di Sandro Moiso

Michael Hardt, I Settanta sovversivi. La globalizzazione delle lotte, DeriveApprodi, Bologna 2025, pp. 315, 22 euro

Che non abbiamo avuto nulla a che fare con il terrorismo è ovvio. Che siamo stati «sovversivi» è altrettanto ovvio. (I militanti dell’Autonomia in attesa del processo nel carcere di Rebibbia – 1983)

Michael Hardt, docente alla Duke University del North Carolina è stato co-autore con Toni Negri di numerosi e ben noti saggi di carattere politico. Il suo testo pubblicato in Italia per DeriveApprodi, e uscito in lingua inglese nel 2023 per la Oxford University Press, ha come intento quello di riassumere la grande varietà di esperienze di lotta e organizzazione sviluppatesi nel corso degli anni Settanta del ‘900 e, allo stesso tempo, anche quello di affrontare ed esporre con coerenza e lucidità le differenze intercorse tra le lotte degli anni Sessanta, tutte troppo spesso riassunte a livello di immaginario collettivo dall’autentico brand rappresentato dal ’68, e quelle del decennio successivo, altrimenti riassumibile da un’altra iconica cifra stilistica, quella del ’77.

Due riferimenti simbolici per la rappresentazione di esperienze allo stesso tempo così vicine eppur così lontane. Soprattutto in tante valutazioni sociologiche, politiche e storiche successive che hanno, troppo spesso, diviso gli “anni dell’innocenza”, quelli che avrebbero portato al 1968, da quelli della furia, della rabbia e dell’estremismo. In cui, però, il concetto di autonomia politica, di classe e di genere, si è materializzato concretamente nelle esperienze organizzative di lotta dei lavoratori salariati, delle donne, dei giovani e delle loro differenti culture. Anche se in certe ricostruzioni a posteriori si è sostenuto che, in fin dei conti, negli anni Settanta non sia successo alcunché di significativo.

Sostenere che negli anni Settanta non sia successo nulla, tuttavia, richiede una certa strategia per supportare una tale cecità. In una certa misura, questa cecità ha a che fare con il «come». Molti dei movimenti più importanti degli anni Sessanta – i movimenti dei lavoratori di fabbrica, le femministe, le lotte di liberazione nazionale e antimperialiste, i movimenti antirazzisti, le ribellioni studentesche e giovanili, le lotte indigene – sono continuate negli anni Settanta, in molti casi in numero maggiore e con più intensità di prima. Il fatto che potessero diventare invisibili (almeno per alcuni) era dovuto al fatto che assumevano caratteristiche molto diverse, forme di organizzazione radicalmente rinnovate e nuovi obiettivi, che non rientravano nelle narrazioni accettabili. Nanni Balestrini e Primo Moroni, ad esempio, riferendosi al 1968 e al 1977, date di riferimento per l’attività dei movimenti in Italia, sostengono che mentre la società dominante poteva comprendere e digerire le forme di protesta che avevano caratterizzato gli anni Sessanta, la militanza degli anni Settanta risultava indigesta. «Per questo motivo», sostengono, «la versione “ufficiale” definisce il ’68 come buono e il ’77 come cattivo, infatti il ’68 è stato recuperato, mentre il ’77 è stato annientato»1. I movimenti degli anni Settanta sono stati cancellati dalla memoria, dunque, in parte perché erano diventati irriconoscibili dalla narrazione «ufficiale» (o politicamente inaccettabili per quest’ultima)2.

In particolare, Va subito detto che, soprattutto per quanto riguarda l’Italia, la rimozione, se non addirittura la criminalizzazione, degli anni Settanta, deriva dalla drastica rottura con i partiti riformisti e/o “comunisti” di stampo togliattiano e berlingueriano che avvenne tra “movimenti” e rappresentanza politico-parlamentare proprio nel corso del secondo quinquennio di quel decennio. Frattura di cui il ’77 rappresentò una sorta di punto di non ritorno per i movimenti che si erano andati progressivamente e vistosamente radicalizzando. Un evento spaventevole e spaventoso per chi pensava di essere riuscito a ricondurre le lotte nei più tranquilli argini della trattativa parlamentare e sindacale.

