di Fabio Ciabatti
Franco Berardi “Bifo”, Pensare dopo Gaza. Saggio sulla ferocia e la terminazione dell’umano, Timeo, Palermo 2025, pp. 250, € 18,00.
Pensare dopo Gaza significa guardare in faccia la catastrofe dell’umano riconoscendo il definitivo fallimento dell’universalismo della ragione, della democrazia e della civiltà. Capire è l’unica cosa che ci rimane, anche se “Il pensiero non può pensare altro che la propria impotenza”. La disperazione è rimasta l’unico sentimento umano. L’unica opzione a nostra disposizione è quella di disertare la storia, pur non avendo alcuna idea di come farlo. Franco Berardi, al secolo Bifo, non conosce mezze misure nel suo ultimo libro intitolato, appunto, Pensare dopo Gaza. L’argomentazione è sempre portata all’estremo e talvolta sconfina nell’invettiva senza curarsi dei suoi possibili effetti disturbanti per i benpensanti, compresi quelli di sinistra. Per lui Israele è il paese che, dal punto di vista della ferocia sterminatrice, è quello più sviluppato e per questo mostra a quelli meno progrediti l’immagine del loro avvenire. Per esempio attraverso l’utilizzo bellico dell’intelligenza artificiale le cui ricerche sono essenzialmente finalizzate, in tutto il mondo, a ottimizzare lo sterminio, dal momento che il sistema militare è il loro principale committente. Applicazioni come il programma Lavender, utilizzato dagli israeliani a Gaza secondo le rivelazioni della rivista israelo-palestinese +972, consentono di perpetrare massacri in modo asettico, superando definitivamente gli ostacoli rappresentati dalle emozioni umane e dalla fatica di uccidere.
L’idea che gli israeliani si stiano comportando come i nazisti dà le vertigini. Eppure, sostiene Bifo, non si può arretrare di fronte a questo tabù perché la storia dello stato sionista ci insegna che ci sono traumi che non possono essere elaborati, ma solo riprodotti. Israele si costituisce per prevenire una nuova aggressione antisemita, ma lo fa rispondendo allo shock storico della Shoah in modo vendicativo e asimmetrico, punendo chi non ha alcuna colpa e non può difendersi. Per i sionisti la ragione universale, che ha preso forma con il contributo essenziale dell’intellettualità ebraica, non è stata una protezione sufficiente dallo sterminio antisemita. Un pensiero legittimo, sottolinea Bifo, che rende tragicamente comprensibile il passaggio successivo: per non essere più prede bisogna diventare predatori.
Di qui l’amarissima conclusione: “Se il solo modo per evitare di ripetersi del genocidio è costituire uno stato destinato a perpetrare a sua volta il genocidio, significa che la ferocia, nella storia, ha preso il posto della legge”.1 Ma c’è anche di peggio, perché al di là della ferocia, che è la logica della sopravvivenza animale, c’è la crudeltà, cioè il desiderio tutto umano di infliggere dolore, come emerge da innumerevoli testimonianze sulla violenza dei soldati israeliani nei confronti dei palestinesi che rivelano un intento meramente vessatorio privo di effettivi obiettivi militari. Ci troviamo, insomma, di fronte a forme così estreme di crudeltà da essere mediatizzate e spettacolarizzate senza vergogna alcuna, tanto da suscitare l’allegria psicopatica degli assassini dell’esercito israeliano e l’ilare protervia dei coloni.
