Racconto di Cesare Battisti
Respiro i miei pensieri, non sono io, è un verso di Blessing Calciati, l’ho letto ieri sera ed è perciò che stanotte mi sono svegliato respirando male. E l’afa, la colpa al caldo è il mantra di noi detenuti, è un solido soggetto di conversazione. Quando non si può fare o dire altro, buttare li un commento sul clima aiuta. Ci fa sentire partecipi, quasi normali. Succede anche che spingiamo la conversazione oltre e, volendo essere pignoli, viene fuori che è tutta colpa del riscaldamento globale.
Un disastro non proprio naturale, che si ostinano a negare quelli che i pensieri non li respirano, li producono prima di vomitarli. E di palo in frasca, strana associazione di idee, spunta Gaza da sotto le rovine. Ed ecco che nell’aria del cortile non rimane più un pensiero da respirare. Abbiamo esaurito le parole, è il silenzio che sovrasta lo sfacelo.
Sotto il piombo israeliano è rimasto un gemito, che sale fino al cielo è spegne il sole. È il lamento di una madre che stringe al petto il corpo dilaniato del figliolo. “Respiro i miei pensieri”, ce ne erano altri, di versi, tutti molti belli, ma questo è quello che mi sono portato a letto ieri sera. In cella non si è mai del tutto al buio. Con i rumori, dal ferro e dal cemento penetrano bagliori d’ordine e progresso, e le ombre si mettono a ballare. Non sono proiezioni di pensieri, mai da respirare, sono sagome prescritte dalla sorveglianza che si arrampicano sui muri, prima di cadere.
Ombre soporifere, servono a dissuadere i cattivi pensieri, inducono al sonno. A un brulicare di sogni che non sono sogni ma sghiribizzi di un cervello esausto. Niente di straordinario, capita spesso di rimanere appeso a un pensiero, a una sensazione che tocca e fugge, a un ricordo troppo labile per essere messo a fuoco. Può anche essere qualcosa che ci è sembrato importante e che non vogliamo lasciar andare cosi.
Respirare i propri pensieri non è una cosa da niente, è precisamente quello che dovrei fare ogni volta che mi siedo qui a scrivere. Quando l’unico pensiero a far rumore è il respiro lieve del mio compagno di cella, che dorme rannicchiato come un bambino e suda. A pochi centimetri dal suo cuore, io cerco le parole che lui respira.
La curiosità di sapere se si tratta di pensieri vivi o sono il ricordo di una vecchia lista della spesa. Se invece di un respiro, non sia il boccheggiare di chi cerca invano le parole per dar voce al pianto di un bambino che si sta spegnendo a Gaza.