Dentro

Racconto di Cesare Battisti

Io sono un detenuto e scrivo piegato sul tavolino della mia cella. Ho composto frasi, affinato pensieri come se stessi parlando a un lettore che potesse leggere con i miei occhi e potesse sentire con il mio stesso cuore. Come se anche lei o lui, dall’altra parte delle sbarre, fossero piegati sul mio stesso tavolino di formica con i bordi bruciacchiati dalle sigarette altrui. E ogni giorno, prima di raddrizzare la schiena, mi sono chiesto se la scrittura Dentro potesse realmente passare attraverso le sbarre, raggiungere il mondo libero senza perdere parte dell’atmosfera dove il recluso ha proiettato ogni fattore pauroso, imprevedibile. Se varcata l’agognata soglia del carcere, le sue parole scritte trattenessero il soffio che trasforma il castigo in speranza, l’aria ferma della cella in luce, in vento che plana sul mondo dal quale egli è separato. Ho cercato la risposta dappertutto tranne in un posto, l’unico dove avrei potuto trovarla: in prigione.

Nel 2021, quando Artisti Dentro mi propose di fare l’editor per il Premio Letterario, non potevo sapere che sarebbero stati i miei compagni di pena, i loro scritti, a darmi la risposta che cercavo. È stato leggendo i testi e poi interagendo cogli autori detenuti, come me, che ho imparato a respirare Dentro, da questo lato delle sbarre, a ritrovare l’antico ritmo per sapersi abbandonare alla scrittura vera. Senza chiedere a nessuno di capire la ragione che ci ha obbligato a frugarci Dentro, ma limitarsi a dire qualcosa che non possiamo più tenerci Dentro. Sono state le grida dei miei compagni di prigionia a ricordarmi che non si scrive percorrendo vie consolatorie, o adeguarsi e raccontare quello che ci vorremmo sentir dire. Chi scrive e sa di farlo sovverte le regole, non pretende di essere capito, giustificato. È uno scrittore che affida la sua anima al vento, al soffio primordiale che nessuno potrà mai imbrigliare.

Chi scrive dà sé stesso, pur non avendo niente da insegnare; è un prigioniero che vive solo per evadere.
Non importa la lingua, la dimensione o lo spessore, scriviamo tutti per ottenere lo stesso premio: stringere forte al cuore la nostra paginetta e sentire lo spirito che va lontano oltre le sbarre, ben oltre la parola fine.

 

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Lo specchio di Andrea

Racconto d Cesare Battisti

Certe volte, quando di notte non scalcio i muri e mi sveglio apposta per pensare, con il ronfo del mostro che ini accompagna piano piano, mi faccio passare per la testa cose astruse. Pensieri di rassegnazione, dei quali dovrei vergognarmi, già che un prigioniero che si rispetti dovrebbe odiare le catene per dovere, invece di inventarsi iperboli da scrittore, nel volersi convincere che il male basta accettarlo per ricavarne il bene. Come se il carcere, invece di essere castigo, ci potesse liberare dal peso del superfluo, dal sovraccarico dei preconcetti, dalle idee prefabbricate e dai pregiudizi. Ma, talvolta, nel notturno vacillare della mente, lo stare dentro diventa quasi una liberazione dall’insicurezza generale: qui siamo al sicuro! E anche dalla paura della rinuncia e del successo. In carcere l’anima è così stanca da non essere più in grado di nuocere. Siamo a posto.

Non sempre, siamo troppi e ci stiamo stretti, la tensione sale e gli incidenti sono inevitabili. Può succedere di tutto perfino a causa di un innocuo specchietto. È stato requisito ad Andrea, lui è andaio a reclamarlo ed è scoppiata la bagarre. Per evitare le botte e poi l’isolamento, Andrea si è tagliato con la Gillette. Il lavorante ha dato poi una ripulita al corridoio e sulle scale, ma l’odore del sangue impregnava l’aria. E tutto per il sequestro di uno specchietto durante una perquisizione di routine. Forse un eccesso di zelo, o per noia, un capoposto se l’è portato vía. Un innocuo pezzo di plastica, una bagatelle, ma che per il povero Andrea rappresentava un problema serio.
In ogni cella abbiamo un piccolo rettangolo di specchio incollato al muro. Serve a deformarci la faccia quel tanto da non vederci le tracce di galera e anche a farsi la barba prima del colloquio. È fissato a un’altezza media di persona adulta, solo che Andrea non supera il metro e mezzo e se sale sullo sgabello sarebbe troppo alto. Data la statura, gli era stato accordato l’acquisto di uno specchietto mobile, fatto di materiale inoffensivo che lui custodiva con amore,

