Sinistra rivoluzionarla e composizione di classe in Italia (1960-1980)
A cura di Nico Maccentelli
Redazionale del nr. 18, Dicembre 1998 Anno X di Progetto Memoria, Rivista di storia dell’antagonismo sociale
INTRODUZIONE ALL’OPERA
Il senso di questa pubblicazione, per la rubrica Altroquando, non è altro che quello che ha animato Carmilla sin dai suoi esordi: ravvivare la memoria storica attraverso la letteratura di genere, ma anche con l’analisi e il ripercorrere i passaggi storici e politici di un’epoca ch sembra omai sepolta: quella dell’antagonismo sociale e della lotta politica rivoluzionaria di fine secolo. Ovviamente potete trovare questo contributo che ora mi accingo a introdurvi, insieme a tutti i numeri della rivista Progetto Memoria, di cui La Sinistra Negata rappresenta un po’ il canto del cigno. E per scaricare l’intera raccolta in pdf dovete andare qui. Il fatto però di pubblicare La Sinistra Negata, significa riportare al pubblico, alla sua attenzione, un contributo d’analisi ancora molto attuale, ma anche molto utile per la comprensione delle fasi politiche a cui fa riferimento: un lasso di tempo che va da Piazza Statuto, anni ’60 fino almomento in cui usciva l’ultimo numero di Progetto Memoria. Infatti dal 1960 al 1980 è un refuso poiché non comprende anche tutta la fase successiva, che invece nel saggio viene analizzata. Ma andiamo con ordine.
Un po’ di storiografia
Nel dicembre del 1998 usciva l’ultimo numero di una rivista bolognese, Progetto Memoria, che è stata di fatto la madre politica e culturale di Carmilla e che ha accompagnato la nostra rivista di letteratura antagonista e cultura d’opposizione per alcuni anni. Carmilla infatti nasce nell’estate del 19951, mentre Progetto Memoria (che assumerà nel suo cammino anche il nome di La Comune per poi tornare alla testata originaria) è di molto precedente, risalendo al 1988.
Si può dire che sotto la direzione di Valerio Evangelisti, la redazione di Progetto Memoria, abbia creato le premesse per un viaggio che con Carmillaonline dura ancora oggi che il direttore,Valerio Evangelisti ci ha lasciato… e sono già tre anni.
L’articolo che mi accingo a ripubblicare a puntate, La Sinistra negata, è un redazionale che si trova nell’ultimo numero di questa rivista. Il taglio del lavoro è decisamente operaista. Tuttavia, l’analisi che popone rappresenta un ottimo escursus storiografico e di riflessione che va ben al di là dell’operaismo stesso, estendendo lo sguardo a tutti gli anni ’70, quelli delle pratiche di riappropriazione e autonomia di classe, gli anni della guerriglia sociale, dei collettivi autonomi e della lotta armata. L’intento è quello di chi intende superare i limiti, comprendere le ragioni della sconfitta di fase, con la finalità di proseguire lo scontro di classe e non di affossarlo come un campionario di venduti d’ogni risma ha fatto nel corso di questi decenni.
L’interesse per il militante comunista e antimperialista, così come per lo studioso di quegli anni che, come già accennato, comprendono anche gli anni ’80, ossia l’avvento del neoliberalismo tatcher-reaganiano nel riflusso del movimento rivoluzionario, non può non addentrarsi dentro il punto di vista di in chi quegli anni, in un paio di generazioni, dal ’75-77 ai collettivi universitari e al Kamo2, ha partecipato allo scontro sociale.
Sarebbe infatti fuorviante pensare questa rivista e questo stesso saggio come un’opera omnia del solo Evangelisti. Progetto Memoria vedeva il dibattito e il lavoro di ricerca di tutto il collettivo redazionale. Da parte mia posso solo dire che nemmeno mi ricordo quale punto abbia sviluppato3, ma l’assonanza e la condivisione dei punti di vista e dei temi trattati esprimono un lavoro corale, la sintesi si può dire di un’esperienza che ha preso posizione non certo a favore delle degenerazioni dei disobba casariniani4, ma della prosecuzione di un antagonismo irriducibile. L’imprinting di Progetto Memoria è quello dell’autonomia di classe, in uno stretto legame e in una visione d’insieme delle lotte e dei movimenti di liberazione antimperialisti su scala mondiale, con l’antimperialismo irriducibile e l’antiliberismo anticapitalista nelle metropoli, lungo le varie fasi delle lotte sociali e dello scontro politico nel paese.
