di Mario Coglitore

La fine dell’età moderna è caratterizzata non soltanto da rovine industriali ma anche dal disfacimento del potere coloniale, i cui resti si trascinano nella vita delle genti che esso ha sradicato. Queste genti sono «i vedenti» dell’Occidente metropolitano, consapevoli delle storie violente verso cui la popolazione dominante è cieca.

Laura U. Marks (L’esergo compare in Iain Chambers, “Mediterraneo blues. Musiche, malinconia postcoloniale, pensieri marittimi”, Napoli, Tamu edizioni, 2020 (ed. or. 2008), p. 63).

 

La rotta di Colombo

Non sappiamo se Cristoforo Colombo, quando intraprese il suo primo viaggio per acqua alla ricerca delle Indie, fosse consapevole del fatto che stava riscrivendo la storia; o meglio, che ne stava scrivendo una nuova a incondizionato sostegno della immarcescibile cultura d’Occidente di cui già si era decretata la superiorità assoluta, costringendo ai dissimulati inganni di un potere che più tardi sarebbe stato definito coloniale.
Uomo di commercio spregiudicato, oggi si direbbe imprenditore visionario e al contempo spietato, Colombo prende posto nel nostro immaginario collettivo nel ruolo di intrepido navigatore, evidenza biografica quest’ultima che pare non confermata dalle cronache delle sue gesta per mare. La ricerca di guadagni lucrosi e la propensione al successo personale ne ritagliano a tutto tondo la figura di europeo sospinto all’avventura per scopi tutt’altro che umanitari e certo molto più interessato a contribuire alla ridefinizione di una cartografia planetaria in quel torno di tempo in rapido sviluppo proprio grazie alle grandi esplorazioni geografiche.

[…] Colombo non può essere tenuto separato dallo sfruttamento imperialista delle sue scoperte e deve essere costretto ad assumersi una parte di responsabilità per lo sfruttamento brutale delle isole e dei continenti che ha scoperto. La sua avidità per l’oro, la sua approvazione della schiavitù, la sua volontà di sfruttare a morte le società native che ha incontrato (sebbene non fosse il peggiore dei conquistadores sotto questo aspetto) hanno gettato un’ombra sui suoi successi che non può essere trascurata ora con la stessa leggerezza di Morison nel 1942 […]. Carl Ortwin Sauer1 […] ha caricato un pesante fardello di responsabilità per la crudele fase iniziale dell’imperialismo spagnolo sulle spalle di Colombo, ed è difficile ignorare tale accusa. [Colombo] fu assorbito dalle sue idee dopo la prima scoperta e regolò la sua vita in base ai suoi reali e presunti diritti e privilegi. Queste caratteristiche ci mostrano un uomo che, lontano dal mare, poteva essere sensibile e orgoglioso come lo descrive Morison, ma che era anche spesso estraneo alla comune umanità2.

Il “portatore di Cristo”, se sciogliamo la radice filologica del nome di battesimo, Cristoforo per l’appunto, reca con sé tutta la potenza della Corona spagnola, nel cui erario verranno versati nei decenni successivi consistenti balzelli, e la lungimiranza del mercante che inaugura un ennesimo tracciato di economia predatoria in un oceano mare3 nel quale fluisce, in espansione costante, una rete di commerci che ben presto cambierà il corso delle sorti dell’Europa, piccola e aggressiva, quanto assiepata, propaggine peninsulare dell’Eurasia4.
Dell’Occidente, Colombo – un cognome questo che si impasta in qualche modo con i mitologemi della cristianità: la colomba è uccello che dall’Arca di Noè in poi suggella uno strettissimo rapporto con il divino5 e con il “marino”6 – trasferirà ai nativi che incontra in itinere tutte le inossidabili certezze della sua fede religiosa e temporale, sicuro com’è di doverli sottomettere nel mentre pure li civilizza sottraendoli alla barbarie del loro stato di natura.
La prevaricante “missione umanitaria” europea nel Nuovo Mondo che Colombo invera pienamente – a guardar bene perlopiù incarnata da ciurme di pregiudicati che in patria sarebbero stati costretti a marcire in galera – sembra disegnare una mappa di corpi e costumi societari che per la prima volta si immergono nel dinamismo “magnifico e progressivo” della trama storica d’Occidente, una fine tessitura di autoproclamate verità.
A questo proposito, ci soccorre a fare chiarezza l’acume e lo spirito d’osservazione di un grande etnologo:

