di Chiara Meistro e Franco Pezzini

Massimo Centini, Fiabe criminali. Violenza, omicidio e malvagità nella letteratura “per l’infanzia”, introd. di Fabrizio Russo, pp. 182, € 16, Studio Tesi, Roma 2023.

All’inizio di Carmilla, la piccola Laura vive un’esperienza strana: la visita nella nursery di una misteriosa signora che scopriremo essere una vampira. Tuttavia, in prima battuta, la sua reazione non è di spavento. Infatti, ci dice (trad. Fabio Giovannini),

 

Non avevo paura, perché ero tra quei bambini fortunati che sono tenuti accuratamente lontani da storie di fantasmi, fiabe e tutte quelle leggende che ci fanno nascondere la testa quando all’improvviso cigola una porta o il tremolare di una candela che si sta spegnendo fa danzare sul muro l’ombra di una colonna del letto, vicinissima ai nostri volti.

 

Badiamo a queste parole. Il narratore di spettri Le Fanu, tormentato da incubi e visitatori notturni, si diverte a mettere in scena, con l’eleganza di una presa di distanze percepibile solo a una lettura attenta, una bambina che l’iperprotezione familiare ha privato di un prezioso bacino di paure (e insieme di sogni) fornito da certe storie: sprovvista di tale vaccino, rimane più esposta alle ombre e, quando il male irromperà effettivamente nella sua vita, non ne riconoscerà l’ambiguo potere e rischierà di morirne… Facciamocene una ragione: delle narrazioni dell’oscurità abbiamo bisogno.

Proprio aprendo il libro di Centini, possiamo avviare una riflessione sull’utilità di questo vaccino. Dopo aver affrontato “le peculiarità per così dire noir delle fiabe” nel capitolo “Fiabe cattive maestre”, tratta il nodo del passaggio “Dall’oralità alla letteratura”, coi temi della loro universalità, il linguaggio comune e l’ipotesi dell’“archeo-fiaba”, per poi giungere a una schematizzazione essenziale:

 

Forse la funzione più apparente della fiaba è quella di mettere il lettore davanti a una serie di esperienze che hanno come leitmotiv lo scontro tra il bene e il male, tra il giusto e lo sbagliato; offrono inoltre la possibilità a chi la legge o l’ascolta di identificarsi con il protagonista, impegnato a portare a termine azioni finalizzate ad assegnargli peculiarità atte a farne un eroe.

 

Al netto di sadismi inutili (il melodrammatico, sentimentaloide Bambi resta un’esperienza video che ha scioccato senza profitto generazioni di spettatori), le storie di formazione richiedono un elemento di contrapposizione, fondamentale alla messa a fuoco di una categoria del conflitto che fin da piccoli dobbiamo maturare. Come diceva Chesterton (che poteva senz’altro essere un reazionario, ma d’intelligenza acuta):

 

[…] non sono le fiabe a formare nei bambini il concetto del male o del brutto: esiste già, nel bambino, perché già esiste nel mondo. Non sono le fiabe a dare al bambino la sua prima idea di orco. Ciò che le fiabe gli danno è la prima idea chiara della possibile sconfitta dell’orco. Il bimbo ha conosciuto intimamente il drago fin da quando possiede l’immaginazione. Ciò che la fiaba gli offre è un san Giorgio che uccida il drago.

(Tremendous Trifles, cap. XVII, “The Red Angel”)

 

Il problema può essere a quel punto l’identificazione di san Giorgio, e naturalmente anche del drago, ma il nodo sta in quel conflitto. Si affaccia qui anche il tema del “lieto fine”, ricorrente nella maggior parte delle fiabe e a cui spesso – soprattutto nelle versioni più antiche – si accompagna la punizione dei cattivi, a veicolare messaggi di speranza nella vita di tutti i giorni, dove questo tipo di epilogo è tutt’altro che frequente (un ottimo sviluppo in tal senso – escludendo la settima stagione – è dato dalla serie tv Once upon a time, con la sua drammatica compenetrazione tra personaggi delle fiabe e mondo reale).

In effetti le fiabe, rientrando nelle storie di formazione, seppur estremizzate nei caratteri, finiscono con l’offrire calzanti metafore della vita reale, dove le persone possono subire davvero brutture, dolori, soprusi e difficoltà di ogni sorta. Ecco il drago, ecco l’orco: l’antagonista che, per definizione, dev’essere ferocissimo e crudele. Le fiabe, come in fondo la letteratura, forniscono l’occasione – preziosa – di confrontarci con una categoria del Male che nel quotidiano dobbiamo affrontare coscienti della complessità e dell’ambiguità del reale.

Per contro, rischia la forzatura e può risultare fuorviante il processo inverso, ovvero la destrutturazione e riscrittura degli archetipi delle fiabe sulla base di categorie di pensiero odierne. Basti pensare ai recenti live action Disney, oltretutto non di travolgente successo: una delle questioni più stringenti da porsi è se alcune operazioni in nome del politicamente corretto cambino, nei fatti, anche solo di una virgola la situazione di minoranze di vario genere. Inoltre, avrebbe maggior senso scrivere fiabe radicalmente nuove, in chiave moderna, più che modificare ed edulcorare aspetti di storie che appartengono, nella loro totalità e non solo in singoli dettagli, a culture ormai trapassate, senza contare che gli archetipi, se spiegati e contestualizzati, continuano a funzionare.

