di Marco Sommariva

Non so voi, ma a me è capitato spesso di vivere situazioni in cui mi si voleva diverso da quello che in realtà ero; anche adesso mi succede, ma molto più raramente: si sono arresi un po’ tutti a questo mio stato. Quale stato? Niente di rivoluzionario, solo il pormi per quello che sono, difetti, pregi e limiti compresi, in qualsiasi situazione. Faccio un esempio, se – come successe nel 1999 – il governo italiano autorizza l’uso del proprio spazio aereo per una guerra, dico che non sono d’accordo anche se sono in presenza di persone che hanno votato per Massimo D’Alema, ossia colui che presiede il governo in questione. In quell’occasione, coloro che avevano votato per i DS spalancarono gli occhi verso il sottoscritto scandalizzati dalla bestemmia appena pronunciata, mi dissero con le “buone maniere” che era un intervento obbligato e si sentirono in diritto di garantirmi che non s’andava di certo lì per bombardare qualcuno, e mai più li rividi quando il generale Mario Arpino, capo di stato maggiore della Difesa, ammise in un’intervista a la Repubblica che anche l’Italia sganciò le sue bombe: “Lei chiede: i Tornado hanno bombardato? Io dico che oltre a tutto il resto, oltre a migliaia di uomini che lavorano in queste ore per l’Italia e la Nato, alcuni velivoli italiani hanno anche colpito radar e batterie di missili che ci minacciavano. Ma è questo il problema?”

Fu mia mamma a chiedermi per piacere se, ogni tanto, potevo restare con la bocca chiusa, e lo chiese a un quasi quarantenne, non a un ragazzino; ora che mia madre non c’è più, son persino contento d’essere riuscito, ogni tanto, a far tacere il mio essere regalandole, così, qualche ora in più di serenità.

Il fatto che sia sceso a compromessi non significa che è bene farlo: resto dell’idea che ricoprire ruoli che non ci appartengono, non porta alcun beneficio, specie a lungo andare; benché, anche questo va detto, la volontà che altri recitino una commedia è sempre esistita e, molto probabilmente, sempre esisterà. Scrive Georges Simenon in Memorie intime (Adelphi, 2009): “stiamo per vederli, quegli indiani che fanno sognare milioni di bambini in tutto il mondo. […] Poverissimi, lo sguardo spento, fanno la commedia a uso dei turisti, e un totem scolpito e colorato segna l’ingresso al “villaggio”. Lì indossano il tipico costume reso popolare dal cinema e dai fumetti e, accovacciati davanti alle loro tende, offrono ai visitatori piccoli oggetti fatti con le loro mani. […] di lì a poco, quando i turisti se ne saranno andati, quegli indiani si toglieranno i vestiti con le frange, si metteranno dei blue-jeans e una camicia a quadri e si ritireranno nelle loro casette”.

Probabilmente, si chiede agli altri di recitare anche perché non si vuole essere i soli a farlo, ma questo è un terribile corto circuito: spegne la dignità. E a proposito di dignità, nel libro Conversazioni con Simenon di Francis Lacassin, è ancora lo scrittore belga di lingua francese a dire qualcosa d’interessante: “sostengo che il più grande crimine che si possa commettere contro un uomo non è portargli via la vita, ma la sua dignità. Ogni uomo ha bisogno della propria dignità. Che sia un operaio specializzato alla Renault, o un negro del profondo dell’Africa che mangia farina di miglio, ha bisogno della propria dignità, come gli indiani di una volta avevano bisogno delle loro piume”.

Per tornare alla guerra in casa d’altri… facile esser d’accordo con interventi militari quando sono diretti altrove. Sempre Simenon in Memorie intime: “ci si abitua presto alla guerra quando viene combattuta altrove. Anche adesso, mentre scrivo, si combattono guerre, sanguinose e spietate come lo sono tutte, e sono in atto rivoluzioni, e uomini vengono rinchiusi in campi di concentramento a causa delle loro idee o della loro razza, o del colore della pelle, o perché malauguratamente si trovavano in un certo posto al momento di un attentato dopo il quale le cosiddette “forze dell’ordine” hanno fermato a caso tutti quelli su cui sono riusciti a mettere le mani. Per non parlare poi delle torture, che fin dai tempi più remoti sono state inflitte, e ancora si infliggono, sempre in nome dell’“ordine”, in tutti i paesi del mondo”.