Se fosse successo un giorno qualsiasi, chissà, Andrea avrebbe reagito con più tatto, magari chiedendo di parlare all’ispettore. Ma era giorno di colloquio, di barba fatta a contropelo, con spruzzate di profumo e tute ginniche firmate. E con la barba ancora da rasare! Troppo per il povero Andrea.
La sua famiglia avrà versato qualche lacrima, prima di capire e tornare a casa con la borsa piena. Non è la prima volta che succede, quando non è il loro Andrea è un altro carcerato a gettare lo scompiglio nella sala colloqui. Di famiglie piangere ne hanno viste tante, hanno imparato a sopportare e si ritrovano così a scontare la stessa pena dei loro cari che stanno dietro le sbarre. A chi non è mai stato chiuso in una cella, cose simili sembreranno una bestialità, una follia criminale; un altro argomento per benpensanti a piede libero che storcono la bocca e dicono che cosa aspetta lo Stato a buttar via le chiavi. E si capisce, c’è chi sbraita alla TV di “hotel a cinque stelle dietro le sbarre”. Brave persone, ignorano che il colloquio con i familiari in carcere è ossigeno, il solo momento di affettività monitorata, la cerimonia per la quale il detenuto si prepara come farebbe lo sposo atteso in chiesa. Qui, ogni mercoledì mattina di buonora.

Al detenuto è solo dato parlare di malanni, socializzarli amplificandone il contenuto e l’influenza; socializzare futuro, speranza, fare critica costruttiva è ritenuta attività sospetta. Qui è tutto così pigiato, perfino i pensieri e gli umori sono difficili da districare. Si passa dall’euforia all’abbattimento da un minuto all’altro e così diventa difficile gestire il rapporto con l’altro. Traggo da un trattato di antropologia: “Dove le società sono fortemente concentrate, sono in uno stato cronico d’effervescenza e di super attività. Perché gli individui sono più strettamente ravvicinati gli uni agli altri, le azioni e le reazioni sociali sono più numerose, più continue; le idee si scambiano, i sentimenti si rinforzano e si riaccendono mutualmente, il gruppo, sempre in azione, sempre presenti agli occhi di tutti, rafforza li sentimento di sé stesso e ha anche un maggiore spazio nello coscienza degli individui.”

Dopo avere letto queste righe, mi sono rannicchiato sulla branda in posizione fetale, resistendo alla voce della coscienza che, da anni contenuta tra quattro mura, rischia di esplodere in un urlo che mi lacera la gola.
E ora mi chiedo perché sto qui a raccontare queste cose tristi, quando potrei citare episodi meno (illeggibile), talvolta anche spassosi. Ma non mi viene, mi sembra di tradire un ordine di idee. Mi sembra di tradire Andrea che, l’hanno detto alla TV, si è impiccato ieri.

 

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Tre bengala

Racconto di Nico Maccentelli

I bagliori coloravano il cielo nero di striature celesti. Ma non erano stelle cadenti e neppure fuochi d’artificio. Erano i bengala della contraerea che cercava di individuare quanti più droni possibile. Gaetano abbassò gli occhi e battè i piedi nell’inutile speranza che il movimento producesse un po’ di calore. Il freddo metallo della canna del suo fucile M4 sul mento gli faceva ricordare l’insolita posizione a cui era costretto per cercare di essere invisibile a quegli occhi che roteavano, piccole telecamere che come marionette impazzite erano alla ricerca di corpi, mentre i loro sensori seguivano anche le più piccole tracce di calore.

