Il mito dei miti in Emilio Tadini

di Francisco Soriano

Questo è il tempo ed il buio già si illumina è verso di incontrastata e sublime poesia. Emilio Tadini fu poeta e artista fra i più rappresentativi del Novecento, soprattutto nella narrazione di miti e storie del proprio tempo attraverso la sublimazione della parola come atto poetico. Il suo attraversamento artistico, le sue simbiosi, le sue metamorfosi sono stati vissuti con l’eleganza di un passo delicato fra i cocci aguzzi della realtà. La sua fu una poetica abitata da forme sinuose di un’autentica quanto originale visione del mondo: interprete giovanissimo di mutazioni epocali.

Emilio Tadini nacque a Milano il 5 giugno del 1927. Orfano già nella prima infanzia, fu accudito dalla zia e dalla nonna. Insieme al fratello ereditò la tipografia e casa editrice Grafiche Marucelli in via Jommelli, fra il quartiere Casoretto e Piazzale Loreto, dove vivrà per il resto della sua vita. Tadini si distinse prestissimo nella scrittura, originaria passione artistica: nel 1947, neppure ventenne, pubblicò un poemetto sulla rivista di Elio Vittorini «Il Politecnico», La passione secondo San Matteo. L’opera ottenne il premio Renato Serra, ex aequo con una silloge di Antonio Rinaldi, al cospetto di una commissione guidata da Eugenio Montale, Carlo Muscetta e Sergio Solmi. Laureatosi in Lettere, pubblicò nel 1960 Tre poemetti e, per la casa editrice Rizzoli, il romanzo ispirato e dedicato all’impresa di Carlo Pisacane, Le armi l’amore. Successivamente, anche se i suoi interessi artistici spazieranno in varie forme espressive, pubblicò per Einaudi L’opera nel 1980; La lunga notte ancora per Rizzoli nel 1987, vincendo il premio Campiello; L’insieme delle cose per Garzanti nel 1991; La tempesta per Einaudi nel 1993, con la quale ottiene il Premio Strega; La deposizione, sempre per Einaudi, nel 1997; chiuderà questa intensa attività letteraria di prosa e poesia La distanza, pubblicato ancora una volta con Einaudi nel 1998. Pubblicazioni postume, a cura di Francesco Tadini, sono L’occhio della pittura, con Garzanti, nel 1995, e il suo ultimo romanzo, Eccetera, con Einaudi, nel 2002. In collaborazione con la Fondazione Corriere della Sera esce nel 2011, per i tipi Einaudi, Poemetti e poesie, a cura di Anna Modena. A seguire, nel 2016, Parole & figure per Pagine d’Arte.

 

Intensa la sua attività letteraria, frutto di studio appassionato e talento che Emilio Tadini dimostrava in ogni sua azione artistica, incluse le strepitose traduzioni di autori come Ezra Pound e Thomas Stearns Eliot, Louis Ferdinand Céline, William Faulkner e, infine, Kazimir Severinovič Malevič. Nella Milano del dopoguerra, Tadini rappresentò un punto di riferimento per intellettuali e artisti, a testimonianza del suo ruolo l’amicizia sia con alcuni giovani emergenti, sia con intellettuali ormai consolidati nel panorama artistico dell’epoca della statura di Umberto Eco, Dario Fo, Elio Vittorini, Sergio Solmi, Albe Steiner, Lucio Fontana, Valerio Adami, Alik Cavallieri, Gianfranco Pardi, Mario Schifano e Lucio del Pezzo, solo per citarne alcuni. Da ricordare l’amore dello scrittore per il teatro, il quale all’interno del Circolo Diogene conobbe Paolo Grassi e Giorgio Strehler.

 

Pur apparendo l’azione poetica di Tadini talvolta più defilata rispetto alla prosa e ad altre discipline artistiche come la pittura, lo scrittore dà dimostrazione di essere uno straordinario intellettuale, poliedrico, che ci imporrebbe oggi una attenta e duratura riflessione su tutto il suo percorso artistico. La scelta di una forma poetica narrativa come il poemetto gli consentiva, inoltre, di leggere e interpretare la Storia, il suo ambiente, le sue radici e le nostre vicissitudini anche con profonda inquietudine. La sua azione tuttavia scavava in profondità arcani ed enigmi tipici della complessa realtà italiana.

 

In realtà, come raccontano i suoi biografi, Tadini fu giovane poeta dal futuro radioso già ai tempi del liceo, con il suo amore purissimo per le opere classiche e un umanesimo vissuto come perno delle nostre vicissitudini in ogni suo scritto. Ben sapeva che il mito, la storia, l’Iliade e l’Odissea, erano il punto di partenza e l’origine ontologica di una intera umanità che ritrovava in ogni giorno del proprio vissuto l’eroe e il tragico, il dramma e la commedia, rappresentando un humus indelebile di poesia e scrittura. