di Emanuela Monti
Si era decisa a cercare casa troppo tardi. Aveva aspettato la sua amica del cuore, sperando di andare a a vivere con lei, ma poi Francesca aveva rinunciato all’idea di trasferirsi a Perugia.
Anna invece voleva andarsene dal paese. Voleva allontanarsi a ogni costo da quel luogo tossico. Aveva un amore finito alla spalle e poi era stanca della sua vita monotona, di quelle facce che invecchiavano prima del tempo e di quelle quattro vie, percorse milioni di volte da quando era bambina.
Era stanca soprattutto di suo padre, che le sbraitava contro per ogni sciocchezza e le piombava in camera all’improvviso, spegnendole di prepotenza lo stereo perché il volume era troppo alto. Era stufa di sua madre, che le dava della “zingara” perché la sua camera era sempre in disordine e le chiedeva se non si vergognasse, “una donna di vent’anni, una donna in età da famiglia”, a tenere la propria stanza in quello stato.
No, Anna, che oltretutto aveva diciotto anni, e non venti, come le rammentava sempre sua madre, non si vergognava. Semmai la imbarazzava fingere di studiare, per evitare di essere chiamata ad aiutare, giù nella botteguccia di alimentari. E non per motivi di ordine morale: si vergognava davanti a se stessa, per quel suo sentirsi in dovere di fare la messinscena.
Se non fosse stata così vile e così orgogliosa le avrebbe urlato contro che in fondo lei non doveva niente a nessuno, perché non l’avevano mai amata.
Ma siccome questa spavalderia le faceva difetto, Anna vedeva nell’università l’unica via di fuga. Era sempre stata una studentessa brillante, nonostante l’impegno discontinuo, e i suoi trovavano naturale che approdasse all’università. Del tutto fuori luogo giudicavano invece l’idea che Anna si trasferisse a Perugia, ma lei aveva fatto un’opera di persuasione molto sottile, convincendoli che per via dell’obbligo di frequenza era impossibile fare la pendolare: si sarebbe ammazzata di stanchezza e poi, a conti fatti, tra biglietti dei mezzi pubblici, colazioni e panini al bar, avrebbe finito per spendere di più. Di fronte a questa argomentazione, come Anna aveva previsto, ogni loro resistenza era crollata.
Anna si ritrovò così, a metà novembre, a cercare un posto letto in affitto a Perugia.
Nella bacheca della facoltà c’era rimasto ben poco e i prezzi, anche solo dei posti letto, erano alle stelle. Alla fine notò un annuncio per una camera in appartamento con altre studentesse. Il prezzo era ottimo e Anna immaginò che ci fosse sotto qualche imbroglio, tuttavia provò a telefonare e fissò un appuntamento.
Il palazzo era proprio in centro. Aveva un magnifico atrio, che immetteva in una corte interna abbellita da aiuole di camelie e rododendri e da statue antiche. Anche l’appartamento era d’epoca, con pavimenti in marmo a scacchiera e soffitti molto alti, e la ragazza che glielo mostrava, sebbene sembrasse uscita da una rivista patinata, pareva cordiale.
L’appartamento era suo e lo divideva con due amiche, con le quali aveva frequentato il liceo e con le quali si era poi iscritta a Economia. Siccome le spese condominiali erano piuttosto alte e le seccava chiedere i soldi alle amiche o al padre, aveva deciso di affittare una stanza che si trovava in fondo al corridoio.
Nell’avvicinarsi alla stanza, non senza imbarazzo, Eleonora disse che la camera era grande e che però, essendo nata come guardaroba, non aveva finestra.
Anna pensò con sgomento: “sarebbe come stare in una tomba”. Ma poi si disse che, a dispetto delle finestre, anche la sua casa al paese per lei era come una tomba e scorrendo nella mente l’immagine delle tre stanze in cui consumava la sua esistenza grigia, ricordò che di notte le capitava spesso di svegliarsi di soprassalto, con la sensazione di essere morta e le sagome degli oggetti familiari popolavano il suo inferno silenzioso, come anime di dannati.
E poi la sistemazione nella stanza senza finestre poteva essere una soluzione provvisoria. Avrebbe cercato qualcosa di meglio, quando si fosse ambientata.
Eleonora disse che comunque, se voleva, poteva studiare nel salone e utilizzare la stanza senza finestre soltanto per dormire.
Così Anna si convinse e due giorni dopo si trasferì a Perugia.
I primi giorni trascorsero sereni. La situazione cambiò quando arrivarono Silvia e Marella.
Marella in particolare si rivelò una pessima compagna di appartamento. Era una ragazza altezzosa, che riservava ad Anna quel minimo di cortesia impostole dall’educazione, ma che dava chiaramente a intendere di non voler approfondire la conoscenza. Di sicuro la scelta della stanza senza finestre era bastata a farle giudicare Anna una pezzente. Qualsiasi dubbio residuo fu comunque spazzato via la sera in cui Marella le chiese in modo esplicito: “di che cosa si occupa tuo padre?”. La risposta “ha una bottega di alimentari” fu accolta da uno sguardo di gelo e da un silenzio penoso e segnò l’alba e il tramonto della relazione tra Anna e Marella.
Il peggio è che Marella aveva un forte ascendente su Eleonora e Silvia, per cui, quando erano tutte e tre insieme, non degnavano Anna di alcuna considerazione.
A tavola le tre amiche scartavano i loro pacchettini di alta gastronomia e chiacchieravano senza sosta, escludendo Anna dalla loro conversazione. Talvolta le rivolgevano un distratto “ne vuoi?” e riprendevano a parlare, senza neppure aspettare la risposta, che, comunque, era sempre negativa. Anna infatti si sentì a disagio fin dal primo momento e le sarebbe parso di umiliarsi assaggiando una delle loro prelibate insalate russe o quel patè di salmone per cui Marella andava pazza. Quindi Anna mangiava in fretta il suo piatto di pasta e si ritirava in camera sua.
Col tempo si stufò di sostenere una parte che in fondo nessuno le aveva richiesto e cominciò a consumare i pasti quando le altre erano fuori o quando avevano già mangiato. E presto smise anche di studiare nel salone o di trascorrere la serata, come le era capitato a volte i primi giorni, insieme alle compagne di appartamento.
Quando non usciva, passava il tempo nella sua stanza senza finestre.
Non aveva ancora stretto molte amicizie, ma una compagna di corso le aveva proposto di studiare insieme. Così ogni pomeriggio si incontrava con Lisa in facoltà e non tornava a casa prima delle sette. In questo modo riusciva a tenere lontano il pensiero della stanza senza finestre.
Quando usciva dall’università, però, l’angoscia l’assaliva e non l’abbandonava più fino al mattino. Dormiva poco e male. Le sembrava di trascorrere la notte in uno stato di dormiveglia continuo e al mattino non riusciva a ricordare i sogni che forse aveva fatto.
Anche qui, di colpo, aveva la sensazione di essere morta, ma nell’oscurità assoluta della stanza senza finestre non riusciva neppure a intravedere le sagome minacciose degli oggetti. Ne percepiva comunque la presenza. Presto si animavano e li sentiva strisciare, bisbigliare, sibilare. Nel buio ogni rumore si amplificava e la sopraffaceva.
Anna voleva andarsene da lì, ma non aveva soldi e al paese non ci voleva tornare.
Quello sarebbe stato ancora peggio. Almeno di giorno a Perugia respirava e ogni momento poteva portare con sé un’esperienza nuova e nuove possibilità.
Come la sera in cui Lisa la invitò a teatro. Davano l’Amleto di Shakespeare e Anna non si fece ripetere due volte l’invito.
Indossò un vestito nero dalla linea diritta e si truccò con cura, ma in modo leggero. Lisa insisté per prestarle degli orecchini di ametista, che si intonavano al grigio screziato dei suoi occhi, esaltandone lo splendore.
Quella sera si sentiva bella e le sembrò che per strada la gente si voltasse a guardarla. Quella sensazione andò aumentando nel foyer del teatro, durante l’intervallo, quando si sentì sfiorare dalla sguardo di molti uomini. Di uno in particolare si accorse, forse perché si distingueva subito in mezzo alla folla azzimata, per l’abbigliamento meno ricercato, ma soprattutto per la bellezza e la nobiltà dei lineamenti.
Dirigendosi con Lisa verso il bar, Anna gli passò accanto tenendo gli occhi bassi per la timidezza, ma proprio allora si sentì chiamare da qualcuno che stava in piedi vicino a lui. Con disappunto riconobbe Eleonora e, dietro di lei Silvia, che la salutarono stupite. Anna farfugliò qualcosa mentre sentiva il suo viso farsi di brace.
Con l’audacia garbata che solo gli uomini affascinanti possono permettersi, Alberto si presentò, senza aspettare che le ragazze intercedessero per lui. Ci tenne a precisare che era il cugino di Eleonora e quindi chiese scherzando se anche Anna fosse destinata a diventare una donna in carriera. Anna scosse la testa sorridendo e rispose che studiava filosofia, ma non sapeva ancora che avrebbe fatto da grande.
Dopodiché, temendo di diventare importuna, salutò e si allontanò con Sonia.
Era agitata da sensazioni e pensieri contrastanti: da un lato la certezza che Alberto l’avesse notata tra tutte le altre, dall’altro lo sconforto più nero all’idea che Alberto venisse a sapere qualcosa sul suo conto tramite Eleonora e le sue amiche. Era facile immaginare i commenti che potevano fare su di lei. Per un attimo le sembrò di sentirle parlare sul serio, le sentì ridacchiare mentre Marella chiedeva: “com’è che la zombie è uscita dal loculo?”
Si perse il seguito perché Lisa interruppe il corso dei suoi pensieri, chiedendole qualcosa, ma per tutta la serata provò un dolore acuto all’idea che le compagne di appartamento l’avessero ridicolizzata.
In effetti avrebbe preferito che Alberto non l’avesse degnata di uno sguardo. Aver destato il suo interesse per poi essere fatta a pezzi ai suoi occhi dall’ironia di Marella senza alcuna possibilità di difesa le pareva una beffa. Così sperò di non incontrarlo mai più. La mattina dopo, però, mentre usciva dal bagno, sentì che Eleonora diceva a Marella: “indovina chi viene a cena stasera?”
