di Sandro Moiso

Georges Simenon, L’America in automobile, Adelphi Edizioni, Milano 2023, pp. 187, 16 euro

Perché partire? Non lo so. Per dove? Lo ignoro. C’è da credere che il mio destino sia di andare sempre in cerca di qualcosa. Ma di che cosa? (Georges Simenon – Memorie intime)

Nell’ottobre del 1945 Georges Simenon sbarca a New York, dopo essere sostanzialmente fuggito dalla Francia, dove pesavano su di lui le accuse di collaborazionismo e le minacce di epurazione dovute al contratto firmato, fin dal 1941, con la Continental Films, società a capitale tedesco diretta dal produttore Alfred Greven, che durante l’occupazione aveva realizzato e distribuito nove film tratti dai suoi romanzi.

Con la moglie Tigy e il figlio Marc, per conoscere meglio il paese dove pensa di iniziare una nuova vita, parte al volante di una Chevrolet per un viaggio di migliaia di chilometri, che dal Maine lo porterà sino a Sarasota, sul Golfo del Messico. Ad attirarlo, come sempre, sono la gente e «i piccoli particolari della quotidianità ».

Così, colui che aveva sempre captato, ovunque nel mondo, un disperato e insoddisfatto bisogno di dignità, finirà per essere conquistato dalla «forte tensione verso l’allegria e la gioia di vivere» che sprigionano le semplici ed essenziali case americane, dalla cordialità che regola i rapporti di lavoro, dalla fiducia in sé stessi che le scuole sanno inculcare negli studenti, dalla squisita cortesia degli abitanti del Sud e scoprirà che proprio nella sua nuova patria, vige «un tipo di vita che … tiene conto più di qualsiasi altro della dignità dell’uomo».

Detto ciò si potrebbe affermare che lo sguardo di Simenon, di solito sempre così attento al dissidio permanente tra realtà vissuta e immagine che della stessa vorrebbe dare il perbenismo borghese, si sia appannato di fronte all’American Way of Life. Uno sguardo in cui difficilmente entrano le differenze sociali legate alla linea del colore e altre disparità economiche e politiche della Land of the Free.

Anzi, all’interno del reportage appena pubblicato da Adelphi nel volume 797 della «Piccola Biblioteca», l’autore sembra decisamente propendere per l’opposto, ad esempio là dove afferma che le casette degli afro-americani, da lui osservate in qualche sobborgo del Sud, susciterebbero l’invidia di qualsiasi operaio francese. Ma per comprendere queste “sviste”, queste “anomalie” nel discorso di Simenon sulla realtà in cui stava cercando di inserirsi occorre, come è sempre doveroso, contestualizzarlo.

Nel 2020, sempre per le edizioni Adelphi e nella stessa collana con il numero 758, era uscita una raccolta di reportage dello stesso Simenon che raccontavano i viaggi dello stesso in un’Europa già cupa e in cui si respirava già aria di guerra sia a centro che nelle periferie orientali1. Un’Europa per certi versi somigliante, soprattutto nei fattori politici di divisione che correvano lungo le sue frontiere, in particolare a Est e Nord-est, a quella odierna. Un’Europa caratterizzata dai piccoli egoismi nazionalistici e da una miseria crescente tra le classi medie e meno abbienti.

E’ un quadro triste e meschino quello che viene dipinto in quelle pagine, in particolar modo nel reportage che ha ispirato il titolo del volumetto2. Meschineria che attraversa sia la mente degli abitanti delle regioni visitate che quella dei governi locali oppure delle potenze europee maggiori. Una meschinità senza altra visione che quella del revanscismo nazionalista, di tutti contro tutti e di ogni singolo paese rispetto a quello più vicino, che oltre a preparare il terreno per il futuro macello imperialista scatenatosi a partire dal 1939, in qualche modo spiega la visone dell’unità “politica” europea che, nel confino di Ventotene, avrebbero avuto Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e Eugenio Colorni nel 1941 come proposta per un “manifesto un’Europa libera e unita”. Poi tradita nella sua concreta realizzazione dalla scelta di unificare l’Europa più dal punto di vista finanziario che politico.