È difficile capire le origini delle civiltà (indigene) americane senza ammettere un’attività intensa su tutte le coste del Pacifico – asiatico e americano – che si propagava di zona in zona su tutta la costa grazie alla navigazione costiera; e tutto ciò per diversi millenni. Noi rifiutavamo, un tempo, la dimensione storica all’America precolombiana perché l’America postcolombiana ne era stata privata. Ci rimane forse da correggere un secondo errore che consiste nel pensare che l’America sia rimasta per 20.000 anni tagliata fuori dal mondo intero, come lo era stata dall’Europa occidentale. Tutto fa pensare piuttosto che al grande silenzio atlantico rispondesse, su tutto il contorno del Pacifico, un ronzio di alveare7.

“Api industriose” avevano già costruito da secoli un intenso e ininterrotto traffico marittimo tra le coste occidentali del continente americano e le isole e i litorali asiatici orientali, ibridando culture e popolazioni. Ci avrebbe pensato il colonialismo a cancellare le voci che raccontavano altri giorni e altre stagioni dell’umanità: si erano fatti impellenti le conquiste, la necessità di spartizioni, i progetti di occupazione.

In genere con il termine colonialismo8 (ci riferiamo al periodo coloniale europeo che va dal XVI al XX secolo (secondo altri, addirittura dal XV)9.
Gli Stati nazionali dell’Europa occidentale colonizzano buona parte di Africa, Americhe e Asia. Naturalmente anche prima dell’arrivo di Colombo in America non sono stati pochi i popoli che si sono dedicati allo sfruttamento di comunità più o meno vicine: Persiani, Romani, Aztechi, Ottomani. E ovviamente Greci.
L’espansione dei Greci alla ricerca di nuove terre nelle quali insediarsi è ben documentata. Due le ondate colonizzatrici: la prima nel XII secolo a. C. e la seconda tra l’VIII e il V a. C. Le colonie greche erano caratterizzate da un forte legame con la madrepatria ed erano a tutti gli effetti delle poleis tradizionali, nei costumi, nell’organizzazione della vita cittadina, nella composizione urbanistica e, in particolare, nella lingua, pur mantenendo un’ampia autonomia culturale. Questo aspetto va sottolineato, tenuto conto del fatto che la civiltà greca è considerata la culla dell’europea.
Una delle narrazioni “fondanti” dell’Europa occidentale è certamente, infatti, quella riferita alla civiltà greca nel suo peculiare ruolo di matrice dell’universo antropologico europeo. Anche se qualche dubbio resta. Per sfatare ciò che ritiene in qualche modo una leggenda, Martin Bernal, studioso del Vicino Oriente, termine quest’ultimo coniato dalla diplomazia britannica nell’Ottocento, ha pubblicato, nel 1987, Atena nera10, tre volumi molto controversi e aspramente criticati da un buon numero di studiosi. Nel corso del suo saggio, Bernal ha decostruito un pezzo dopo l’altro il modello eurocentrico della civiltà greca in quanto “madre” dell’Europa, il luogo in cui tutto è iniziato; la civiltà dei Greci è figlia, invece, di antiche culture che l’hanno preceduta, come quelle fenicia e egiziana: comunità afroasiatiche, e quindi “nere”; un peccato originale che contrastava con l’imposizione di una genealogia “bianca” in tutti gli aspetti delle successive formalizzazioni storiche, politiche e culturali del cosmo europeo.
Sarebbe stata la tesi romantica degli studiosi tedeschi e inglesi di Settecento e Ottocento a costruire ex novo il mito delle radici greche della cultura europea, eliminandone senza tanti complimenti le vere origini di cui non si poteva dire, nel caso di specie la semitica e l’africana, espunte dal modello “ariano” che si impose in particolare a partire dalla seconda metà del XIX secolo11. Il colonialismo storico europeo, che proprio con Colombo aveva mosso passi importanti, possiede due caratteristiche che lo rendono unico: la prima consiste nel fatto che non solo estende la scala della conquista nello spazio, ma impone anche un’unica narrazione intorno a valori condivisi, credenze e politiche universalizzanti preannunciando la globalizzazione che oggi conosciamo; la seconda è che gli imperi europei di età moderna non pretendono esclusivamente tasse esorbitanti dalle colonie: cercano in aggiunta, con un qualche successo, di mutare in maniera radicale l’ordine sociale e economico delle società colonizzate.
Il colonialismo è un sistema globale all’interno del quale i colonizzatori utilizzano il loro potere per espropriare i colonizzati di importanti proventi che trasferiscono nella madrepatria e giustificano questa pratica collocando a forza popoli e culture in un impianto di rigida differenziazione gerarchica; è una concezione del mondo in base alla quale il colonizzatore è un essere superiore (forte, razionale, progredito, ingegnoso e soprattutto cristiano) mentre il colonizzato appare inferiore (debole, ignorante, selvaggio, pigro e soprattutto pagano): bisognerà ad ogni costo civilizzarlo, in una parola, insegnandogli a camminare lungo le strade dell’unico, vero mondo, quello europeo12.
Non può non tornare alla mente la notissima poesia Il fardello dell’uomo bianco di Rudyard Kipling, una sintesi perfetta dell’approccio intrusivo, emendativo e concentrazionario occidentale.

