di Franco Ricciardiello
Kim Stanley Robinson, Quaranta segni di pioggia (titolo originale Forty signs of rain, 2004), trad. Eleonora Antonini, Fanucci, pp. 304, euro 18,oo stampa
In un recente articolo sul romanzo Quello che possiamo sapere di Ian McEwan, il Corriere della Sera titola: “La fantascienza senza la scienza”, quasi che questo fosse un valora aggiunto; come dire, “cari lettori, ecco una storia visionaria ma senza l’astruso linguaggio para-scientifico della SF”. Ma davvero la componente “scientifica” è così rilevante nella SF contemporanea?
Capita di leggere, in qualche gruppo social dedicato, commenti che lamentano il contenuto troppo “hard” (nel senso di scienza “dura”) di alcuni romanzi; c’è ancora un nutrito gruppo di lettori che considera la SF un genere esclusivamente avventuroso, un contenitore per storie che scopiazzano le atmosfere dei film d’effetti speciali. Ciò che manca veramente nelle narrazioni di SF è il funzionamento pratico della scienza. Lasciando da parte scienziati pazzi e scienziati geniali simili a supermen, concentrandosi su quelli che fanno ricerca negli istituti, che si danno da fare per trovare fondi, che analizzano masse di dati senza avere intuizioni fulminanti, che la sera tornano a casa dal marito o dalla fidanzata, dai figli, e raggiungono risultati significativi grazie a comparazioni, esperimenti, errori, e non per un’ispirazione spirituale.
Per fortuna c’è Kim Stanley Robinson. Chi ha letto la sua formidabile Trilogia marziana conosce la sua capacità di penetrare e restituire personaggi assolutamente realistici (ci sono infatti lettori che si lamentano per le “troppe descrizioni tecnologiche” del suo Marte futuro), e la competenza con cui racconta retroscena economici e tecnologici e dinamiche politiche — si veda anche il suo Il Ministero per il Futuro. Non è quindi un caso, vista la considerazione del lettore italiano medio per la SF, che questo Quaranta segni di pioggia, uscito negli USA nel 2004, sia rimasto inedito in Italia per oltre vent’anni.
L’ambientazione è un futuro così ravvicinato da confondersi con il presente. Il romanzo inaugura la trilogia Science in the Capital, che racconta i tentativi di fronteggiare la catastrofe climatica, visti dal centro del potere USA, Washington. Tre punti di vista si susseguono a capitoli alterni: Anna Quibler, giovane e motivata scienziata della National Science Foundation; il suo collega Frank Vanerwal, che dopo un distacco alla NSF è in procinto di tornare a lavorare in un istituto di ricerca privato a San Diego; il marito di Anna, Charlie, che lavora per un senatore progressista teoricamente interessato a una legislazione sul clima, ma nella pratica molto attento alle dinamiche parlamentari.
“Guardò con aria cupa passargli l’America davanti. Chi erano quelle persone che riuscivano a vivere così tranquillamente mentre il mondo sprofondava in una crisi ambientale globale senza precedenti? Esperti negazionisti. Esperti nel filtrare le loro informazioni per sentire solo ciò che li legittimava a comportarsi come si comportavano. Molti di quelli che passavano, andavano in chiesa la domenica, credevano in Dio, votavano repubblicano, passavano il loro tempo a fare shopping e a guardare la TV. Ovviamente brave persone. Il mondo era condannato.” (pag 164)
Certo, il realismo delle situazioni va a discapito del lato avventuroso, tranne che negli ultimi capitoli; ma il romanzo è pieno di dettagli straordinari: il catastrofico impatto di un uragano marino sulle scogliere presso San Diego; i monaci buddisti di Khembalung che stabiliscono un’ambasciata a Washington per perorare la causa del loro stato insulare che rischia la sommersione; l’illuminazione di Frank Vanderwal sul suo rapporto con la scienza durante una conferenza buddista.
Robinson racconta l’inefficienza e l’inerzia di un sistema parlamentare liberale, come quello statunitense, nel reagire a una crisi globale:
“[…] il riscaldamento globale non solo poteva essere reale, ma persino suscettibile di mitigazioni umane. Il che andava un po’ troppo oltre quell’amministrazione. La loro linea era che nessuno potesse affermarlo con certezza e che, anche in caso contrario, sarebbe stato troppo costoso intervenire. Sarebbe dovuto cambiare tutto: i sistemi di produzione dell’energia, le automobili, il passaggio dagli idrocarburi all’elio o qualcosa di simile, non lo sapevano; e non possedevano brevetti o infrastrutture per quel genere di novità, quindi avrebbero eluso la questione e lasciato che fosse la generazione successiva a occuparsene a tempo debito. In altre parole, al diavolo! Più facile distruggere il mondo che intaccare il capitalismo, anche solo di poco (pag. 125)”
Posso immaginare la reazione del lettore-tipo di SF italiano davanti alle pagine in cui Robinson descrive la procedura con cui Anna Quibler si tira il latte dal seno per congelarlo, così che il marito possa nutrire il figlio Joe mentre lei è al lavoro — eppure anche questa, in fondo, è tecnologia.



