di Franco Pezzini

Frankenstein di Guillermo del Toro, USA 2025.
Dracula – L’amore perduto (Dracula: A Love Tale) di Luc Besson, Francia – UK 2025.
Riprendendo il filo di una riflessione di qualche tempo fa, a fronte del “marcatore Dracula” come connotante le svolte del gotico su schermo – assai più che altri personaggi fantastici, per la frequenza dei richiami e il loro impatto immaginale – e delle stagioni all’incirca trentennali di tali svolte, è sensato vedere nel Nosferatu di Eggers l’avvio di una nuova stagione. Non a sovrastimarlo acriticamente, è un film riuscito ma non manca di limiti e certo non presenta la vertigine iconica del Nosferatu di Murnau o dei Dracula epocali con Lugosi e Lee: bensì a considerarne l’impressionante, inattesa risonanza mediatica che non permette di considerarlo come l’ennesimo film sull’Arcivampiro, per quanto buono (si pensi all’attesissimo Dracula BBC/Netflix di Mark Gatiss e Steven Moffat, 2020, o al solido The Last Voyage of the Demeter di André Øvredal, 2023, che non hanno avuto un simile impatto). Quando un film muove – sostanzialmente in positivo, al di là delle inevitabili critiche – così tante reazioni, significa che ha toccato qualcosa di profondo.
Insomma, una nuova stagione che – memori di Orlok – si sarebbe tentati di considerare l’età degli incubi, memori dei Cavalieri dell’Apocalisse piombati addosso in questo decennio: pandemia, guerra, crisi collettive e inevitabili ricadute personali. La vocazione metaforica del gotico non può che esserne coinvolta.
Nessuna sorpresa dunque che altri film su classici del filone abbiano potuto emergere – in particolare a opera di registi noti. E il primo da considerare sembra senz’altro il Frankenstein di Guillermo del Toro: un film bellissimo e di straordinaria forza visionaria, ottimamente recitato, con un trionfo di effetti speciali. Un film “della vita” del regista, e idealmente la versione di questa nuova stagione del gotico, come le altre ne hanno conosciute di fondamentali (le versioni 1910, 1931, 1957, 1994): una lettura non banale, originalissima nelle scelte e nelle provocazioni – prima delle quali, lo spostamento all’Ottocento vittoriano (anni 1855-57) tra nuove tecnologie e Guerra di Crimea di una storia del tardo Settecento (ma l’aveva fatto già Terence Fisher nel ’57) – e dove del Toro mostra la sua incredibile potenza di visione. Anche la scelta intelligente di ripartire il dramma tra Preludio, Racconto di Victor, Racconto della Creatura e Finale, ammicca in qualche modo a una dimensione filologica.
Tutto bene, dunque? Fino a un certo punto. Al netto dei tanti pregi, gli amanti della produzione di del Toro non riescono a considerare questo Frankenstein a pari livello dei suoi film più ispirati e originali, specialmente i primi; e per contro una serie di libertà dal testo votate alla spettacolarità del dramma (azione, macchinari grandiosi, tensioni tra i personaggi) risultano alla fine poco utili.
