di Ferdinando Fasce

Stefano Gallo, Primo maggio, il Mulino, Bologna, 2025, pp. 176, euro 14,00.

Non tutti sanno che le prime manifestazioni per il Primo maggio si tennero un po’ il tutto il mondo l’11 novembre 1888. Fa bene a ricordarlo questa efficace sintesi che ci restituisce la travagliata vicenda della festa del lavoro a 140 anni dal tragico evento che la originò, l’impiccagione di quattro anarchici, l’11 novembre 1887, ritenuti responsabili della bomba lanciata, a conclusione di una pacifica manifestazione a Haymarket, a Chicago, parte a sua volta di una più ampia mobilitazione per le otto ore lavorative, il 4 maggio 1886. Da questa storia americana parte il libro di Gallo, uno dei nostri migliori storici del lavoro. Quel comizio del 4 maggio 1886 era stato indetto per protestare contro la brutale repressione antioperaia attuata il giorno prima dalla polizia, che aveva aperto il fuoco sulla folla, provocando quattro morti fra i lavoratori che protestavano contro i licenziamenti della grande fabbrica di macchine agricole McCormick. Il comizio di protesta del giorno seguente, il 4, in Haymarket Square, terminò con un attacco delle forze dell’ordine verso il palco quando l’evento si era praticamente concluso. Ne seguì un’esplosione che uccise un poliziotto e provocò una sparatoria da parte degli agenti, con un bilancio di sette poliziotti morti (in gran parte vittime del fuoco amico), quattro lavoratori deceduti e una settantina di feriti. La repressione, ricorda Gallo sulle orme del superbo affresco delineato vent’anni fa dal grande e compianto storico americano James R. Green[1], fu immediata ed esemplare. Vennero arrestati duecento tra anarchici, socialisti e sindacalisti. Otto tra gli esponenti più in vista delle mobilitazioni, tutti militanti anarchici dell’agguerrita International Working People’s Association e quasi tutti immigrati, furono portati in giudizio: i tedeschi August Spies, Louis Lingg, Michael Schwab, Adolph Fischer e George Engel, l’inglese Samuel Fielden, Oscar Neebe, nato a New York da genitori tedeschi, tornato negli Stati Uniti dopo aver trascorso gran parte della gioventù in Germania, e infine Albert Parsons, nato in Alabama. Cinque di loro non erano neppure presenti alla manifestazione, i presenti erano sicuramente disarmati. Negli anni e nei giorni più vicini al fatto questi anarchici non avevano mancato di incitare a più riprese i loro colleghi ad adottare forme risolute di autodifesa, se occorreva armata, e avevano minacciato il ricorso a soluzioni estreme. Ma l’accusa non riuscì a provare in alcun modo un legame fra nessuno degli accusati e la bomba.  Piuttosto cavalcò l’ondata emotiva del terribile momento, con il procuratore generale Julius S. Grinnell, che, nell’appello finale alla giuria, disse che gli imputati non erano in fondo “più colpevoli delle migliaia di persone che li seguono” e proprio per questo, aggiunse, rivolto ai giurati, “date un esempio, impiccateli e salverete le nostre istituzioni”.

L’esito fu la condanna a morte di sette degli imputati, poi commutata in carcere a vita per quei due di loro che fecero richiesta di grazia. Solo quattro, però, furono impiccati perché Louis Lingg morì, nella sua cella, in circostanze mai chiarite. La corte di Chicago, sottolinea opportunamente Gallo, mise dunque sotto giudizio la condotta politica degli imputati, la propaganda di idee anarchiche, l’incitamento alla lotta – anche violenta – contro un sistema economico e sociale oppressivo. Un processo politico, quindi, che mirava a colpire il sindacalismo più radicale della città, capace di mobilitare ampi segmenti della vasta colonia tedesca locale (un quinto della popolazione cittadina). Sarebbe stata Lucy Parsons, moglie di Albert, nata schiava in Texas, con sangue misto indiano, latino e afroamericano, a dedicarsi con straordinaria energia a sostenere l’innocenza degli accusati, sia nel suo paese che all’estero. E a difenderne, con altrettanta dedizione, la memoria. La ritroveremo, vent’anni dopo, a uno degli eventi-chiave della storia del mondo del lavoro, statunitense e mondiale, la fondazione, sempre a Chicago, degli Industrial Workers of the World, una delle più coraggiose espressioni di solidarietà operaia del Novecento[2].

Ma bisogna leggere le lucide pagine di Gallo per capire come dalle manifestazioni prevalentemente anarchiche dell’11 novembre 1888 (ne parla, fra gli altri, l’intrepido “Nuovo combattiamo”, stampato a Sampierdarena, vicino agli stabilimenti Ansaldo, fra censure e repressioni incessanti), si sia passati alla festa del 1 maggio. E come questa data sia stata oggetto di battaglie sulla memoria che hanno visto già a fine Ottocento negli Stati Uniti, con il consenso del Congresso, il radicale Primo maggio venir sostituito dal più moderato Labor Day, indetto sin dal 1882, del primo lunedì di settembre[3]. Ma che non hanno potuto impedire un uso militante del Labor Day e la ripresa dello stesso May Day, in varie occasioni, nel corso del Novecento. Sino ai nostri travagliati giorni e alle recentissime marce anti-Trump del Primo maggio 2025. Parlando dei nostri tempi, al termine di una serrata ricostruzione dell’evoluzione della festa in Europa e a casa nostra in una prospettiva internazionale, Gallo conclude come “i volti del Primo maggio, espressi e in potenza, sono innumerevoli e riflettono un bisogno insopprimibile di mettere al centro ciò che continua a tormentare e a realizzare l’umanità: il lavoro”.

[1] Death in the Haymarket. A Story of Chicago, the First Labor Movement and the Bombing that Divided Gilded Age America, Pantheon Books, New York, 2006.

[2] L. Costaguta, Workers of All Colors Unite: Race and the Origins of American Socialism, University of Illinois Press, Urbana, 2023, pp. 123-126.

[3] J. R. Green, Taking History to Heart. The Power of the Past in Building Social Movements, University of Massachusetts Press, Amherst, 2000, pp. 121-146; A. Testi, I fastidi della storia. Quale America raccontano i monumenti, il Mulino, Bologna, 2023, pp. 236-242.

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