Ma anche l’esplorazione della novella patria del socialismo in un solo paese3, vista attraverso le difficoltà burocratiche opposte ad ogni passo dello scrittore, o di qualsiasi altro visitatore nella terra dei soviet già stalinizzata, oppure l’ossessione governativa per il controllo e della lunga mano della Ghepeù o, ancora, della miseria diffusa e visibilissima non aiuta Simenon a dipingere un quadro meno fosco o più speranzoso per il futuro dell’Europa o del mondo. Quadro che non viene affatto migliorato dalla visita che lo scrittore compie a Prinkipo, isola del Mar di Marmara nelle vicinanze di Istanbul o Costantinopoli, per intervistare un isolato e, tutto sommato, aristocratico Trockij, già esiliato dal paese che aveva contribuito a “rivoluzionare” soltanto qualche anno prima4.

Tra questi “tristi” viaggi e il dossier americano scorrono una dozzina d’anni quasi tutti, però, segnati, prima, dalla guerra civile in Spagna e successivamente dalla vera e propria guerra mondiale, in cui la Francia, per non parlar del Belgio di cui Simenon era originario, perde del tutto la sua centralità e miserabile grandeur; ed ecco allora delinearsi come sia stato possibile che, così come fu per molti nel secondo dopoguerra occidentale, che anche per un occhio fino come quello dell’implacabile osservatore del male di vivere delle classi borghesi e piccolo borghesi, gli Stati Uniti, al colmo della loro potenza post-bellica, potessero illudere il visitatore di essere arrivato in una specie di nuovo e più felice mondo, apparentemente molto diverso dal quadro di rovine economiche, politiche, morali e sociali che caratterizzavano l’Europa del secondo dopoguerra5. Però la ragione non risiede soltanto in questo. Infatti, come scrive Ena Marchi nel saggio in coda al reportage simenoniano:

Sono anni che l’America attrae Simenon; e già prima dello scoppio del conflitto era stato tentato di trasferirvisi. Sicché, all’arrivo a New York, il 5 ottobre 1945, dopo dodici giorni di navigazione, prova, così racconta nelle Memorie intime, «una soddisfazione profonda …come quando alla fine si arriva a casa e ci si rilassa con voluttà. E anche una sorta di allegria»: allo stesso modo in cui, ventitré anni prima, era sbarcato alla Gare du Nord deciso a conquistare Parigi, infatti, lo scrittore intende non soltanto iniziare una nuova vita, ma soprattutto ingaggiare, lancia in resta, la sua «battaglia americana». E questo significa, tanto per cominciare: acquisire, grazie ai romanzi e al cinema, quella notorietà che oltreoceano ancora gli sfugge – e, ancor più importante: guadagnare un sacco di soldi6.

Simenon rimarrà negli States per dieci anni e non conseguirà tutti i risultati sperati, soprattutto con Hollywood, ma tra le cause dei suoi diversi spostamenti da una parte del continente, prima del definitivo ritorno in Europa, ci sarà soprattutto l’intima irrequietezza che l’ha accompagnato per tutta la vita. Come ci ricorda ancora l’autrice della postfazione, attraverso le parole dello stesso Simenon.

«Ho passato la vita a viaggiare, a traslocare, a cambiare contesto, abitudini (tranne quelle che hanno a che fare con il mio lavoro). Eppure non esco volentieri dal mio guscio». Era così a Lakeville, a Carmel, a Tucson, in Florida. «Mi scavo una tana, mi ci sistemo con i miei e non ho nessuna voglia di uscirne fino al giorno in cui, senza sapere perché, non mi sento più a casa e riparto con tutta la mia famiglia per ricominciare altrove». Ma qual è la ragione di questa irrequietezza, di questo bisogno di cambiare aria?| «Il fatto che il reale non dura a lungo, per esempio? Intendo dire il tempo nel quale consideri come reali, importanti, personali, certe pareti, certi mobili, il colore delle tende, la strada che va in città… Sì, dev’essere qualcosa del genere, dal momento che ogni volta che trasloco mi libero del mobilio e della maggior parte degli oggetti per ripartire praticamente da zero. Ricominciare ogni volta la vita da zero!»7.