Questi e altri comportamenti degli israeliani provano che nel loro paese è in corso un collasso psicotico che deriva dall’aver preso atto, dopo la strage del 7 ottobre, che il sogno di vivere in pace accanto all’inferno di milioni di persone era un’illusione malvagia e impossibile. Lo stato sionista, con un popolo già irrimediabilmente diviso, non uscirà integro da questa prova, sentenzia Bifo. In questo paese vorranno rimanere soltanto i fanatici religiosi e i coloni che il ministro Smotrich ha armato con centomila mitragliatrici. “Israele è un mostro destinato a diventare sempre più mostruoso”.2
Inutile girarci attorno. “Israele non avrebbe dovuto mai nascere”3 e ha potuto farlo solo grazie al regalo avvelenato che gli europei hanno fatto agli ebrei dopo averli sterminati e, come ha scritto il romanziere israeliano Amos Oz, dopo averli “vomitati” fuori dal vecchio continente. Solo un’opzione post-statalista avrebbe potuto evitare la tragedia, ma il sionismo partiva proprio dal rifiuto di una cultura internazionalista che era stata maggioritaria nella politica ebraica fino agli anni Trenta. D’altra parte il fallimento dell’internazionalismo è un fenomeno storico di più ampia portata, a cominciare dalla sua sconfitta nell’Unione Sovietica di Stalin. Sin dal principio la formula “due popoli due stati” sanciva il carattere identitario e tribale dello stato nazionale e negava ogni possibilità di convivenza pacifica all’interno della stessa entità politica, spingendo ciascuna comunità nazionale tra le braccia delle rispettive componenti più integraliste, religiose o apertamente fasciste. Ancor prima, la formula “una terra senza popolo per un popolo senza terra” non era solo una menzogna, perché in Palestina un popolo esisteva, ma anche “la dichiarata intenzione di un genocidio”.4 Poteva uno stato occupante, odiato da un miliardo di islamici costretti a subirne la presenza, non evolvere in direzione del fondamentalismo religioso, del razzismo, e del suprematismo nazistoide? Ogni guerra contro i palestinesi produce nuovi aspiranti martiri, a partire dai bambini che vivono i suoi orrori. “Perciò Israele ha un solo modo per sradicare Hamas: uccidere tutti i palestinesi che vivono a Gaza, nei territori occupati e anche altrove: tutti, tutti, tutti, soprattutto i bambini”.5
Questo terrificante progetto può nascere perché il trauma passato ha reso i cittadini israeliani ciechi alla sofferenza altrui. La memoria non garantisce affatto che le tragedie della storia non si ripetano, ma da sempre promuove il prolungarsi eterno dell’odio. Il nazionalismo, la sopraffazione, la guerra traggono origine dal ricordo di un passato che si trasforma in rancore e poi evolve in vendetta. Le vittime di solito preferiscono dimenticare (è questo è stato vero per lungo tempo anche per i sopravvissuti della Shoah), mentre i loro pronipoti ricordano continuamente che sono vittime e quindi assolti per principio da qualsiasi crimine.
E allora, se l’oblio non ci è concesso, almeno che la memoria sia rispettosa di alcune verità fondamentali. La prima, elencata da Bifo, è che gli ebrei sono stati vittime di una violenza immensa non solo da parte del regime nazista, ma anche di tutti i popoli europei (francesi, italiani, polacchi, romeni e ucraini sostennero le persecuzioni antisemite); la seconda è che che quello sterminio è uno dei tanti che hanno consentito al suprematismo bianco di sottomettere, colonizzare e sfruttare i popoli del mondo; la terza è che lo stato di Israele sta proseguendo questa catena di crimini e di vendette uccidendo, umiliando, distruggendo e opprimendo i palestinesi da settantacinque anni.
Perché, si chiede Bifo, in Occidente è quasi impossibile affermare queste semplici verità? Come è possibile un’aperta complicità con il genocidio sionista? E qui veniamo al secondo ordine di problemi trattati dal suo libro che non è solo un’invettiva contro Israele, ma anche un impietoso j‘accuse nei confronti dell’intero Occidente che nello stato ebraico si rispecchia.
Una popolazione invecchiata sia dal punto di vista demografico sia dal punto di vista intellettuale si ritira spaventata di fronte all’enormità delle minacce: la guerra è tornata, la minaccia nucleare è sempre più spesso e sempre più realisticamente impugnata nello scontro tra l’Occidente e i suoi innumerevoli nemici, lo sterminio appare come la regola dei rapporti tra nord colonialista e masse migranti del sud del mondo, di cui i palestinesi sono diventati il simbolo sanguinante6.
A Gaza si sta svolgendo un primo atto di una guerra mondiale che il suprematismo bianco declinante e senile ha scatenato contro l’umanità. Poiché il semiocapitalismo ha creato le condizioni per la circolazione planetaria delle informazioni, in territori lontani dalle metropoli del Nord è possibile sentirsi, illusoriamente, parte del suo ciclo di consumo e produzione. Ecco allora che, per necessità o per desiderio, una massa crescente di persone, soprattutto giovani, si muovono verso l’Occidente che reagisce a questo assedio con spavento, aggressività e razzismo.