Addossatevi il fardello dell’uomo bianco – […] / Per custodire in pesante assetto / Gente irrequieta e sfrenata – / Popoli truci, da poco soggetti, / Mezzo demoni e mezzo bambini13.

L’espansione coloniale si è intrecciata nel corso della sua durata con almeno due sistemi di produzione diversi. Se all’inizio si trattò di spietata presa di possesso e imposizione di tributi (a partire dagli Spagnoli in Sud America), alla fine del periodo coloniale classico si verificò una transizione al modello economico del moderno capitalismo. Dunque, se per i primi tre secoli ci furono conquiste territoriali, appropriazione di ricchezze e realizzazione di una imponente rete mercantile globale, con la rivoluzione industriale, dalla seconda metà del XVIII secolo, venne stabilito un procedimento produttivo che non si basava direttamente sull’esazione forzata di tasse, imposte e gabelle di ogni genere, e sull’invio in patria di ingenti quantità di materie prime. Il colonialismo ha creato le condizioni per il passaggio da una modalità tipicamente “tributaria” (piantagioni e miniere che lavorano a pieno ritmo avvalendosi di esseri umani costretti a un terribile servaggio) ad una interamente articolata su fabbriche, manovalanze, mercati nazionali sviluppati e cicli finanziari sempre più internazionalizzati. L’operaio vende la propria prestazione lavorativa e riceve in cambio un compenso, anche se lo sfruttamento è evidente: i lavoratori generano un valore che è di gran lunga maggiore di quanto costi retribuirli e che il capitalismo converte in lauti profitti. Naturalmente il lavoro salariato non si diffuse in tutto il mondo con le stesse caratteristiche: se nell’Europa occidentale e bianca divenne la norma, nelle regioni extra europee alcune forme di lavoro costrittivo del passato sopravvissero ampiamente: schiavitù, servitù della gleba, lavori forzati e via dicendo, anche se non si trattava di residui “anacronistici”; piuttosto di moderne forme di servitù, favorite e sviluppate dall’industrializzazione, a fronte della sempre maggiore richiesta da parte europea di materie prime o semilavorate come zucchero, cotone e tabacco.
Fu così che colonialismo e capitalismo si intrecciarono in un connubio letale e soprattutto definitivo.