Non mi esprimo oltre e lascio ai lettori la scoperta di elementi politici che hanno tutt’oggi un’attualità politica e una visione corretta sulla strategia rivoluzionaria5.
Infine, questo lavoro non si esaurisce in poche puntate e il valore dell’opera risiede anche nella sua mole di materiale analitico lungo un percorso storico di avvenimenti legati allo scontro di classe e alla ristrutturazione capitalistica di cui oggi vediamo l’epilogo… e gli epigoni. Ovviamente chi non volesse attendere i tempi della pubblicazione ha modo come già indicato di andare a leggersi tutto subito. Ma riportare alla ribalta un lavoro come questo è cosa ben diversa dall’averlo in archivio.
Non mi resta che dirvi una buona lettura.
(Avvertenza: in questa prima parte le note non corrispondono nella numerazione a quelle del testo originale, poiché partono dal mio testo introduttivo)
Parte prima. Gli Anni Sessanta.
1. IL PROBLEMA.
Le origini dell’estrema sinistra italiana potrebbero essere collocate in qualsiasi momento della più generale storia del movimento operaio, e non è mancato chi, di volta in volta, ha inteso farle coincidere con le fasi “alte” della resistenza al fascismo, con la nascita del sindacalismo rivoluzionario dei primi del secolo, con l’azione di questo o quel gruppo dissidente, o addirittura con l’affermazione dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori.
Il fatto è che le espressioni “sinistra rivoluzionaria”, “estrema sinistra”, “sinistra di classe” sono abbastanza generiche da comprendere filoni, movimenti, correnti di pensiero tra loro diversissimi e nati in momenti disparati. Un anarchico, ad esempio, legittimamente collocherà la genesi del proprio spezzone di “sinistra rivoluzionaria” nell’epoca della Prima Internazionale; mentre un bordighista la vedrà nel congresso di Livorno e un trotzkista negli anni immediatamente successivi.
Esiste però un settore dell’estrema sinistra che, al contrario degli altri, può vantare una quasi completa “italianità” uno sviluppo non collegato ai destini di un corpus ideologico, bensì alle modificazioni del tessuto di classe che lo ha generato e da cui ha tratto alimento. Ci riferiamo al cosiddetto “operaismo”, nato tra gli anni ’50 e ’60, cresciuto nelle lotte operaie dei grandi stabilimenti del nord Italia, concretizzatosi negli anni ’70 in forme organizzative tanto diverse quanto i CUB, Potere Operaio, Lotta Continua, Autonomia Operaia – fino a dissolversi in quello che è stato ed è chiamato il “movimento” senza ulteriori specificazioni, che tutto ha compreso e tutto ha, in certa misura, appannato.
Le ricostruzioni della storia dell’operaismo – in chiave apologetica o in chiave criminalizzante – non sono mancate6 Quasi sempre, però, è venuta meno, tanto nei protagonisti del movimento quanto (più comprensibilmente) nei loro avversari, la capacità di ancorare le vicende della sinistra operaista – l’unica, ripetiamo, con radici marcatamente sociali e nazionali – al terreno solido delle modificazioni di classe. Ciò ha dato luogo a rivisitazioni tutte ideologiche, quando non effimere o superficiali, agevolando così quell’opera di delegittimazione e di canalizzazione che ha visto impegnata tutta la cultura “istituzionale” italiana dagli inizi degli anni ’80.
Nelle pagine che seguono cercheremo non tanto di ricostruire organicamente la storia della sinistra rivoluzionaria di matrice operaista, quanto di metterne in evidenza la solidità strutturale, sperando – in tal modo – di lasciar trasparire la profonda legittimità storica di un’esperienza che tanto ha inciso sulla società italiana, oltre che sulla vita di migliaia di militanti.