A differenza del nazifascismo storico, la nuova onda suprematista fonde razzismo e conservatorismo culturale con un’accentuazione isterica del liberismo economico che, ridicolizzando l’empatia per la sofferenza altrui, ha eroso i fondamenti della solidarietà. Mentre la giustizia sociale è condannata come un’abberrante intrusione del socialismo statale nella libertà degli individui, la ferocia competitiva viene naturalizzata. Al tempo stesso si consumano le nostre capacità cognitive: viene meno la possibilità di discriminare il vero dal falso e di costituire un percorso individuale di elaborazione critica, facoltà annichilite dall’azzeramento del tempo di elaborazione delle informazioni, soprattutto per i più giovani che vivono tredici ore al giorno nell’infosfera elettronica e sono immersi in un ambiente di gaming indifferente alla distinzione tra vero e falso. In questo contesto, “Donald Trump è il talismano attraverso cui la cultura bianca tenta di scongiurare la sua agonia”.7 Il trumpismo è l’estroversione aggressiva dell’intollerabile disprezzo di sé della cultura bianca americana.
Come siamo arrivati a questo punto? Con questa domanda entriamo in un terzo filone di ragionamento presente nel libro di Bifo che ha a che fare con il declino della classe operaia non in termini numerici, ma politici. E qui conviene ripartire dalle considerazioni dell’autore su Marx. A cominciare dall’idea che, a differenza di quello illuminista, l’universalismo marxiano non si fonda sulla ragione ma, darwinianamente, sulla forza. Quella del soggetto collettivo operaio che, attraverso la lotta di classe, ha reso possibile la democrazia come affermazione degli interessi dell’intera società. Il comunismo internazionalista era la mitologia che permetteva ai proletari di superare la propria condizione di individui separati e di diventare parte di un corpo sociale unitario e potente. In queste condizioni la selezione naturale era stata in grado di virare verso l’egualitarismo e la solidarietà riuscendo, almeno parzialmente, a umanizzare la storia. Quella illusione condivisa, prosegue Bifo, si è dissolta nell’epoca neoliberale a causa di ragioni materiali, strutturali e psicologiche.
La classe operaia, sostiene l’autore, ha perso la capacità di esprimere solidarietà e organizzazione a causa della concorrenza permanente tra i lavoratori, effetto della rivoluzione tecnologica e della delocalizzazione della produzione. Distanti migliaia di chilometri i lavoratori sono incapaci di creare legami tra di loro. Il lavoro in rete appare non organizzabile perché precario, decentrato e spesso schiavistico. La socialità operaia è perduta anche perché il lavoratore cognitivo incontra i suoi colleghi solo in forma di numeri su uno schermo. La soggettivazione del lavoro cognitivo era il progetto politico che si era affacciato nel movimento di Seattle, sostiene Bifo. Ma la mattanza poliziesca di Genova nel 2001 ha preso di mira questa nuova soggettività in formazione e l’ha annichilita.
In assenza dell’egemonia della classe operaia, prosegue l’autore, anche il fronte anticolonialista è impossibilitato ad assumere una direzione internazionalista e a creare un fronte solidale, come accaduto nella seconda metà del Novecento. Assistiamo così alla moltiplicazione dei paesi del Sud che, per rovesciare l’egemonia globale americana, fondono l’economia ultraliberista con aggressività nazionalista, integralismo religioso e repressione autoritaria.
Di conseguenza cambiano le prospettive di chi, almeno in Occidente, solidarizza con i paesi del Sud. Chi manifestava contro la guerra in Vietnam si identificava con i vietcong, con il socialismo e con un’emancipazione possibile. Gli studenti nel Nord che manifestano oggi contro Israele non si identificano con Hamas o con l’islamismo. Dalla resistenza palestinese non si attendono alcun tipo di emancipazione sociale. Si identificano con la loro disperazione perché, più o meno consapevolmente, si attendendo un continuo deterioramento delle proprie condizioni di vita. C’è la comune percezione di un’assenza di futuro “che fa dei palestinesi l’avanguardia dell’ultima generazione globale”.8
Non è facile commentare un testo come quello di Bifo che è pervaso da una disperazione tutt’altro che priva di ragioni. Il pessimismo oggi appare d’obbligo perché altrimenti si cade in una forma di stolida fiducia nel futuro, di fatto complice dello stato di cose presenti perché non riconosce l’estrema difficoltà delle trasformazioni radicali di cui abbiamo bisogno per evitare la catastrofe. O si finisce nel feroce tecno ottimismo, di cui ci parla lo stesso Bifo, null’altro che una nuova versione di spietato darwinismo sociale. Ciò detto, il pessimismo, anche estremo, è una cosa diversa dalla disperazione che dà per definitivamente consumata la “terminazione dell’umano”.