Cinque anni di guerra. E da quando lui aveva messo gli scarponi sulla steppa di Zaporizhia erano passati due anni. Anni d’inferno. Si ricordava ancora la partenza da Trieste, la tradotta che passando sotto l’Ungheria portava dritto in Ucraina.Trieste… era ancora piena di vita con i suoi caffè, così l’aveva lasciata prima che tre missili Oreshnik la radessero al suolo, in risposta alla distruzione di Rostov. Era partito proprio quando le atomiche tattiche avevano iniziato a usarle verso quelle città europee che facevano da snodi logistici per il fronte. Una risposta a chi aveva iniziato a usarle per primo dopo lo sfondamento a Odessa e la rotta dell’esercito NATO nella zona sud con il ricongiungimento russo con la Transnistria.

Gaetano non riusciva neppure a pensare a un suo possibile ritorno e del resto non poteva immaginare cosa fosse successo in Italia. La posta non arrivava e poi erano due settimane che stava in quella buca fetida, da solo, senza sapere dove fosse il resto del battaglione dopo aver subito l’assalto di Spetsnaz, incursori russi aviotrasportati. I parà erano sbucati all’improvviso nelle retrovie, dove Gaetano con il suo reparto era acquartierato in attesa di tornare al fronte. Nessuno aveva avuto il tempo di organizzarsi per rispondere. Si resta soli facilmente, come si muore soli. Gli venne in mente una vecchia canzone di De Andrè: “… partimmo insieme per la stessa guerra…”.

Ora la questione era se usare i bengala che aveva nella giberna, che servivano per farsi individuare e recuperare, ma che avrebbero certamente segnalato la sua presenza anche al nemico. Tre bengala, tre tentativi. Era più che un rischio. Non sapeva nemmeno che fine avessero fatto gli altri, in una retrovia che era diventata un casino: non sai dove sono i tuoi e dove i russi. I primi giorni aveva pensato di starsene zitto e buono. Ma poi la fame ormai lo attanagliava. Che Natale di merda.

Lo faccio? Non lo faccio? E se esco? Quello che lo inquietava era il silenzio. Niente spari, niente rumori di cingolati. Solo l’abbaiare di un cane in lontananza. E una guerra non sua, dopo la rivolta scatenata contro i banderisti da un esercito tornato nelle città che aveva travolto gli ufficiali rimasti fedeli a quella merda di Zelensky. Cinque anni fa fu la ragione dell’intervento di quelli che erano stati definiti “i volonterosi”. L’estensione del conflitto fu rapido e la propaganda che diceva che i russi sarebbero arrivati a Varsavia e poi a Berlino, aveva spinto le opinioni pubbliche occidentali ad accettare quell’escalation. Difendere la patria europea dal perfido slavo, dall’asiatico feroce… Anche lui ci aveva creduto, ma nella versione “russi imperialisti”. E poi nel suo centro sociale municipalista se ne parlava da tempo, si sostenevano gli anarchici resistenti, tollerati a mala pena dai battaglioni con le effigi del sole nero e dei denti di lupo. Ogni tanto qualcuno spariva, ma era un dettaglio. Viva Machno! Viva stafava…

Tuttavia non aveva voluto arruolarsi. Prima partirono i volontari. E tra questi c’erano anche dei compagni. Poi nel giro di pochi mesi il mattatoio esigeva la leva obbligatoria. Fu in quel momento che pensò che la tradizione libertaria andava in altra direzione: la disobbedienza, quella vera, le cartoline strappate ai tempi del Vietnam nel movimento pacifista statunitense. Cercò di sottrarsi e per qualche mese ci riuscì grazie alla casa nella bassa lombarda di Eleonora, la sua compagna.
Ma il periodo più terribile fu la coscrizione. In quel momento capì cosa provassero i ragazzi ucraini e poi quelli meno giovani, pestati di brutto e caricati sui pulmini degli arruolatori cinque anni prima. Capiva le diserzioni di anni fa, gli scappati e la guerra civile.
Fu mentre camminava per strada pensieroso che non s’avvide della macchina dei carabinieri. Lo caricarono di forza e si ritrovò in quella caserma a Trieste dove non ebbe neppure il tempo di sentire qualcuno. Via sul treno. Una bellissima città, quella della sua adolescenza, era diventata una prigione e un imbuto verso chissà dove. Al fronte poteva solo sopravvivere eseguendo gli ordini impartiti. E ora era lì, con dei crampi allo stomaco che lo facevano uscire fuori di testa.