In realtà c’è in quell’irrequietezza l’inconsapevole coscienza del fatto che non esiste davvero un luogo o un paese “ideale” in cui vivere tutta una vita. Lo si avverte già nel primo (1946) e più lungo dei tre reportage americani contenuti nell’America in automobile, che proprio da quello prende il titolo. Quando l’autore giudica sinteticamente la capitale di quello che dovrebbe essere il nuovo paese in cui vivere per il resto della vita.

Tutto è così armonioso, così ricco, così signorile da darvi l’impressione che ogni mattina qualcuno passi l’aspirapolvere nell’intera città. Stesso discorso per gli abitanti. Non sono uomini come voi e me. Né gli americani né gli stranieri che risiedono lì. Sono tutti funzionari. Ahimè, a loro probabilmente non piacerà questa parola! Diciamo che sono i nuovi re, la nuova aristocrazia, quella delle persone che occupano un posto più o meno rilevante in una delegazione o in un office. Gli uni sollecitano risorse da distribuire in patria, gli altri distribuiscono risorse o valutano se farlo, ma in fondo è lo stesso. Sono persone che vivono in un mondo a parte, che si ritrovano nelle stesse ambasciate, agli stessi ricevimenti, negli stessi ristoranti, insieme alle mogli, e che poi di notte riappaiono nei night dei dintorni in compagnia delle dattilografe. [In] questa piccola società in cui ognuno dirige qualcosa e in cui i problemi umani vengono considerati solo dal punto di vista delle statistiche […] avrete l’impressione di leggere la Vita segreta della Corte di Francia. Washington è una grande capitale e al tempo stesso una cittadina di provincia in cui si sa tutto di tutti. Anzi, non è neanche una città: è la Corte. Una Corte democratica, il cui onnipotente presidente abita in una casa bianca non molto più grande delle altre, con intorno un parco circondato da inferriate. Ma pur sempre una Corte, dove il nuovo cappello della moglie dell’ambasciatore tal dei tali diventa il centro della conversazione e dove ogni occasione è buona per ostentare i propri gioielli. L’aspetto esteriore? Ricorda un po’ certi angoli di Neuilly. È bella e noiosa da morire (« barbosa al massimo », come dice la mia segretaria canadese). È l’unico posto negli Stati Uniti in cui si trovano ancora uomini che paiono figurini e riescono, non si sa come, a restare impeccabili dalla mattina alla sera8.

La noia, come sempre, sembra costituire alla fine il minimo comune denominatore delle partenze improvvise, degli amori fugaci, dei tradimenti coniugali e delle mai soddisfatte esigenze sessuali e affettive di Simenon. Anche in America, dove giungerà quando i rapporti tra lui e la prima moglie Tigy sono ormai ridotti alla pacifica convivenza, anche se rimangono uniti per amore del figlio, e dove Simenon, cercando una nuova segretaria, conosce Denyse Ouimet, che diverrà la sua seconda moglie e la madre di altri tre figli.

Una storia che verrà raccontata dallo stesso Simenon in quella che sembra costituire la sua ultima opera e, allo stesso tempo, la sua personalissima autobiografia “adulta”, scritta a Losanna tra il febbraio e il novembre del 1980 e pubblicata nell’ottobre dell’anno successivo: Memorie intime9. Memorie in cui l’esperienza americana occupa 400 pagine sulle 1030 dedicate all’intera vita dell’autore, dal suo trasferimento da Liegi a Parigi, intorno agli anni Venti del XX secolo fino al suicidio della figlia Marie-Jo, avvenuto il 19 maggio 1978.

Scritto apparentemente per commemorare la figlia, in realtà costituisce un tentativo di Simenon per placare il dolore e i sensi di colpa e in questo modo dà vita, rivolgendosi direttamente al primo figlio Marc preso a testimone, a una sorta di grande affresco, in appendice al quale l’autore ha voluto aggiungere tutti gli scritti della figlia suicida, come omaggio alla stessa. Vittima prima e addolorata dell’irrequietezza paterna.