L’autonomia è un concetto che ha caratterizzato le aspirazioni di un’ampia gamma di movimenti progressisti e rivoluzionari degli anni Settanta. Gli operai militanti, ad esempio, assumendo il controllo delle proprie lotte, dichiararono la propria autonomia non solo dai padroni delle fabbriche, ma anche dalla leadership e dalle imposizioni dei sindacati dominanti. I lavoratori dell’industria, in diversi contesti nazionali tra loro eterogenei, hanno creato strutturedecisionali collettive per decidere da soli quando iniziare uno sciopero e quando terminarlo, se occupare una fabbrica e come gestirla, e persino quando prendere le armi per difendersi. (L’inizio degli anni Settanta ha rappresentato un punto culminante della lotta di classe industriale in molti paesi, sia per l’intensità che per il numero degli scioperi)3.

Allo stesso tempo, però, e questo uno degli elementi che rendono utile e necessaria la consultazione del testo di Hardt, l’autonomia politica ed organizzativa della classe operaia fu soltanto uno degli elementi caratterizzanti le lotte di quegli anni. Che furono segnate in maniera nuova e, spesso, originale da una molteplicità di esperienze e rivendicazioni che trascendevano i limiti della tradizione operaista.

La molteplicità è un’altra pietra angolare che attraversa i movimenti, emergendo con particolare chiarezza nel contesto dei dibattiti femministi. Un presupposto per la concezione politica della molteplicità fu il riconoscimento, sempre più diffuso a metà del decennio, che la centralità operaia nella lotta rivoluzionaria era giunta al termine. Non si trattava della fine della lotta di classe o della cessazione della sua rilevanza, ovviamente, ma del congedo della presunta priorità dei lavoratori industriali, così come della convinzione che un’avanguardia operaia potesse guidare e unificare il movimento rivoluzionario nel suo complesso. […] Gli attivisti e i teorici degli anni Settanta hanno formulato un’analisi del potere caratterizzata dall’intersecarsi delle identità e delle strutture multiple del dominio (capitalista, razziale, imperialista e patriarcale), [che] Di conseguenza, hanno avanzato la proposta strategica di articolare insieme le lotte femministe, antirazziste, antimperialiste e anticapitaliste, senza alcuna priorità tra di esse. Proposte simili di molteplicità strategica sono state formulate anche in progetti politici multirazziali, sotto la bandiera delle persone «di colore» negli Stati Uniti, ad esempio, e all’interno del Black Consciousness Movement in Sudafrica. Anche in questi casi, la molteplicità strategica può funzionare […] solo se nessuna delle sue componenti ha la priorità sulle altre4.

L’altro elemento che scuoteva dalle fondamenta l’ordine dato, anche a sinistra, era costituito dalla rimessa in discussione di ciò che doveva intendersi come democrazia, non soltanto come rivendicazione nei confronti dei regimi illiberali, dittatoriali, autoritari, golpisti e di destra.

Le nozioni di democrazia rivoluzionaria che sono proliferate, non solo si sono opposte al governo autoritario e al controllo capitalista, ma hanno anche rifiutato le strutture consolidate dei regimi democratici liberali. In termini sintetici, si potrebbe dire che questa democrazia privilegia la partecipazione rispetto alla rappresentanza, ovvero la partecipazione universale al processo decisionale politico, piuttosto che schemi di rappresentanza che lasciano il potere nelle mani di pochi5.

Infine, last but not least, l’elemento di rinnovamento contenuto nell’esperienza dei movimenti del decennio, che allo stesso tempo ne costituiva la prima ed ultima ragione di fondo, fu quello della liberazione.

La liberazione, infine, può essere il concetto che unisce tutti gli altri e funge da concetto guida per comprendere l’epoca. Gli attivisti erano convinti che, attraverso una lotta organizzata, fosse possibile cambiare tutto e reinventare la società dalle fondamenta. Liberazione non significa solo emancipazione, cioè liberare le persone dalle loro catene per farle partecipare alla società esistente. La liberazione richiede anche una trasformazione radicale di quella società, rovesciando le sue strutture di dominio e creando nuove istituzioni che favoriscano la libertà. Ma anche questo non basta, perché per la liberazione devono cambiare non solamente le strutture ma anche i soggetti, avviando un processo di trasformazione soggettiva collettiva. Gli anni Settanta sono stati forse l’ultimo periodo in cui numerosi movimenti sociali e politici su larga scala hanno avuto l’audacia e la fiducia di puntare inequivocabilmente alla liberazione e di mettere in pratica i mezzi per raggiungerla6.