Credo che questo esito sia influenzato, tra l’altro, dall’eccessiva enfasi posta sul lavoro cognitivo che Bifo presenta come l’espressione per eccellenza della nuova classe operaia in una sorta di pars pro proto. In questo si ravvisa una continuità con il filone post-operaista, sebbene Bifo dia a questo paradigma una torsione tragica che consiste nella presa d’atto dell’incapacità di questo segmento di classe di sottrarsi alla suo sottomissione nei confronti del semiocapitalismo. Scomparso dai radar l’esodo multitudinario del lavoro cognitivo senza nessun sostituto a portata di mano, Bifo è portato a concludere che la soggettività rivoluzionaria sia definitivamente tramontata. E con ciò si conferma la difficoltà del filone post-operaista, anche nella versione rivista e corretta di Bifo, di dare conto dei lunghi periodi di latenza della soggettività operaia e proletaria, come quello che stiamo vivendo, essendo nato da quel ramo dell’operaismo che assume la priorità ontologica della classe operaia e delle sue lotte rispetto al capitale e al suo sviluppo. Un approccio che forse contribuisce a sopravvalutare il peso dell’egemonia operaia sul processo di decolonizzazione nel secondo dopoguerra e, di conseguenza, a valutare con estremo pessimismo le dinamiche attuali nel Sud globale, in considerazione dell’attuale debolezza, materiale e ideale, della stessa classe operaia a livello globale.
Più interessante, dal nostro punto di vista, l’idea di disertare la storia sebbene sia dichiaratamente priva, nell’immediato, della capacità di tradursi in una concreta prassi politica. Quantomeno ci offre alcune interessanti suggestioni. La prima rimanda alla necessità di abbandonare la concezione di un percorso tutto sommato lineare che porta dallo sviluppo capitalistico al comunismo, con la classe operaia a fare da traghettatore da una fase all’altra. Insomma, non si tratta oggi di umanizzare una storia che prosegue lungo traiettorie già consolidate, cioè di democratizzare il capitalismo, ma di spingere la storia stessa verso nuove inedite direzioni.
La seconda suggestione ci riporta alla Prima guerra mondiale che ha visto la diserzione di una moltitudine di individui dagli eserciti in guerra quale premessa di nuovi eventi rivoluzionari. Non si trattò allora della radicalizzazione lineare di tendenze già in atto determinate da una soggettività rivoluzionaria già formata, ma di una ridefinizione complessiva dei termini dello scontro che ha dato il via alla costituzione di un nuovo soggetto collettivo. Una simile ridefinizione sarà necessaria, anche oggi, per consentire l’emergere delle istanze di classe che oggi affiorano solo confusamente, per esempio nei movimenti neopopulisti in Occidente o nelle aspirazioni nazionaliste del Sud Globale. A tal fine potrebbe anche essere necessaria una nuova diserzione di massa, intesa in senso letterale, dati gli attuali scenari bellici.
In conclusione, Bifo ci aiuta a capire che la portata tragica della genocidio di Gaza va al di là dei numeri del massacro, già di loro scioccanti. Il suo libro, infatti, ci mostra come lo sterminio perpetrato dai sionisti, per quanto mostruoso, non possa essere ridotto a un singolo caso aberrante perché non può essere disgiunto dalla traiettoria storica del capitalismo globale nella sua fase attuale. A rischio di risultare eccessivamente enfatici, si può affermare che il genocidio non è altro che la prosecuzione del neoliberismo con altri mezzi, cioè la forma più estrema di distruzione di ogni convivenza umana già iniziata da quando è stato dichiarato, per bocca di Margareth Thatcher, che la società non esiste perché esistono solo gli individui e le loro famiglie, in feroce competizione tra loro. Però, a differenza di quello che emerge dal libro di Bifo, la diffusa identificazione con i palestinesi potrebbe non essere la pietra tombale sulla speranza. Potrebbe invece rappresentare la forma estrema di ribellione contro la disperazione, proprio perché nutrita dalla comune percezione di un’assenza di futuro. Quella stessa percezione che, portata all’estremo nelle trincee della prima guerra mondiale, ha indotto moltissimi soldati a voltare le spalle ai propri ufficiali. Sicuramente l’accostamento è azzardato, ma in tempi tragici come i nostri non è forse d’obbligo l’azzardo se non vogliamo cedere alla disperazione?