Da quella irrequietezza e da quella esperienza in America nasceranno alcuni dei romanzi più conosciuti di Simenon come La morte di Belle, Il ranch della giumenta perduta, Luci nella notte, Il fondo della bottiglia, L’orologiaio di Everton, Maigret va dal coroner e l’ambientazione della seconda parte di Delitto impunito. Tutti segnati, come sempre dal male di vivere e infinitamente distanti da quella “innocente” visione del nuovo mondo e della sua vitalità che sembrano caratterizzare gran parte del reportage appena pubblicato in Italia.

Viaggio che lo aveva condotto prima in Florida e in Texas, poi successivamente in California e infine nel Connecticut, dove a Lakeville avrebbe trascorso gli ultimi anni prima di ripartire definitivamente per l’Europa il 19 marzo 1955. Durante queste diverse tappe erano nati i figli, John e Marie-Jo. di Simenon e Denyse Ouimet, della quale parla, nelle Memorie intime, senza mai pronunciare il suo vero nome, in sostituzione del quale utilizza l’iniziale D.

Pierre Assouline, uno dei suoi maggior biografi, ha affermato:

Separare l’uomo Georges dallo scrittore Simenon sarebbe assurdo almeno quanto cercare di separare il contenuto dalla forma: sarebbe altrettanto assurdo non considerare i testi di Simenon come documenti di riferimento, col pretesto che la sua opera, poiché presumibilmente immune al Tempo e alla Storia, sia altrettanto refrattaria alla biografia. L’intero vissuto di Simenon riaffiora nei suoi lavori, per quanto trasfigurato e trasposto. Senza il dono inspiegabile dell’assimilazione, l’alchimista Simenon non avrebbe potuto trasformare il piombo della vita di Georges nell’oro della finzione letteraria10.

E su questa base è possibile concludere che L’America in automobile, diventa un viatico straordinario per comprendere le delusioni successive dell’autore, l’amarezza e l’irrequietezza che ne accompagnarono la vita e la scrittura fino a quel colpo di pistola al cuore con cui la figlia Marie-Jo avrebbe posto fine alla propria vita, a soli venticinque anni, nel 1978.

«Save me Daddy – I’m dying – I’m nothing more, I don’t see my place – I’m lost in the space, the silence of death. Forget my tears but please, believe in my smile, when I was your little girl, many years ago. Be happy for me – Remember my Love, even if it was crazy. That’s for what I’ve lived and for what I die now» (Marie-Jo Simenon, 1978)


  1. Si tratta di Georges Simenon, Europa 33, dove 33 sta per 1933  

  2. G. Simenon, Europa 33 ora in G. Simenon, op. cit, pp, 11-126.  

  3. G. Simenon, Popoli che hanno fame (1934) in G. Simenon op.cit., pp 188-370.  

  4. G. Simenon, Una visita a Trockij (1933) in op.cit., pp. 163-187.  

  5. In merito alla miseria e alla devastazione, anche morale, che caratterizzarono l’Europa dopo la seconda guerra mondiale può essere utile la lettura di K. Lowe, Il continente selvaggio. L’Europa alla fine della seconda guerra mondiale, Editori Laterza, Roma-Bari 2013 oppure, per l’Italia meridionale, N. Lewis, Napoli ‘44, Edizioni Adelphi, 1993 o, ancora, in forma romanzata, C. Malaparte, La pelle (prima edizione 1949) , Adelphi 2010.  

  6. E. Marchi, Il viaggiatore incantato in G. Simenon, L’America in automobile, cit,, p. 153.  

  7. E. Marchi, op.cit., pp. 154-155  

  8. G. Simenon, L’America in automobile, cit., pp. 84-85.  

  9. G. Simenon, Memorie intime. Seguite dal “Libro di Marie-Jo”, Adelphi Edizioni, Milano 2003  

  10. P. Assouline, Georges Simenon. Una biografia, Casa editrice Odoya, Bologna 2014, p. 11.