 

Imperium

Ciò che la pratica coloniale stabilisce in termini generali è quello che si potrebbe chiamare un Imperium. Imperium nella lingua latina non significa soltanto impero ma anche ingiunzione, ordine, comando, potere, autorità, dominio, governo, giurisdizione. Tutte descrizioni concettuali attribuibili al colonialismo, alla “situazione coloniale”, come avrebbe detto Georges Balandier14, uno tra i primi studiosi del secondo dopoguerra ad utilizzare l’espressione. La “situazione coloniale” è caratterizzata da un intreccio di elementi che vanno dal politico, al sociale, all’economico: il colonialismo è un’aggregazione di complessità relazionali che devono essere intese come un unicum che procede dall’interconnessione delle sue singole componenti. L’imperium coloniale si incista nella realtà e la plasma a sua immagine e somiglianza.
Il colonialismo è una mentalità collettiva, una visione globale e globalizzante che ancora non ci abbandona; è linguaggio e interpretazione del mondo, cultura condivisa, relazione tra le persone, per quanto sbilanciata a favore dei colonizzatori, e tra le persone e le cose; un’impronta della modernità che non è mai veramente scomparsa.
Non sarà possibile “decolonizzare” davvero il pianeta. Siamo oggi di fronte a configurazioni inossidabili di “neo-colonialismo”, essendo l’approccio strategico coloniale tutt’altro che sorpassato. A voler insistere, si potrebbe al più parlare di “post-colonialismo”, ma a patto che si accetti di introdurre un altro concetto che sembra interessante ai fini del nostro ragionamento: quello di “colonialità”. In questo modo possiamo dar conto dello scenario che si profila ai nostri giorni quando proviamo a volgere lo sguardo verso l’Intelligenza Artificiale (da adesso in avanti IA) di cui ci occuperemo a breve.
La “colonialità” è ciò che potremmo definire “l’effetto colonialismo”.

Al di là del colonialismo c’è, infatti, un elemento che gli sopravvive: la “colonialità”. Ciò significa che se da una parte il dominio militarizzato è terminato già da diversi decenni nelle ex colonie europee, permane, allo stesso tempo, quell’approccio tipico della pratica coloniale che affonda le proprie radici nell’epoca della Grecia dell’età classica15.

In sostanza, la cultura coloniale, a monte di politica e economia, ha tracciato linee di forza che hanno sancito le indebite incette di terre e genti con l’approntamento di sfere di influenza non riconducibili a banali mappature geografiche. Piuttosto a concrete disposizioni di pensiero, insieme di valori condivisi da diffondere a macchia d’olio.
La “colonialità” è ciò che sopravvive al colonialismo e spiega la permanenza delle dinamiche di potere tra coloro che sono avvantaggiati e coloro che sono svantaggiati dai processi storici di espropriazione, estrazione e appropriazione. Specifica attenzione, in questo diagramma d’analisi, va riservata al tema dell’estrazione perché riguarda anche gli attuali processi di sviluppo del cosiddetto “colonialismo dei dati”.
Anibal Quijano ha descritto molto bene la “colonialità”16. Il potere della “colonialità” risiede nel controllo sulle strutture sociali nelle quattro dimensioni di: autorità; economia; genere e sessualità; soggettività e conoscenza. In particolare, nel nuovo schema mondiale di dominazione voluto dagli europei, sono il concetto di “razza” e la classificazione sociale razziale della popolazione mondiale ad alimentare la “colonialità” con significative conseguenze: distribuzione razziale del lavoro, imposizione di nuove identità geo-culturali razziali, sorveglianza delle risorse produttive e dei capitali, che instaurano relazioni sociali fortemente verticalizzate.

Allo stesso tempo, nello stesso movimento storico, e per la prima volta nella storia dell’umanità, insieme all’America veniva prodotta una nuova categoria mentale per codificare i rapporti tra le popolazioni conquistatrici e le popolazioni conquistate: la nozione di razza come insieme delle differenze biologiche strutturali e gerarchiche tra il dominante e il dominato. Quei rapporti di dominio finirono così per essere considerati come “naturali”. E quella nozione non era intesa a spiegare soltanto le differenze esteriori o fisionomiche tra dominanti e dominati, ma anche quelle culturali e mentali. E dal momento che i due termini di tale rapporto erano considerati, per definizione, superiori e inferiori, le differenze culturali associate a quei termini erano anch’esse codificate, rispettivamente, come superiori e inferiori per definizione17.