E che importanza ha se poi scopriamo cose tipo “siamo venuti a sapere che gli inglesi avevano bombardato il porto di Nantes e, mancato il bersaglio, avevano distrutto il più grande emporio della città causando più di centocinquanta vittime”.

I morti altrui si dimenticano più facilmente: il dolore degli altri è un dolore a metà, cantava il mio concittadino Fabrizio De André. Specie se si decide di credere alle veline del potere, di chi governa: “A ogni scontro aereo, entrambe le parti dichiaravano di aver abbattuto cento o duecento apparecchi nemici, limitandosi ad ammettere che cinque o sei aerei delle proprie squadriglie «non avevano fatto ritorno alla base»”.

Anche i due estratti precedenti sono tratti da Memorie intime. Con questo tomo pubblicato nel 1981 – l’edizione che ho in mano conta più di milleduecento pagine – Simenon uscì da un silenzio che durava dal 1972; il libro è una sorta di lunga confessione dedicata alla figlia Marie-Jo, suicidatasi tre anni prima.

Nel 1988 si suicidò un mio caro amico: lui ventiquattrenne, io un anno in più. Fu quello l’unico momento in cui ebbi la sensazione di sentirmi straniero, ma non straniero a un paese, straniero alla Vita. Per il resto, condivido in toto un altro passaggio di Memorie intime: “Per quanto mi riguarda, non mi sono sentito straniero da nessuna parte, nella Savana dell’Africa come nelle isole dei Mari del Sud, in Australia come nelle Indie. C’è un termine americano che definisce questo mio sentimento: to belong, “appartenere”. In qualunque paese americano, you have to belong, “devi appartenere”. Alla comunità. E io credo di appartenere non solo a un paese, a un continente, alla nostra piccola sfera terrestre, ma all’intero universo”.

La soddisfazione che provo leggendo Simenon – gialli di Maigret esclusi: non li conosco – pochi altri sanno darmela: Jack London, George  Orwell, Erich Maria Remarque, John Steinbeck, Aldous Huxley. Al momento, altri non mi vengono in mente. Cosa intendo per soddisfazione? Leggere pagine dove non son state utilizzate parole di troppo, trovare passaggi che riassumono, spesso riordinano, pensieri che già avevo in testa ma che non avevo ancora fatto totalmente miei; viene in un secondo tempo il godimento che può dare una trama o la descrizione di personaggi immortali spesso riconoscibili fra parenti, amici e conoscenti, per non dire dell’immedesimazione dell’autore nelle loro crisi. Insomma, la sincerità.

I personaggi dei romanzi. Da Conversazioni con Simenon: “domandavano a Balzac “Che cos’è il personaggio di un romanzo?”. E Balzac rispondeva: “È chiunque là fuori, ma che arriva fino al limite di se stesso”.

Tutti quanti noi non andiamo fino al limite di noi stessi, o perché abbiamo paura di finire in prigione, o perché temiamo di urtare i nostri simili, o per ipersensibilità, o per buona educazione, come si dice… Insomma, per un mucchio di ragioni, ci sono poche persone che arrivano fino al limite di se stesse. E ancora: “Creare personaggi e portarli avanti di peso richiede di mettersi nei panni degli altri, ed è talmente estenuante! […] Se i miei personaggi fossero falsi, non mi leggerebbero in uzbeco, in caucasico, in lituano, in tutti i paesi dell’America del Sud ecc.”

La trama, l’immedesimazione. Ancora da Conversazioni con Simenon: “Alla vigilia dell’ultimo capitolo, non sapevo come si sarebbe sciolto l’intreccio del romanzo, non sapevo assolutamente ciò che sarebbe necessariamente accaduto al mio personaggio. Questi seguiva una sua logica che non era affatto la mia logica. Io vivevo la sua crisi”.

Sul non utilizzare parole di troppo, ha scritto André Gide del romanzo Cargo di Simenon: “In questo romanzo non c’è assolutamente nulla che appaia inutile, nessun episodio, nessun dialogo, nessuna descrizione del paesaggio che non abbia una sua precisa funzione”.