Ma non poteva dimenticare che i primi mesi era stato messo nelle retrovie, nel fuoco di fila di un plotone di esecuzione di ribelli e renitenti alla leva. Gli era stato detto che questi ucraini si erano venduti ai russi e che ora i tribunali di Stato avevano comminato loro la massima punizione. Non sapeva più a quante esecuzioni aveva avesse partecipato. Capì col tempo che questi dannati erano gli ultimi rivoltosi sfuggiti alle repressioni di massa dei corpi speciali della NATO, intervenuti per reprimere i battaglioni ribelli dell’esercito ucraino fuggito dalla prima linea. Ma fu quando iniziò a vedere i condannati bendati morire col pugno alzato che capì che molte cose non andavano per il verso giusto e che le truppe NATO erano di fatto percepite come un esercito occupante in una guerra che non era più degli ucraini se in realtà mai lo fosse stata. Poi fu la volta dei primi stranieri: francesi, tedeschi e anche italiani. Una volta gli parve di riconoscere tra condannati al muro un compagno del Centro Sociale Autogestito Magazzino 47 di Brescia. Ma preferì non accertarsene guardando meglio: voleva rifiutare quella realtà che viveva come distopica. Nel grande mattatoio a essere scannati erano i più coscienti, mandati in prima linea perché dovevano andarsene per primi.

Ragionò sul fatto che l’incursione dei soli Spetsnaz non poteva essere sufficiente a creare una testa di ponte. E forse i suoi erano più vicini di quanto potesse pensare. Doveva provarci. Tirò fuori dalla giberna il primo bengala. Lo posizionò e lo fece partire. Il bengala disegnò un arco di luce nel cielo che consentì a Gaetano di guardare oltre i soliti venti metri. Il paesaggio si illuminò rivelando solo una distesa piatta fino a un filare di alberi a qualche centinaio di metri. Quella distesa gli fece venire in mente la pianura del lodigiano e la radura dove partecipò impasticcato a un rave da paura. L’immagine insieme alla musica ossessiva gli balzò davanti. Tanti corpi, non distesi dei soldati morti, ma di ragazzi che ballavano con movenze a scatti. Fu in quel rave che conobbe Eleonora. Il vento gelido della steppa lo riportò alla realtà. Ci sarà qualcuno dei suoi che avrà visto questo segnale?

Tirò fuori dalla giberna il secondo bengala. Lo direzionò verso sud e lo sparò. La luce fece apparire dei caseggiati. Erano edifici sinistri, di qualcuno era rimasto solo lo scheletro dei muri. Ma il suo sguardo si perse nei pensieri e fece subito un paragone con i palazzi mitteleuropei di una Trieste che lo aveva visto gironzolare con suo padre alla ricerca di un locale per mangiare. Apparvero camerieri vestiti in bianco con i vassoi pieni di pietanze. E vide anche l’orchestra che li aveva allietati durante la cena che mai avrebbe dimenticato. Erano gli ultimi tempi in cui usciva con suo padre, accompagnandolo nel lavoro di rappresentante di tessuti. Poi avrebbe mollato la famiglia per seguire le tracce della ganja e compagnie di scoppiati.

Il terzo e ultimo bengala lo tirò verso est. Una nube si illuminò per un istante disegnando un viso aggraziato. Eleonora. Era come se gli fosse apparsa davanti, con i suoi capelli biondi, eterea. Gli tendeva un braccio come per prenderlo. Eleonora. Non voleva che se ne andasse anche se era un sogno, lo sapeva, un disegno irreale della sua fantasia. Istintivamente allungò un braccio anche lui verso di lei. Rimasero sospesi così per qualche istante. Poi un bagliore lo invase insieme a un calore liquido e un fragore assordante nelle orecchie. Poi più nulla.

(Omaggio a Hans Christian Andersen)

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