2. L’HUMUS
Alla fine degli anni Cinquanta l’economia italiana perde ogni residuo connotato rurale, beneficiando di una nuova posizione assegnatale sui mercati internazionali. In virtù della maggiore integrazione nei mercati europei, l’Italia adegua la propria produzione alle esigenze dei nuovi partners, convertendo l’industria nazionale ai beni richiesti dai paesi industrializzati. Tali beni – ha notato Augusto Graziani – ovviamente non potevano essere i prodotti tradizionali, nei quali si andavano raggiungendo livelli di consumo prossimi alla saturazione, e nei cui mercati esistevano comunque posizioni acquisite da parte di imprese di antica data. I mercati più intensamente dinamici erano necessariamente quelli dei prodotti nuovi, dei beni di consumo di massa prodotti dall’industria meccanica, dei prodotti della petrolchimica, che per la prima volta si andavano diffondendo in misura massiccia7.
Un impetuoso processo di crescita investe quindi le grandi imprese settentrionali produttrici di beni di consumo durevoli (automobili, elettrodomestici ecc.) originando, accanto ad una tumultuosa distorsione dei bisogni primari8, una forte domanda di forza-lavoro.
È da notare che fino al 1961 esistevano vincoli legali all’emigrazione interna. In particolare, una legge del 29/4/1949 rendeva obbligatorio, ai fini di un cambiamento di residenza, dimostrare l’esercizio di un lavoro nella località prescelta, ma gli uffici di collocamento concedevano il nulla osta necessario solo a chi era in grado di certificare di essere già residente9 .
Stando così le cose, la forza-lavoro immigrata (principalmente meridionale) era costretta a occupazioni clandestine, precarie e sottoremunerate. Nelle metropoli settentrionali si era così addensato un proletariato marginale ed incontrollabile, concentrato nei quartieri-ghetto e negli interstizi dei centri storici, con condizioni di lavoro, di alloggio e di esistenza spesso ai limiti della sopravvivenza.
Quando la domanda di forza-lavoro generata dall’accento posto sui beni di consumo si dilata, le barriere poste all’emigrazione interna cadono come per incanto, e le fasce d’occupazione precaria e clandestina si restringono, fornendo manodopera “regolarizzata” alle grandi industrie in via d’espansione10.
L’assorbimento dei settori “deboli” di forza-lavoro conduce ad un inatteso rafforzamento della classe operaia centrale, la cui composizione interna vede il progressivo passaggio dalle figure operaie tradizionali al cosiddetto “operaio-massa – termine comprendente gli operai “nuovi”, per lo più giovani immigrati nel triangolo industriale dalle altre regioni, ed in particolare da quelle meridionali, spesso senza precedente esperienza di fabbrica o con scarso radicamento nel sindacato11.
In questa fusione tra classe operaia industriale e proletariato “marginale” stanno non solo le ragioni delle sorprendenti caratteristiche della rivolta di Piazza Statuto – in cui una vertenza interna alla FIAT si distende in sommossa territoriale, con larga partecipazione di precari e clandestini12 – ma anche delle conquiste salariali del 1959-1963, la cui portata non ha precedenti nell’Italia del secondo dopoguerra.
La fase economica immediatamente successiva è segnata dal tentativo, padronale e statale, di recuperare quanto concesso sul piano remunerativo, e al tempo stesso di scomporre la classe staccandone nuovamente le fasce meno protette.
Mentre gli imprenditori scaricano sui prezzi gli aumenti salariali accordati, la base produttiva del paese appare ancora troppo fragile per poter soddisfare la domanda aggiuntiva che le conquiste operaie hanno generato13.