Marella non indovinò. Anna invece intuì subito che Eleonora si riferiva ad Alberto. Per un momento provò il piacere del trionfo, perché l’istinto le diceva che l’onore di quella visita era tutto per lei, ma il piacere si spense subito, sopraffato dall’orrenda prospettiva di una serata con loro nel ruolo dell’esclusa oppure da sola nella stanza senza finestre. Così decise che non sarebbe rientrata per cena.
Trascorse la serata fuori con due compagni del liceo e per alcuni giorni non vide Alberto, né sentì parlare di lui.
Una sera però, uscendo dalla facoltà, vide qualcuno staccarsi dal muro di cinta e farlesi incontro.
“Ciao Anna, mi riconosci?”
“Sì, che ci fai qui?” chiese lei in modo brusco.
“Ti aspettavo. Sono giorni che ti dò la caccia. Mi sono anche fatto invitare a cena da mia cugina, ma tu non c’eri. E ogni volta che vengo lì da voi sei sempre fuori”
“Sono una zombie anomala. Entro nella tomba di notte e di giorno vago tra la folla”, disse Anna con tono di sfida, nell’intento di suscitare una reazione rivelatrice.
“Perché? Che è questa storia della tomba?”
“Non ti hanno raccontato che dormo nella stanza senza finestre?”
“Quale stanza? Vuoi dire il guardaroba? Io pensavo che dormissi nel salone!”
L’espressione di Alberto sembrava sincera e Anna si rese conto che non avevano detto niente di lei. Dopotutto che c’era di strano? Erano talmente disinteressate alla sua esistenza che forse non la prendevano neppure in giro.
Anna pensò che avrebbe potuto evitare quell’accenno, ma dopotutto forse era meglio così. Meglio che Alberto sparisse subito, se doveva sparire.
Alberto invece non lo fece. Le restò accanto per oltre quattro anni.
Anna non dormì più nella stanza senza finestre, ma nell’attico di Alberto, un open space di ben 200 metri quadri, dove di finestre ce n’erano otto e da cui si dominava tutta la città.
Condivisero tutto e ad Anna parve che davvero nulla potesse dividerli. Alberto era diverso dalla sua famiglia. Non ostentava la propria estrazione sociale, non giudicava la gente per quello che possedeva. Anzi, non giudicava affatto, perché era una persona nobile e disinteressata.
Anche quando la lasciò lo fece con nobiltà.
Alberto frequentava la scuola di cinematografia sperimentale di Roma da un anno, quando un compagno di corso gli propose di partecipare al progetto di un film in Spagna.
Anna rimase da sola a casa di Alberto. Aveva declinato l’invito ad accompagnarlo in Spagna, con la scusa degli ultimi esami e della tesi. Qualche anno prima non avrebbe esitato a infilare qualche cambio d’abito in valigia e partire con lui, ma ora, ora aveva la sensazione che qualcosa di impercettibile, di infinitamente piccolo, ma con una portata devastante, si fosse insinuato tra loro e fosse sopraggiunto a turbare l’equilibrio del loro rapporto.
Alberto stava scoprendo un mondo nuovo e lo stava facendo senza di lei; stava crescendo senza di lei e ad Anna pareva che la sua immagine stesse impallidendo sullo sfondo.
Improvvisamente, con Alberto, le capitava di sentirsi di troppo e l’imbarazzante vestito color carta da zucchero che suo padre indossava per le feste comandate tornò a pesarle.
Non c’era nulla che potesse rimproverare ad Alberto; come sempre era pieno di attenzioni per lei. Facevano meno spesso l’amore, ma questo in fondo era naturale, dopo diversi anni. Era naturale, si diceva, ma non per lei. Era addestrata al disamore e aveva sviluppato antenne potentissime, così, nel profondo, si ostinava a leggerci i prodromi della fine.
Scelse di passare anche le vacanze estive da sola, in un orgoglioso isolamento, fingendo di studiare, in realtà aspettando con il cuore in gola le telefonate di Alberto dalla Spagna. Ma non le aspettava con gioia. Ora aveva paura. Aveva paura di lui e di quel suo mondo nuovo, da cui era tagliata fuori.
Aveva paura di sentirsi dire con delicatezza, perfino con dolcezza, che si era innamorato di un’altra, finché Alberto lo fece davvero. Finalmente pronunciò quelle parole e Anna provò un dolore lancinante mischiato a un senso di sollievo.
Alberto le disse che poteva rimanere nel suo attico fino alla laurea e magari dopo, se ne avesse avuto bisogno. Lui si sarebbe trasferito a Madrid dalla sua nuova ragazza, che aveva a disposizione un grande appartamento, perché era figlia di un diplomatico.
Ecco, ora tutto tornava. Tutto si concludeva com’era nell’ordine delle cose.
Anna ovviamente declinò l’offerta. Meglio una stanza senza finestre, meglio una camera senza vista, piuttosto, si disse.