Sarebbe ingiusto accusare di conservatorismo chi sogni la fedeltà alle fonti, almeno quando questa mantenga un suo significato in fondo persino più provocatorio. Per esempio in una versione ispirata più da vicino al romanzo, con interpreti ventenni in preda a furori adolescenziali, settecentesca e senza fantastici macchinari steampunk ma con la comoda e pittoresca attrezzatura dei galvanisti tra grossi tranci di carne, e una creatura portata in vita nel sottotetto di una pensione per studenti. Una versione che vedesse per esempio un Victor non afflitto (come qui) da un padre tirannico e brutale, ma soffocato da una famiglia troppo perfetta come quella presentata dall’autrice, per cui l’Eden un po’ claustrofobico del suo Adamo 2.0 è anzitutto quello; un Victor nevrotico ma non così respingente, visto che del Toro sceglie di renderlo un simil-Byron invece che un simil-Shelley come nel romanzo, megalomane e piacione, dove noi tendiamo a solidarizzare con lui fino a tre pagine dal finale. Elizabeth (stessa interprete qui, Mia Goth, della madre di Victor) non è l’eroina che si invaghisce – un po’ troppo rapidamente, tra l’altro – della Creatura, ma la proiezione di quelle madamine molto perbene che la famiglia di Percy Shelley avrebbe preferito alla ribelle Mary, e lei fa finire malissimo: tanto più che la Creatura “è” Mary Shelley. Correttamente non si enfatizza la “sfida a Dio” tormentone dei film su Frankenstein americani, mentre il romanzo anche nei richiami miltoniani sottolinea il tema della responsabilità nei confronti di chi dipende da noi; ma i rimorsi e i ritardi patologici del Victor “originale” non trovano spazio nell’egocentrato protagonista del film. Per contro le difficoltà e gli orrori del protagonista di Mary Shelley, uno studente borghese fuori sede costretto a condurre i suoi disgustosi esperimenti di nascosto e sotto una pressione psicologica sempre più devastante, vengono drasticamente ridimensionate tornando a renderlo il barone di innumeri film, foraggiato da un industriale e catafratto dal proprio ego byronico.
Questo groviglio di potenzialità drammatiche nel grembo dell’opera resta disatteso nella pellicola 2025: e visto che al regista interessa indagare il labirinto sottotesto e non solo la creazione del “mostro” (qui peraltro troppo bello, rispetto al gorgonico e mummiesco atlante anatomico semovente descritto nel romanzo), non si capisce perché non abbia attinto alle tensioni lì evocate. O meglio: libertà del regista, che vanno difese. Ma per chi ami il gotico, questo film pur bellissimo – si tiene a sottolinearlo – resta qualcosa di non convincente fino in fondo e non così “nuovo”, un’occasione perduta.
L’alta qualità del film di del Toro, d’altra parte, spicca tanto più a fronte dell’altro film di mostri gotici apparso quasi contemporaneamente, Dracula: A Love Tale di Luc Besson, 2025: un’opera nel complesso non convincente che tuttavia, leggiamo in Wikipedia, reca “il miglior incasso per un film francese in Italia dopo la crisi dovuta alla pandemia di COVID-19” e “ha ricevuto recensioni positive da parte della critica. Sull’aggregatore di recensioni Rotten Tomatoes ha un indice di gradimento dell’83% basato su 12 recensioni, con un voto medio di 6,7 su 10”. Dunque complimenti, e oggettivamente un film divertente e fastoso, piacevole da vedere e forse anche rivedere: un’opera che nel complesso capitalizza interpretazioni attoriali buone, scene d’effetto, variazioni in sé poco sensate ma divertenti (uno zinzolo di campanilismo nella scelta come set di Parigi invece che Londra, trovate inedite come l’assalto finale delle truppe al castello, alcune scene che flirtano col balletto), soluzioni di sceneggiatura nel complesso originali… e che, si coglie da qualche intervento sui social, offre alle coppiette adolescenti anche una spruzzata di romanticismo da buio in sala, magari un po’ superficiale ma alla fin fine galeotto. In sostanza un onesto film di cassetta, griffato per la critica dal nome di un regista di moda. Forse un tantino sopravvalutato, e che col suo stile patinato tra fiabesco e grottesco, vagamente fumettistico e pubblicitario ha i suoi fan sfegatati ma – va detto – suscita anche altrettanto viscerali allergie.
