di Pietro Garbarino

L’art. 49 della Costituzione repubblicana dichiara il diritto dei cittadini ad associarsi in partiti politici per concorrere con metodo democratico alla vita politica del paese. Le modalità e finalità delle associazioni sono quanto mai libere, proprio per non condizionare dall’esterno gli orientamenti politici, anche diversificati fra loro, degli associati. Ma purtroppo, e non si può certo addebitarlo ai Padri costituenti, l’intento di non condizionare tale diritto, come allora espresso, si è venuto a scontrare con diversi fattori, tra i quali le diverse leggi elettorali succedutesi negli ultimi trent’anni, con alcune discutibili prassi istituzionali che hanno condizionato i rapporti tra Parlamento e governo, come l’abuso del ricorso ai decreti-legge, e con l’evoluzione economica e sociale del paese, che ha visto profonde modificazioni della società e della vita pubblica, rispetto a 72 anni fa.

Un primo elemento di differenziazione sta nella epocale modificazione che si è avuta a livello internazionale con la caduta e il dissolvimento dell’Unione Sovietica e del blocco degli stati socialisti dell’Europa, ma anche con la modificazione del regime economico della Cina Popolare, che ha abbandonato il sistema esclusivo dell’economia collettivistica e pianificata, inserendosi nei mercati capitalistici mondiali.

Un secondo elemento, collegato al precedente, ma risalente alla fine degli anni ’80, è rappresentato dall’abbandono delle forme ideologiche da parte dei maggiori partiti, i quali si sono trasformati sempre più in comitati elettorali e sodalizi di opinione, più legati ai sondaggi elettorali che alle strategie politiche. Uno scossone devastante è arrivato, non casualmente dopo la caduta del “muro” e la conversione ufficiale alla socialdemocrazia, da parte dei partiti comunisti occidentali, dalla vicenda “mani pulite” che, anziché essere gestita dalla sinistra come un effetto dell’economia liberistica o di mercato, che nel nostro paese si connota come prevalentemente parassitaria verso il denaro pubblico e tendente al rapporto clientelare e mafioso, è stata interpretata in termini moralistici e comportamentali, assecondando così l’introduzione nell’opinione pubblica del germe dell’ “antipolitica”. Cioè, anziché dire che la corruzione era figlia di un’economia debole e drogata dalle clientele, dalle più diverse parti politiche si sono presi di mira proprio i partiti, le istituzioni pubbliche e la politica, in nome di un liberismo sempre più sfrenato, della denigrazione della cosa pubblica e dell’individualismo imprenditoriale. In questo clima ha preso sempre più quota il tema della “governabilità”, e cioè della rivalutazione del ruolo preminente del governo e della valorizzazione del punto di vista dei governanti, visti quasi come capitani d’industria e sempre più in modo personalizzato. Berlusconi è stato l’interprete emblematico di questa tendenza, che non ha trovato nella sinistra un adeguato baluardo, perché l’opposizione fu sempre incentrata sulla individualità personale dell’uomo e non sulle scelte economiche e sociali, tutte tese verso un liberismo di tipo americano, e un modello di stato tendente a far prevalere il governo sugli altri poteri dello Stato. In questo contesto il Parlamento, visto come pletorica assemblea di partiti e come continuo impedimento al dirigismo del Capo, venne fatto oggetto di continui attacchi, e fatto passare nell’opinione pubblica, come mero ostacolo alle decisioni governative. La concentrazione degli organi di stampa in poche mani, già allora in corso, fu certamente utile strumento in quella vicenda.

Tutto ciò non poté non avere influenza sulle leggi elettorali che, nel nostro paese, sono emanazione del legislatore ordinario. La neonata logica dell’alternanza bipolare tra destra e sinistra fece sì che quasi ogni governo, a seconda del proprio orientamento politico, inaugurasse la pessima prassi di farsi una propria legge elettorale, ma anche di modificare la Costituzione a proprio uso e consumo, secondo le convenienze politiche del momento. Perciò negli anni 2000 abbiamo assistito a ben quattro referendum costituzionali (l’ultimo è di tre mesi fa) e ad almeno a quattro leggi elettorali diverse, la maggior parte delle quali dichiarate incostituzionali dalla Consulta. Il risultato di questa devastante e sconcertante sequela di modifiche legislative, peraltro quasi tutte abortite o superate, sotto il profilo della funzione dei partiti politici, è stato quello di avere un Parlamento non più formato da rappresentanti eletti dai cittadini, bensì da deputati e senatori preselezionati dalle segreterie dei partiti, in quanto sia nelle leggi elettorali proposte dallo schieramento di centrodestra, così come dal centrosinistra, le candidature in vari collegi vengono effettuate centralmente dalle segreterie dei partiti e non dalle istanze locali sul territorio o dagli iscritti-elettori.

Ma come si spiega questa “evoluzione” e quale appare adesso il ruolo di tali partiti? Il falso e fuorviante concetto di “governabilità” introdotto suggestivamente dai vari cultori del sistema costituzionale presidenziale (il nostro è invece un sistema parlamentare) ha portato con sé l’introduzione nella legge elettorale di elementi del cosiddetto sistema maggioritario, con collegi uninominali e premio di maggioranza (come in Regione Lombardia). Tutto ciò ha indotto i partiti politici, già indeboliti dall’abbandono delle ideologie (ovvero delle autonome strategie di lungo periodo) a puntare essenzialmente sull’obbiettivo del governo a qualsiasi livello, nazionale, regionale e locale. Dunque si abbandonò la funzione civica dei partiti come propagatori di un modello di società e convivenza (e cioè, della forma di Stato) da perseguire, e si puntò esclusivamente ad avere le leve del potere, trasformandoli in meri comitati elettorali, nonché in strumenti di puro sostegno del governo nazionale o locale, nel caso avessero vinto le elezioni.