Per capirci, non si poneva sottili questioni pedagogiche la narrazione popolare di tempi in cui l’esecuzione pubblica del criminale avveniva davanti ai bambini e l’educazione era ammannita con robuste dosi di violenza. D’altronde, complesse istanze mitiche e simboliche offrivano a scene e relativi ingredienti stratificazioni di senso per noi irraggiungibili, non solo nell’appartenenza di streghe e magia a convinzioni diffuse anche tra i colti, non solo per la pervasiva presenza della morte a tutti i livelli (dalla vertiginosa mortalità infantile a un’ossessione sul morire connessa alla brevità dell’esistenza), ma proprio per la percezione di un universo che avvertiamo remotissimo rispetto al nostro. Ipernutriti (almeno qui da noi), non cogliamo per esempio le disturbanti ricadute dell’antropofagia in contesti di fame assoluta.

Entrando nel vivo della casistica proposta da Centini, possiamo rilevare due binari. Da un lato, l’analisi di fiabe molto conosciute, correlate a volte a presunti risvolti storici (un tema caldo della divulgazione di oggi: cfr. il programma condotto da Carlo Lucarelli, In compagnia del lupo – Il cuore nero delle fiabe); dall’altro, una pregevole immersione in varianti di fiabe meno note e geograficamente più distanti, che ampliano la documentazione sull’orrido nei racconti per l’infanzia (con uno sguardo sempre attento alla genesi e ai tentativi d’interpretazione).

La galleria di fiabe nere si apre con “Barbablù: un omicida seriale tra storia e fantasia”; seguono Il Pifferaio di Hameln e Alì Baba in merito alle modulazioni del tema “Vendetta, tremenda vendetta”; un capitolo dedicato all’antropofagia, dove un’affermazione come “le fiabe sono un campionario di gastronomia orrida” aiuta in qualche modo a collocare nella contemporaneità dei foodie quel simil-orco da Masterchef capitalistico che è il raffinato seppur increscioso Hannibal Lecter; “Ladri di bambini”, con relativa sostituzione da parte del Piccolo Popolo; Cappuccetto Rosso, tra “eros ambiguo e stupro”. Col proseguire dei capitoli, i temi si intersecano e si ripropongono in altre declinazioni: “Il volto oscuro delle fate”, nel suo variegato spettro di esempi, anche storici, cita nuovamente La bella addormentata, fiaba già affrontata per la presenza in alcune varianti di una suocera orchessa e destinata a tornare con un focus ancora più specifico nel capitolo successivo, “Stupri, abbandoni, tradimenti, violenze”, dove il mancato consenso (attualmente oggetto di particolare attenzione) riguarda ben più del bacio del risveglio. Sempre qui si parla poi di Hänsel e Gretel, di Pollicino, e anche dell’erodotea Il tesoro di Rampsinito, mentre in “Amanti mostruosi” si passa da Lilith a Melusina, dalla Sirenetta di Andersen ai principi ranocchi o serpenti e alla Bestia cui s’unisce Bella. E ancora: “Padri incestuosi” (difficile non trovare disturbanti Pelle d’asino e narrazioni affini); “L’omicidio di Pinocchio” (impiccato a una quercia dal Gatto e la Volpe, per poi tornare redivivo per pressione dei lettori); “Vanità, invidia e crimine”, con Biancaneve e dintorni; “L’ambiguità di Cenerentola”; “Sacrifici umani e folklore” (La storia di Mastro Manole, archetipo romeno del cosiddetto sacrificio edilizio, ma anche la versione più nota dell’Historia Brittonum e per esempio un’altra repertoriata dal Tommaseo); ancora approfondimenti su fiabe e tematiche già indagate in “Povertà, fame e antropofagia”; “Ius primae noctis”; infine, “Omicidi rituali e magia nera”.

Al termine della disamina, rimane il fatto che nella fiaba, in chiave deformata e necessariamente eccessiva, “ritroviamo alcune delle più oscure espressioni del nostro vissuto”. Poi si potrà ragionare anche sul tipo di compiacimento con cui la narrazione sgrana i suoi orrori, anche se – occorre ribadirlo – per una simile valutazione dobbiamo sempre mettere a fuoco stili narrativi, linguaggi di epoche e contesti storici diversi.

Insomma, la panoramica è ricca, di taglio divulgativo, come in genere i testi – sempre molto interessanti – dell’eclettico antropologo Centini, e offre spunti importanti anche per un dibattito attuale. Ai fini del tema, può rilevare fino a un certo punto che l’esame accomuni fiabe di origine popolare e (soprattutto negli ultimi capitoli) altre leggende e prodotti letterari come Pinocchio, sia perché gli archetipi utilizzati in questi ultimi accedono a loro volta al folklore, sia – soprattutto – perché il discorso verte sul peso di un teatro crudele in storie narrate ai bambini, quale ne sia la matrice (in fondo, il sottotitolo del libro cita la letteratura “per l’infanzia”). Al netto di ogni contestualizzazione delle fiabe nere in mondi diversi e variamente antichi, resta il richiamo a un’urgenza di non stemperare in zuccherosi psicologismi le narrazioni per i più piccoli. Come in fondo, diciamocelo, quelle stesse della nostra vita.