Si possono condividere molte delle osservazioni sul film del grande studioso di teratologia sociale Fabio Giovannini, esperto di vampiri (cfr. qui e qui), a partire dal caveat su uno sterile “tiro al bersaglio destinato a creare opposte fazioni, tra i liquidatori indignati che lo riterranno spazzatura, e gli irriducibili esaltatori bessoniani che grideranno al capolavoro”. Perché onestamente Dracula – L’amore perduto non è né spazzatura né capolavoro: il che, al netto del divertimento e del fasto visivo per due ore d’intrattenimento – si ripete, godibile –, lo incantona in una zona un po’ grigia. A nuocergli sono soprattutto alcuni presupposti sullo sfondo: l’idea – forse del regista, certo di parte della critica – che un caposaldo del fantastico non è una cosa seria e dunque si possa trattare come futile pretesto, robetta su cui non porsi eccessivi problemi; l’idea che un regista assurto ai red carpet abbia una sorta di licenza assoluta (se questo film fosse stato confezionato da un Terence Fisher o da un artigiano minore del fantastico, faticherebbe a trovare una sala); e insieme alcune stonate dichiarazioni di Besson (per esempio a margine di una proiezione a Napoli ma anche al Lucca Comics e in genere nelle interviste).
In questa sede sarebbe abbastanza inutile occuparsi di Dracula – L’amore perduto se non in termini di impatto sull’immaginario per il successo di critica e pubblico: e dunque si può domandare cosa lo giustifichi.
Nessuno può turbarsi del fatto che si tratti di un’opera spudoratamente citazionista, ma – siamo seri – Besson non può affermare di non essersi ispirato a Coppola, come è stato udito con sorpresa sostenere. Interessa poco che identifichi il vampiro in Vlad II e non in Vlad III, come Coppola fa pur liberamente: la pellicola di Besson non ha pretese di credibilità storica. Giovannini elenca comunque come imprestiti l’acconciatura nipponica del senescente Dracula al castello, le silhouette di guerrieri in controluce su un cielo rosso e alcune strane particolarità delle loro armature, “il riapparire di Dracula in epoca vittoriana con il cilindro e i lunghi capelli neri”, la chiesa dove rinuncia a Dio tra statue sacre che prendono a sanguinare, il crocifisso che s’incendia, e in più la storia d’amore con la bella reincarnata. La citazione ci sta, sia ben chiaro. Dipende sempre dalla disinvoltura degli imprestiti: del resto Besson ha dovuto incassare una doppia sconfitta in tribunale – primo grado e appello – da parte di John Carpenter per il soggetto di Lockout (2012), derivato in forma un po’ troppo stretta da Fuga da New York, 1981. Però, in tutta onestà, nel caso di Dracula – L’amore perduto il problema non è il plagio.
Tanto più che non si individua solo Coppola, con citazioni – consapevoli o meno – a una pletora di altri film: Giovannini osserva che per esempio è “il caso delle insopportabili scene con piccoli gargoyle animati che rimandano ai mostriciattoli di Subspecies (1991), il leggendario B movie sui vampiri diretto da Ted Nicolaou per la Full Moon” – per non parlare dei Duerghi del castello di Dracula nel Van Helsing di Stephen Sommers, 2004 (Dwergi nell’originale, probabilmente da dwarf, “nano”), magari dei Gremlins icona anni Ottanta e magari dei Minimei cari a Besson. Un amico mi suggeriva anche che possa trattarsi di un ammiccamento ai gargoyle di Notre Dame – il castello fa pensare un po’ a una cattedrale –, sull’onda del trauma-incendio. Certo si tratta di una delle trovate più infelici del film, ancora peggiorata quando nel finale vediamo sortire dal castello una schiera smarrita di bambini pallidi (evidentemente hanno perso il sembiante mostruoso) come usciti da un lager. Ma lì è il tocco del regista, un fiabesco/grottesco a tratti spiacevole che compare anche altrove nella sua produzione.

La scena al convento di suore richiama il televisivo Dracula (2020) della BBC. E alla fine del film, senza spoilerare, c’è qualcosa di molto simile al volo del mantello dopo la distruzione del vampiro nel Dracula (1980) di John Badham.