In tale concezione, è evidente, di fondavano le istanze rivoluzionarie datesi a partire dal secolo precedente, ma liberate da tutte quelle istanze autoritario-partitiche che avevano contribuito a dar vita alle mostruosità repressive del socialismo reale e, allo stesso tempo, arricchite dalle formulazioni marcusiane liberate dall’aspetto meramente filosofico per essere integrate nell’attività politica e nella vita dei militanti.

Il testo di Hardt, che documenta nell’arco di sedici capitoli dedicati ai diversi aspetti di quei movimenti e ai loro contenuti tutto l’arco dell’esperienza Settanta, oltre a porsi nelle conclusioni il problema di ciò che è giunto ed è stato assorbito dai movimenti attuali, chiarisce quale fu e rimane la sostanziale differenza tra gli anni Sessanta e Settanta, cui si è qui accennato fin dall’inizio.

Ciò che più significativamente divide i movimenti progressisti e rivoluzionari degli anni Settanta da quelli degli anni Sessanta è la loro diversa relazione con il presente. Semplificando molto, gli anni Sessanta sono stati un punto di svolta cruciale che ha segnato la fine di un’epoca. La coincidenza e l’accumulo di lotte in quel decennio, a volte indicato come il «Sessantotto globale» – tra cui lotte anticoloniali e antimperialiste, le rivolte contro i regimi statali socialisti, le insurrezioni contro la dominazione razziale, le ribellioni degli operai contro la disciplina di fabbrica ecc. – hanno reso sempre più ingovernabile il potere globale dominante, così come i regimi disciplinari di ogni paese. Hanno fatto precipitare una lunga serie di crisi sociali, ecologiche e politiche nel corso dei primi anni Settanta. Possiamo certamente imparare dai movimenti degli anni Sessanta, sia da quelli vittoriosi che da quelli sconfitti, ma fondamentalmente appartengono a un mondo passato, non al nostro.
Gli anni Settanta, invece, segnano l’inizio del nostro tempo. È stato un decennio di grandi cambiamenti tellurici nelle strutture e nei meccanismi che governano l’ordine sociale, che gli studiosi hanno cercato di cogliere da diverse angolazioni e attraverso svariati punti di vista. La società post-industriale, ad esempio, ha preso forma negli anni Settanta: è stato, forse paradossalmente, il picco del potere dei lavoratori industriali e l’inizio del suo declino. Contemporaneamente, il lavoro e i regimi salariali si sono spostati dai modelli fordisti a quelli postfordisti, dando inizio a un’epoca di forme di occupazione sempre più precarie e informali. Allo stesso tempo, le politiche neoliberali hanno intrapreso un percorso di privatizzazione dei beni pubblici, di indebolimento delle strutture di welfare e di aumento del divario tra ricchi e poveri, rendendo lo Stato meno reattivo alle richieste sociali e alle riforme progressive.
I progetti progressisti e rivoluzionari si adattarono a questo nuovo contesto in una miriade di modi. Poiché la protesta era diventata meno efficace, a causa della minore risposta dello Stato alle richieste sociali e dell’imposizione di livelli più elevati di repressione (una condizione a cui mi riferirò in seguito come «fine della mediazione»), gli attivisti sono stati costretti a superare la tattica della protesta e a inventare nuove forme di organizzazione e di azione. Allo stesso tempo, si è assistito a una proliferazione e a una maggiore visibilità delle diverse forme di lotta di liberazione, comprese quelle che riguardavano il genere, la razza, la sessualità e le molteplici forme del lavoro. Ciò era dovuto in parte al fatto che gli operai non fossero più un’avanguardia e i protagonisti centrali di un unico movimento. Gli attivisti hanno incominciato a sviluppare una serie di articolazioni tra questi molteplici movimenti per rispondere a nuove esigenze e organizzarsi strategicamente7.


  1. N. Balestrini – P. Moroni, a cura di, L’orda d’oro 1968-1977. La grande ondata rivoluzionaria e creativa, politica ed esistenziale, Feltrinelli, Milano 2021, p. 527  

  2. M. Hardt, I Settanta sovversivi. La globalizzazione delle lotte, DeriveApprodi, Bologna 2025, pp. 8-9.  

  3. M. Hardt, op.cit., pp. 14-15.  

  4. Ivi, pp. 15-16.  

  5. Ibidem, p. 16.  

  6. Ibid., p. 16.  

  7. Ivi, pp. 17-18.