La “colonialità” è la riproduzione di gerarchie geo-politiche di razza e di genere che sono state inventate e strumentalizzate come “dispositivi di controllo coloniale”18.
Ne è emerso un potere mondiale capitalistico moderno/coloniale con il quale ancora adesso facciamo i conti.

 

[Fine prima parte, la seconda uscirà il 29 agosto. In copertina un particolare dall’immagine di copertina del saggio di N. Couldry e U. A. Mejias, Il prezzo della connessione. Come i dati colonizzano la nostra vita e se ne appropriano per far soldi, Il Mulino, Bologna, 2022].


  1. Carl Ortwin Sauer, The Early Spanish Main, Berkeley and Los Angeles, University of California Press – London, Cambridge University Press, 1966. 

  2. Così David B. Queen, Foreword, in Samuel Eliot Morison, Admiral of the Ocean Sea. A Life of Cristopher Columbus, Boston, Northeastern University Press, 1983, p. XIX (trad. nostra). Pubblicata in origine nel 1942, la biografia di Morison dedicata a Colombo resta una delle migliori e più popolari sul famoso genovese. Il libro ha conosciuto più di una ristampa nel corso degli anni. 

  3. Nell’antichità il termine “oceano mare”, specie tra Greci e Romani, era usato per descrivere la distesa d’acqua vastissima e misteriosa, in seguito conosciuta come Oceano Atlantico, che si estendeva oltre le Colonne d’Ercole, l’attuale stretto di Gibilterra. 

  4. Secondo Elisée Reclus (1830-1905), celebre e contrastato geografo, definire l’Europa equivaleva a delimitarla, considerandola per prima cosa una penisola dell’Asia. Cfr. Elisée Reclus, Nouvelle Géographie Universelle: la terre et les hom¬mes, I, L’Europe méridionale, Paris, Libraire Hachette e C., 1876, p.10. La Nouvelle Géographie venne data alle stampe in 19 volumi tra il 1876 e il 1894. A partire dal 1884, la casa edi¬trice Vallardi propose la traduzione italiana dell’opera. 

  5. Ricaviamo queste suggestioni da un breve pamphlet, interessante quanto bizzarro nella sua accuratezza filologica, a tratti persino improbabile, di Emilio Michelone, uomo di mare prestato all’indagine storico-letteraria, Il mito di Cristoforo Colombo. Ricerca “strutturale” e linguistica, Milano, Varani Editore, 1979, pp. 51-52. 

  6. Ivi, pp. 20-21. 

  7. Claude Lévi-Strauss, Tristi Tropici, Milano, il Saggiatore, 1994 (ed. or. 1955), p. 240. 

  8. Nick Couldry e Ulises A. Mejias, Il prezzo della connessione. Come i dati colonizzano la nostra vita e se ne appropriano per far soldi, Bologna, il Mulino, 2022 (ed. or. 2019), pp. 144-158. La bibliografia sul tema del colonialismo è sterminata. Utilizziamo qui, in particolare, Couldry e Mejias, seguendo la loro analisi del fenomeno coloniale lungo un asse temporale che trascorre dal colonialismo storico al “colonialismo dei dati”, secondo quanto argomenteremo nel corso di queste pagine. 

  9. Il protocapitalismo preindustriale aveva già fornito un contributo decisivo: l’abuso criminale sugli indigeni costringendoli alla sottomissione e al lavoro forzato inizia prima dell’arrivo dei bianchi nei Caraibi nel Trecento e Quattrocento nelle isole orientali atlantiche, dalle Canarie a Madera, con le piantagioni schiaviste dei mercanti iberici e italici. Un modello di appropriazione dei beni altrui in seguito trasferito nelle Americhe. Cfr. su questo Jean-Frédéric Schaub, The Imperial Question in the History of Ibero-America. The Importance of the Long View, in Echoes of Empire. Identity, Memory and Colonial Legacies, edited by Kalypso Nicolaïdis, Berny Sèbe and Gabrielle Maas, London, Tauris, 2015, pp. 61-78; José Damião Rodrigues, Widening the Ocean. Eastern Atlantic Islands in the Making of Early-Modern Atlantic, Comparative 26, no. 5 (2016), pp. 76–89. Sulla schiavitù e l’assetto razziale che ne è seguito nella costruzione del mondo moderno, si veda Aurélia Michel, Il bianco e il negro. Indagine storica sull’ordine razzista, Torino, Einaudi, 2021 (ed. or. 2020). 