Inoltre, “Caleb Landry Jones  nella parte di Dracula […] sembra ammiccare al Klaus Kinski di Nosferatu a Venezia”, mentre “un Jonathan Harker (Ewens Abid) da parodia […] riassume, mettendole in ridicolo, tutte le caratteristiche dei predecessori cinematografici nello stesso ruolo”. Come nel Dracula BBC/Netflix, si può aggiungere, il nemico del vampiro è un religioso: là, più originalmente, una suora (sorella Agatha Van Helsing, una straordinaria Dolly Wells), qui il prete senza nome interpretato da un Christoph Waltz sempre bravo – è presente anche nel Frankenstein – ma per l’occasione non troppo convinto. Per la scena del ballo, è poi inevitabile ricordare Per favore, non mordermi sul collo!, che però giocava indimenticabilmente sul comico.
D’altra parte le citazioni non riguardano solo film: palese è il richiamo a Il profumo di Patrick Süskind, pur con l’incongruità che il vampiro debba servirsi dell’opera di un profumiere italiano invece di usare la propria stregoneria (che pur deve vantare, a giudicare da altre scene). Però dove le citazioni – anche sgangherate – aprono alla creatività, possono avere senso: un mito è materiale plastico, si tratta di considerare come venga trattato.
Più problematico è scoprire per voce del regista che il personaggio originale non gli piace e non gli sono mai interessate le storie di vampiri, salvo menzionare Stoker nei manifesti: tutto si basa però su due temi (la storia d’amore e la reincarnazione) entrambi assenti nel romanzo. Come arriva a sostenere serioso in un’intervista (30 luglio 2025) al sito Abus de ciné:

alla base, è la ricerca di un uomo che non riesce a dimenticare sua moglie. Non sono un fan dei film horror. Quindi volevo concentrarmi sull’aspetto romantico. Quest’uomo ha un solo obiettivo: trovare la donna che ama. Non amerà mai nessun altro. D. lo rende immortale, ed è qui che entra in gioco l’aspetto “mostro”, ma non è quello che mi ha interessato di più. Nei nostri momenti difficili, volevo parlare di più d’amore.

Dove evidentemente confonde il tema del romanzo con il film di Coppola e con gli altri Dracula in love anche precedenti… Tanto più che sul tema dell’ossessione di un amore che dura nel tempo, mille altre potevano essere le chiavi da scegliere: perché misurarsi con Dracula? Torniamo alla libertà artistica, ovvio. Ma si può sospettare che il regista di moda s’irriterebbe non poco se qualcuno riassumesse in modo tanto implausibile, forzato e disinformato i temi portanti e la trama di qualcuno dei suoi film…
Poi chiaro, Dracula non teme le forzature perché ne ha già viste di tutti i colori. Solo nel corso della sua vita filmica si è confrontato con Billy the Kid, Batman, l’eroina erotica Emmanuelle e persino Topo Gigio, e con chicche imbarazzanti come le sceneggiature di Dracula (The Dirty Old Man), 1969, dell’improbabile Dracula vs. Frankenstein di Al Adamson, 1971, di pirotecnica bruttezza, e del porno Dracula Sucks, 1979. Ma quel che si è pronti a perdonare all’artigiano di C-movies resta poco digeribile quando brandito con supponenza da un regista di culto, iperfinanziato (budget di 45 milioni di euro) e iperpresente nei festival.
La pellicola, come detto, è in sé divertente. Sul significato, si tratta però forse di capire cosa intenda Besson. Il discorso cioè sull’amore assoluto: tanto più che le scene tra la perdita dell’amata e il suo ritrovamento accedono – notiamolo – a un registro assai più folle e paradossale che romantico, e in generale la storia d’amore come narrata (a dispetto degli entusiasmi ormonali di alcuni spettatori) lascia freddini. Per fare solo il paragone più ovvio, nel film di Coppola l’eros – lasciamo perdere che in Stoker non ci sia – era narrato con emozione e poesia, riusciva a convincere romanticamente: le lacrime di Mina, i fogli lasciati cadere nel dissolversi dell’inchiostro, gli oceani del tempo attraversati “per trovarti”… Qui al contrario – senza colpa degli interpreti – Vlad e consorte presentano vivace e ginnica complicità sessuale, ma non restiamo colpiti dalla profondità della storia d’amore, dagli orizzonti e dal respiro del loro scambio. Neppure al momento del loro ritrovarsi, dopo secoli, tra carillon e profumi, e certo non nel convulso finale.
