiù” non c’è niente, e non c’è niente perché c’è tutto. Mi comprende?
– La dissimiglianza presuppone la non-scissione fra concetti fra di loro opposti, è questo che stai asserendo Ratko?
L’uomo annuì. Si scostò un poco dal tavolo sul quale aveva disposto il suo strano armamentario: allora, in un fulmineo riflesso di candela, apparve il contenitore isolante col coperchio scollato. In trasparenza se ne intuiva il contenuto: piccole sfere gelatinose di colore bianco, immerse in una soluzione dall’odore pungente. Distrattamente, Mahueller ne contò 12. Non ebbe il tempo per razionalizzare: il concetto di coincidenza degli estremi continuava a solleticargli le meningi. Anzi, a dirla tutta, adesso era lui a ridacchiare.
– Non avrai seguito l’onda dell’ideologia rock-satanista, Ratko? — provò a dire.
– Il male estremo e il bene estremo che coincidono. — ribattè prontamente l’altro — Sì, l’ho sentito dire. Ma in questo non c’è niente di satanico. Satana è una proiezione del pensiero umano, che, come ho già detto, è “simile”, o “compatibile”. Se c’è il bene, deve necessariamente esserci anche il male. O viceversa. In realtà di tratta di spinte uguali e contrarie che compensano una necessità, piuttosto banale, della vostra mente umana. E questo lei lo sa bene, dottore.
Mahueller continuava a sorridere, adesso sinceramente compiaciuto dell’arguzia che il mostro cavaocchi sapeva dimostrare.
– E’ con queste argomentazioni che hai convinto gli altri sei?
Domanda secca. Ratko si interruppe. Rimase per alcuni lunghissimi istanti come sospeso a mezz’aria. Si abbandonò ad una lunga riflessione. Si avvicinò ai vetri della veranda, che vibravano sotto una leggera brezza; guardò di fuori, nel giardino denso di ombre. Appariva malinconico, e bello, di una bellezza asettica da cherubino.
– Non riesce a pensare a me, se non come a un demonio, non è vero? — chiese, senza aspettarsi una risposta. — In realtà, la mia natura interiore mi rende simile più a un essere umano che a un essere soprannaturale. E’ buffo, sa? Nel Medioevo un monaco ebbe la stessa sua sensazione, di fronte a me, e pronunciò le sue stesse parole. Ero incarnato in una donna, allora: una cortigiana. Catturai l’anima al figlio cadetto di un feudatario francese, senza nemmeno sfiorarlo. Il frate domenicano che mi giudicò mi chiamò “demonio tentatore” e mi condannò al rogo.
– E tu…
– Oh, no. Quella volta mi salvai. Avevo amicizie potenti, a quel tempo.
Ridacchiarono assieme.
Un silenzio riportò Ratko alle sue urgenze, alla sua missione. Il dottor Mahueller si lasciò docilmente stringere attorno al polso destro una corda. L’ennesima.
– Durante l’interrogatorio dicesti: sette volte sette.
– Confermo e ribadisco. Sette.
– Cosa intendevi?
– Sette vite per attraversare il tempo, sette anime per tornare nel regno dissimile, sette morti per pareggiare i conti.
– E’ un indovinello?
– E’ la mia missione: ho sette vite a disposizione; al termine di ciascuna di esse posso transitare fra la dimensione umana e quella dei dissimili, ma a patto che porti con me sette anime.
– E le sette morti?
– Sono le mie. Per far sì che le sette anime che ho catturato trapassino, devo morire anch’io con loro.
Il dottor Mahueller fu attraversato da un brivido. Ingoiò saliva, terrore ed eccitazione. Avrebbe voluto tempestare Ratko di altre mille domande, e chiedergli se davvero temeva così poco la morte, e quante volte era trapassato, e se e quanto ogni volta aveva sofferto, e da dove prendesse la forza e il coraggio che mostrava, o se mai gli fosse balenata l’idea di rinunciare alla missione e completare un’unica vita in un’unica epoca della storia. Se mai avesse incontrato, sul suo cammino, l’amore; e se morire per amore fosse stato più bello che morire per altro.
Domandò soltanto:
– Perché sette?
– E’ un numero magico. E’ il numero delle fiabe e dei peccati, dei piaceri e dei miti.
– E tu prima di essere un’entità dissimile che cos’eri?
– Lei, dottore, prima di essere un uomo che cos’era?
Tacquero.
Un ultimo quesito tormentava l’animo del dottore. Ratko sembrò leggergli il pensiero.
– Le darò altre risposte, se crede. — mormorò.
– Una. Una sola.
– Mi dica pure.
– Come scegli le anime da portare via con te?
Dal camino si levarono sottili fiammelle danzanti; e l’apice del lanciafiamme in miniatura appariva ora arroventato. Ratko Dirkler ruppe ogni indugio.
– Curiosità. — disse — Ed intelligenza fuori dal comune. Sono le caratteristiche delle anime di cui vado a caccia. La forza della mente è essenziale. In fondo, io, ho bisogno di energia. Proprio come lei, dottore, e come tutti gli appartenenti alla sua misera stirpe. Se voi umani sapeste quale e quanta energia è racchiusa nella vostra mente!
– E la curiosità a cosa ti serve?
– La curiosità è la trappola di cui mi servo. Una volta svelato chi sono, ho bisogno di confrontarmi con esseri che non si accontentino di conoscere il primo strato della verità. La mia esistenza è un paradosso; così paradossale, da non poter essere confutato con la logica. Io devo confrontarmi con esseri che arrivino a domandarsi perché esisto. Altre domande?
– No, ti chiedo piuttosto di farmi una promessa.
– Quale?
– Dovunque mi porterai, promettimi che farai in modo di rendermi cosciente di quello che mi accade: voglio vedere, voglio capire, voglio conoscere.
– I sensi e la ragione non “conoscono” allo stesso modo, dottore. Se lei “vedrà” non capirà, e se “capirà” non vedrà. Dunque, non posso farle promesse. Ma, se vuole, posso liberarla e lasciarla andare.
– Questo mai.

L’ultima cosa che il dottor Mahueller vide fu un uncino da macellaio. Arroventato. Ratko lo brandiva in una mano, mentre con l’altra gli reggeva saldamente il mento. L’ultima cosa che pensò fu che l’ipnosi non c’entrava niente.
L’ultima che sentì fu lo stridore delle carni, fra le palpebre serrate d’istinto dal terrore. L’ultima che udì fu un urlo che squarciava la notte. Il suo. L’ultima che avvertì fu anche la prima.
Soul hunter.