In questo modo i partiti anziché promuovere modelli politici e sociali proiettati verso il futuro, e verso lo sviluppo della democrazia secondo i principi costituzionali, si sono limitati a puntare al mantenimento del proprio potere, adottando strategie “a vista” e non disdegnando neppure le proposte dei concorrenti politici, ove ciò venga ritenuto conveniente. Chiarissimo esempio fu la riforma costituzionale del titolo V della Costituzione, adottata da uno schieramento di centrosinistra, per invadere il campo politico della – allora – Lega Nord, che in quel momento propagandava il federalismo. Ma a ciò si aggiunse la designazione dei candidati da parte delle segreterie dei partiti mediante l’istituzione delle liste bloccate. Cioè di liste di candidati assai ristrette e selezionate, indicando persone gradite alla dirigenza del partito. Quel sistema non sarebbe più stato abbandonato neppure con i cambi di maggioranza. Infatti tutt’ora, con l’attuale “rosatellum”, esso permane.

Dunque, complici tutte le circostanze sopra indicate, abbiamo partiti politici senza più idealità di fondo che indichino la visione sociale e politica di questa o di quella forza; programmi politici sono legati alle contingenze o servono solo sotto elezioni; le forze politiche di governo (si veda quelle attuali) vivono alla giornata a seconda degli umori dell’opinione pubblica, dove ovviamente prevale chi ha i mezzi economici per fare la voce grossa, come ad esempio oggi Confindustria e tutte le altre organizzazioni degli imprenditori.

Ma quello che maggiormente pesa sulla funzione e attività dei partiti è la qualità degli esponenti politici, non più scelti sulla base delle loro capacità e competenze, ma per la fedeltà alla segreteria di partito. Anzi, in tempo di populismo, si può anche dire di fedeltà al leader di partito, atteso che sempre più abbiamo avuto, da Berlusconi in poi, partiti personalizzati, perfino nell’area di centrosinistra (si pensi a Di Pietro).

Possiamo dunque oggi parlare di partiti politici nel medesimo senso inteso dall’art.49 della Costituzione? No di certo.
Infatti i partiti immaginati dal Costituente erano dei protagonisti della vita reale con i quali gli elettori si confrontavano su come pervenire alla realizzazione del disegno politico ideale in cui ciascuno credeva o confidava. I partiti inoltre operavano sia come forze culturali interne, sia verso i propri militanti e aderenti, ma anche verso l’esterno per dare all’opinione pubblica la propria visione dei problemi e le relative proposte di soluzione. Oggi l’adesione ad un partito avviene per lo più a seconda delle convenienze individuali con la linea attuale (che però può rapidamente cambiare) di quella parte. Non a caso oggi si assiste a rilevanti cambi di orizzonte, così come a repentine e continue trasmigrazioni da un partito all’altro. Le decisioni politiche dipendono dai sondaggi e dalla pressione di gruppi sociali organizzati sugli esponenti politici di turno. La preoccupazione fondamentale è l’autoconservazione del proprio seggio e dei connessi privilegi. Il risultato finale è che la coerenza e la moralità della vita politica sono ridotti a livelli prossimi allo zero.

Che fare allora? Come modificare questo desolante quadro? Bisogna ritornare al concetto di partito come portatore di un disegno ideale di società, di economia e di stato, che deve costituire il programma stabile e distintivo di quella forza politica. Ben venga, anche se vogliamo chiamarla ideologia, quell’elemento, come garanzia di coerenza e moralità di azione.

Bisogna ritornare ad un concetto di partito, interno alla società, che pone i problemi dei cittadini, li affronta e lotta, fuori e dentro le istituzioni, per risolverli. Partiti che alimentano la cultura civica e non la riducono a slogan e barzellette, nel pieno rispetto, anzi e nella progressiva attuazione di quella gran parte della nostra Costituzione ancora da realizzare, e nei fatti dimenticata. Partiti che abbiano anche, all’occorrenza, il coraggio di porsi in alternativa ai luoghi comuni che spesso circolano a livello popolare, anche per demerito di una stampa acritica e ossequiente, ormai concentrata in poche e potenti mani.

Ma per fare ciò occorre che si formi un movimento, non solo culturale e di opinione, che prema affinché politica e partiti abbiano una loro carta di indirizzi e linee guida che, lasciando libertà di pensiero sulle proposte politiche strategiche (escluso ovviamente il fascismo e le forme politiche analoghe), individui quei punti cardine di funzionamento, come ad esempio il principio di responsabilità politica e le candidature condivise dei capaci e competenti, al fine di avere la garanzia che quell’indispensabile strumento di intermediazione politica tra il cittadino e le istituzioni funzioni secondo i principi democratici di eguaglianza anche dei loro militanti, di consultazione metodica degli iscritti, di apertura alle proposte di discussione, di allargamento degli organismi dirigenti e della loro rotazione, affinché il cittadino torni ad avere rispetto ed interesse per la politica e si recuperi un rapporto di stima tra chi si adopera per rappresentare e i rappresenta. In sostanza occorre uno “Statuto dei partiti”, condiviso tra le forze che vogliono permanere in un sistema democratico, al fine di recuperare l’enorme distanza e sfiducia oggi esistente tra cittadini e politica, e ripristinare l’indispensabile ruolo, di rilevanza costituzionale, dei partiti politici.