Ancora Giovannini, in un diplomatico commento FB, ricorre a una sintesi intelligente: “Lo trovo adatto ai nostri tempi, nel bene e nel male che caratterizzano appunto i nostri tempi”. È vero, si tratta solo di capire in che senso.
Il fatto è che qui la storia d’amore non è fatta per convincerci, e Besson può sospettarlo: l’amore plurisecolare si riduce a una straziata nevrosi, a un inseguire fantasmi in una sala di Versailles piena quanto un odierno social in ora di punta, con qualche balletto e morsetto. Cita Coppola e il suo romanticismo per farlo esplodere in un sabba di ammiccamenti cinefili (come a dire che è spettacolo); cita il vampiro plurisecolare per negarne la durata, come la durata del sentimento – che col vampiro talvolta ha qualcosa a che vedere.
Se il Nosferatu di Eggers rappresenta uno spartiacque verso una nuova fase del mito filmico, e – ci piaccia più o meno – parla della nostra età degli incubi in modo serio e simbolicamente forte, il Dracula di Besson è la testimonianza di qualcosa che in questa fase ci vediamo intorno. Una storia congrua ai nostri tempi di relazioni nevrotiche o ossessive, di amori virtuali narrati a perplessi consulenti relazionali o sintetizzati in straniti post da social, di storie alla fine grottesche che parlano più di solitudine che di dialogo. Per cui ha senso mostrare cosa accada tra la morte dell’amata di Vlad e il suo ritrovamento: non lo strazio romantico da Nevermore di Poe, ma un’epopea sopra le righe di nevrosi e illusione (perché Mina dovrebbe a tutti i costi reincarnarsi?) quanto il profilo del protagonista, tra topi strizzati al castello e amenità in giro per l’Europa. Nel finale, poi, la Mina di Coppola, stravolta identitariamente nel profondo, partecipava da protagonista alla liberazione dell’amato; la Mina di Besson – emblematicamente chiusa dietro una porta – subisce invece le decisioni di lui, prese in autonomia e senza consultarla. Amore insomma come ossessione e solitudine, non come dialogo.
Se lo leggiamo così, e in fondo pare sostenibile, il film di Besson è più serio e amaro di quanto superficialmente appaia: non è Dracula e può non convincere, ma parla di un vampirismo che ha un suo fondamento reale. Sarebbe dir troppo il pretendere di vedervi le scottature personalissime dell’uomo Besson nelle sue relazioni, ma il regista – almeno cinematografico – ha in effetti qualcosa del vampiro nel varcare i tempi attraverso i contenuti delle sue opere, il rapporto talora divorante con attori e con personaggi, il suo ruolo sciamanico verso mondi ulteriori.
Certo, di fronte a Dracula – L’amore perduto, si rimpiangono i tentativi autentici di rileggere davvero provocatoriamente il mito del mostro stokeriano – e anche quello di Frankenstein. E nel piangere la recente scomparsa di un immenso “minore”, Udo Kier (1944-2025), indimenticato interprete di Il mostro è in tavola… barone Frankenstein (Flesh for Frankenstein), 1973, e Dracula cerca sangue di vergine… e morì di sete!!! (Blood for Dracula), 1974, prodotti da Andy Warhol e diretti da Paul Morrissey, ci rendiamo conto che il problema non è la libertà da una fonte – specie quando dichiarata – ma la consapevolezza con cui si possa tradirla. Il senso e, a dirla tutta, lo stile.