  10. Cfr. Martin Bernal, Atena nera. Le radici afroasiatiche della civiltà classica, Milano, Il Saggiatore, 2011 (ed. or. 1987), pp. 333-359. Appena un anno fa, attraverso un’analisi di lunghissima durata, anche la storica antichista Josephine Quinn ha smontato i fondamenti della visione occidentalizzante del passato, sostenendo che il rapporto di assoluto privilegio tra l’Occidente attuale e l’antichità classica non possiede affatto solide basi storico-culturali ed è una costruzione ideologica abbastanza recente. Cfr. Josephine Quinn, Occidente. Un racconto lungo 4000 anni, Milano, Feltrinelli, 2024 (ed. or. 2024). 

  11. In realtà, il mito della esclusività fondatrice della civiltà greca ha origini più lontane, databili attorno al XIV secolo. Su questo si veda l’eccellente saggio di Sophie Bessis, L’Occidente e gli altri. Storia di una supremazia, Torino, EGA editore, 2002 (ed. or. 2001), pp. 21-23. 

  12. Interessante, ancorché sintetica, sulla costruzione dell’identità europea l’analisi critica di Djarah Kan, Il narcisismo come chiave politica, Jacobin Italia, n. 27, estate 2025, C’era una volta il West, pp. 36-39. 

  13. Pubblicata nel 1899 dalla rivista americana McClure’s, The White Man’s Burden divenne famosa negli anni successivi e fu ritenuta da molti il manifesto dell’imperialismo coloniale europeo. Suscitò da subito una accesa discussione negli Stati Uniti che si trasformò rapidamente in aperta polemica contro Kipling da parte degli intellettuali antimperialisti. La parte di testo qui citata è tratta da Rudyard Kipling, Poems Poesie, a cura di Ornella De Zordo, Milano, Mursia, 1987, p. 123. 

  14. Georges Balandier, La situazione coloniale: una prospettiva teorica (ed. or. 1951), in Idem, La situazione coloniale e altri saggi, Milano, Meltemi, 2022, pp. 83-119. 

  15. Leonardo Franceschini, Decolonizzare la cultura. Razza, sapere e potere: genealogie e resistenze,Verona, ombre corte, 2013, p. 4. 

  16. Cfr. Anibal Quijano, Coloniality of Power and Eurocentrism in Latin America, in International Sociology, vol. 15, n. 2, 2000, pp. 215-232. Il saggio si occupa principalmente di America latina, una delle aree di ciò che è definito “majority world”, ma a partire da quella esperienza radicalmente territoriale e politica il ragionamento si può estendere anche ai Paesi occidentali. 

  17. Ivi, p. 216. Esiste sull’argomento “razza” una consistente bibliografia di cui non riusciremo a dar conto qui. Si rimanda, per una sintetica riflessione sull’origine dell’idea di razza nell’Europa contemporanea, a Mario Coglitore, I confini dell’Europa. Globalizzazioni, conquiste, tecnologie tra Ottocento e Novecento, Venezia, Cafoscarina, 20132, pp. 27-29. In ordine di tempo l’ultimo a cimentarsi con la controversa questione nel panorama storiografico italiano, tracciandone il percorso di sviluppo dall’antichità ai nostri giorni, è stato Andrea Graziosi, Il ritorno della razza. Alle radici di un grande problema politico contemporaneo, Bologna, il Mulino, 2025. 

  18. Cfr. su questo Nelson Maldonado-Torres, ON THE COLONIALITY OF BEING. Contributions to the development of a concept, Cultural Studies, 21(2–3), 2007, pp. 240–270, https://doi.org/10.1080/09502380601162548.