È l’inizio di un’intensa spirale inflattiva, cui le autorità monetarie cercano di porre rimedio (onde riequilibrare la bilancia dei pagamenti) con la violenta stretta creditizia dell’autunno 1963. Le conseguenze sono quelle tipiche di qualsiasi politica deflazionistica: gli investimenti cadono, e con essi la produttività e l’occupazione. Va notato che raramente lo Stato aveva manifestato con tanta evidenza la sua natura di regolatore supremo dell’economia capitalistica, non più soggetto alle pressioni dei maggiori gruppi imprenditoriali, ma anzi in grado di imporre loro delle soluzioni sgradite e funzionali solo alle superiori esigenze del “capitale sociale”14.
Durante la crisi, che si prolungherà dal 1964 al 1966, larghi settori di forza-lavoro giovanile e femminile devono lasciare le grandi fabbriche, rifugiandosi nel convalescenziario dell’economia sommersa o rimanendo semplicemente in stato di disoccupazione. Nelle maggiori industrie restano gli operai delle fasce centrali d’età, il cui grado di acquiescenza, come si vedrà, sarà lungi dal corrispondere alle aspettative padronali.
È da notare che, dei processi descritti, la sinistra storica (PCI, PSI, PSIUP) afferra poco o nulla. Il suo referente sociale rimane l’operaio di mestiere di tipo tradizionale, mentre le esigenze di un’analisi approfondita delle trasformazioni interne alla fabbrica sono sacrificate ad una generica impostazione antimonopolistica, nel quadro della quale giungere all’auspicata alleanza con i ceti medi produttivi. È qui che s’inserisce l’azione di gruppi di militanti che, pur operando all’interno dei partiti di sinistra, avvertono con urgenza la necessità di superarne i limiti analitici e programmatici.
(Segue la Prima parte)
NOTE:
L’insurrezione immaginaria, Valerio Evangelisti autore, militante e teorico della paraletteratura, capitolo: Carmilla non è Dracula di Nico Maccentelli, pag. 105 ↩
Centro sociale bolognese sito in Vicolo Borchetta, punto di riferimento negli anni ’80 della sinistra antagonista bolognese, di cui molti frequentatori sono stati oggetto di inchieste come quelle della giudice Scaramuzzino e altri emuli di Calogero ↩
Mia è la parte grafica e di impaginazione, di questo ne sono ovviamente sicuro ↩
critica ben presente in questo lavoro ↩
Mirabile e del tutto evangelistiana è la disamina leninista sulle condizioni oggettive e soggettive del processo rivoluzionario. Lo vedremo nella parte degli Anni ’90 al punto 3. IL PALAZZO D’INVERNO ↩
Rinviamo alla bibliografia ragionata contenuta in S. Merli, L’altra storia. Bosio, Montaldi e le origini della nuova sinistra, Milano, 1978. Nessuna delle opere complessive apparse dopo il bel saggio di S. Merli pare degna della minima menzione. ↩
A. Graziani, Introduzione a AA.VV., L’economia italiana: 1945-1970, Bologna, 1972, p. 34. ↩
«Poiché la domanda proveniente dai paesi più avanzati, non poteva essere che una domanda tipica di società caratterizzate da livelli di reddito ben più elevati, e quindi orientata largamente verso i consumi di massa e di lusso, anche l’economia italiana era costretta a fare largo spazio alla produzione di beni di consumo di massa e addirittura di lusso; beni peraltro che risultavano del tutto fuori fase rispetto ai livelli modesti del reddito italiano per abitante». A. Graziani, op. cit., p.35.
↩Cfr. M. Paci, Mercato del lavoro e classi sociali in Italia, Bologna 1973, p.
322. ↩Ivi, pp. 50-51. ↩
G.Barile, R.Levrero, L’operaio massa nello sviluppo capitalistico, in “Classe”, 1974, n°8, p.3. ↩
Cfr. D. Lanzardo, La rivolta di Piazza Statuto. Milano, 1980. ↩
Cfr. M. Salvati, Le origini della crisi in corso, in “Quaderni Piacentini”, 1972, n°46, pp. 11-12. ↩
Cioè del capitale nel suo insieme, superiore alla somma delle singole componenti. Cfr. K. Marx Il Capitale, libro secondo vol. II, Roma 1952, pp. 7-10. ↩