Negli ultimi vent’anni, spesso mi sono ritrovato a sostenere che la differenza tra la fine che ha fatto il sottoscritto e quella che è toccata all’amico romano ex-brigatista rosso che partecipò al rapimento di Aldo Moro e che ha scontato più vent’anni di galera, non sta in nessun “merito” personale, ma solo nel quartiere dove siamo nati e, quindi, nelle amicizie che abbiamo stretto crescendo in strada: lui s’è ritrovato una Škorpion in mano, io no. Ma la rabbia, la voglia di rivalsa era la stessa. Sempre da Conversazioni con Simenon: “Attualmente si fa una campagna per gli animali in gabbia. E gli uomini in gabbia, allora? Poiché mettiamo ancora uomini in stanze non più grandi di una gabbia da leoni, a volte anche più piccole, e ci sono anche delle sbarre. L’idea che si possa fare questo a esseri umani mi indigna, mi fa ribollire il sangue. Che si voglia ostacolare più o meno ciò che si definisce crimine – credo che il crimine sia sempre esistito e che esisterà sempre –, d’accordo. Ma che si cerchi di bloccarlo cambiando la società, e non cambiando i giovani che seguono istintivamente la strada che la società indica loro in qualche modo. Non so che cosa sarei diventato se fossi nato in una casa popolare dei dintorni di Parigi. Ma sarei certamente diventato non l’anarchico… come direi… cerebrale, quale sono, non un anarchico d’istinto, ma un anarchico lanciatore di bombe, e forse un assassino”.

Questa condivisione di pensieri, conclusioni, autodenunce così personali, non può non legarti all’altro, a maggior ragione se l’altro è uno scrittore e ha prodotto centinaia e centinaia di opere – per anni, Simenon ha sfornato un romanzo ogni due mesi – che già ti hanno dato conforto e, presumibilmente, altro te ne daranno coi titoli che ancora non hai letto.

Lo scrittore belga riprende certe “sfumature” anarchiche anche nei suoi romanzi; scrive così in Cargo:
“- È vero che sei un anarchico?
Guardò con stupore l’uomo che aveva parlato con la bocca piena, un marinaio di coperta che calzava ancora gli stivali di gomma.
– Chi l’ha detto?
– Il giornale… Hai mai buttato bombe?
Non si sentiva in grado di fornire spiegazioni. E poi era troppo stanco.
– Mai.
Sbadigliò, appoggiandosi alla paratia.
– Ma allora…?
Eh già! Per loro, se uno non buttava bombe non valeva la pena di essere anarchico”.

Tra le tante cose, in Cargo si racconta anche del figlio di un anarchico condannato a morte per le sue idee politiche, il quale – chiuso nella fatalità del suo destino, nella sua povertà e timidezza – è costretto a fuggire con Charlotte, la sua amante, giovane anarchica che ha ucciso un ricco mercante per ottenere i quattrini necessari a finanziare un giornale anarchico: “Naturalmente lei non crede nell’Idea!… Lei non crede in niente, ed è un suo diritto. Ma noi, invece, ci crediamo e non siamo in pochi, nel mondo, a perseguire un ideale… Ma per farlo ci vogliono soldi… Gli opuscoli di propaganda costano cari… “Liberté”, il nostro giornale, viene a costare più di duemila franchi al mese. Be’, tre giorni fa, alla riunione del martedì, mentre tutti si domandavano come pagare la tipografia, io mi sono alzata e ho chiesto quanti soldi servivano… Trentamila? E se fossi stata capace, proprio io, di garantire un anno di vita al giornale?… […] Per due giorni mi sono appostata in boulevard Beaumarchais, aspettando che Martin fosse solo in casa… Ieri è successo… La domestica aveva il giorno libero… La signora Martin era dalla sorella. Gli ho dato l’aut aut: se mi avesse consegnato tutta in una volta una grossa somma, diciamo trentamila franchi, avrei tolto il disturbo per sempre… È un omicidio a scopo di rapina, questo? Avanti, me lo dica!… Ci guadagno forse qualcosa, io, da questa faccenda?… Portavo sempre una rivoltella in borsetta… Ho minacciato Martin, volevo fargli paura, perché non ci stava…”.

E così eccoci tornati all’utilizzo delle armi affinché un’Idea non muoia.

Le conclusioni e i pensieri di Simenon non sono mai banali, difficilmente rientrano nella norma anche riportandoli ai giorni nostri, o forse sarebbe meglio scrivere, soprattutto riportandoli ai giorni nostri. Altri due estratti da Conversazioni con Simenon: uno, su com’è cambiato il giudizio verso comportamenti ritenuti in passato “originali”; l’altro, sui turisti e i pacchetti vacanza che li portano in ogni angolo del mondo.

Il primo: “Le prigioni e gli ospedali sono il segno di un’organizzazione sociale sempre più restrittiva, più intollerante. Un comportamento che oggi si giudica anormale, un tempo era considerato semplicemente come “originale”. Attualmente gli ospedali sono pieni di persone che, una volta, vivevano libere nelle campagne. Facevano anche il loro “giro di Francia” ed erano ben accolte dai fattori, che permettevano loro di dormire sulla paglia nel fienile. Adesso tutte queste persone sono trattate come pericolosi vagabondi, come degli asociali. Sono esseri perseguitati per il minimo peccatuccio. Rubare una gallina, scavalcare una siepe e andare a mangiare qualche mela è diventato molto pericoloso. Un tempo tutto questo non contava. Allo stesso modo, una volta, non si incarcerava in un manicomio un tipo che era soltanto lo scemo del villaggio. Ogni villaggio aveva il suo matto. Mi ricordo ancora, quando ero giovane, di tizi dalle grandi mani: avevano delle zampe così, dei piedi così, uhuhuhuhuh: parlavano così; ma li si adorava e ci si prendeva cura di loro. E non erano pericolosi. Adesso, quelle persone le rinchiudono. Quando ti dicono che la criminalità è aumentata così tanto, ebbene non è vero. Glielo dico in base a statistiche che ricevo da New York. Il mondo è diventato così borghese che considera criminale colui che ha idee che non rientrano, o quasi, nella norma”.

Il secondo: “La gente mi dice: ma come, non viaggia più, non va più da nessuna parte, non è curioso? Ma di che cosa? Vedo in televisione che le città si assomigliano tutte. I palazzoni di cemento che sono qui a cento metri da casa li vedo dappertutto, che sia in Brasile, in Argentina, in Perù o in India. È lo stesso dappertutto. Il turista guarda tutto questo con aria imperiale! Perché ha pagato un pacchetto di dodici giorni o di otto giorni in cui gli promettono tutte le curiosità locali. Eh, si considera come una specie di re! Ma io considero il turista come il nemico del mondo intero. I turisti hanno sporcato il mondo, hanno snaturato tutto. […] ora i turisti vogliono vedere tutto, anche se non c’è niente che possa interessare loro. Ce ne sono dappertutto”.

A proposito di turisti… nella mia vita precedente scesi a un altro compromesso: dopo anni di stremanti discussioni, accettai d’andare in vacanza per una settimana a Sharm El-Sheikh, là dove la classe dirigente egiziana punta forte sul turismo di massa, in nome di guadagni a breve termine, nonostante questo stia mettendo a repentaglio due dei motivi principali del successo di quei luoghi: la barriera corallina e il patrimonio archeologico.

Nel dicembre del 2022, ho letto nell’articolo Egitto, la svolta green è una farsa che “I lavori a Sharm El-Sheikh sembrano non finire mai. La costante costruzione di nuovi resort di lusso per accogliere nuovi turisti ha completamente trasformato le coste, arrivando a impedire ai locali l’accesso libero alle spiagge”.

Non solo, sullo stesso sito si puntava il dito anche contro le fonti d’inquinamento storiche: “Sharm El-Sheikh è il secondo scalo aeroportuale egiziano. Il turismo di massa, fondamentale fonte di reddito, garantisce all’erario egiziano 6,5 miliardi di euro all’anno. I visitatori però sono da tempo troppi: il solo parco naturale di Ras Muhamad – l’estrema punta meridionale della penisola del Sinai, dove si trova Sharm – negli anni pre Covid-19 accoglieva circa 200 mila persone all’anno al netto di una soglia raccomandata di circa 7-15 mila”.

Quando mi feci convincere ad andare sul Mar Rosso, tutti questi numeri non esistevano ancora, ma visto che non mi occorre l’ufficialità di qualche studio per capire che sto andando a inquinare altrove soltanto perché mi accompagno a esseri che “devono” andare là per la soddisfazione di scattare qualche selfie e postarlo, provai a fare un ragionamento sul turismo di massa; anche stavolta usando le “buone maniere”, mi fu data una risposta di questo genere: “Mica andiamo lì per uccidere qualcuno, anzi, li aiutiamo portando loro i nostri soldi”.

Insomma, va bene tutto – guerra, inquinamento e chissà cos’altro –, ma l’importante è che sia in casa d’altri.

Ci tengo, però, ad avvisare tutti coloro che con le “buone maniere” pensano di sfangarla continuamente: qualcosa vi sta andando storto perché, come riportato in Memorie intime dal buon Simenon, “La «buona educazione» genera spesso dei ribelli, come è stato per me, che continuo a sentirmi a disagio in una società in cui le «buone maniere» non impediscono una condotta «vergognosa» che non si pensa a correggere, ma solo a nascondere”.

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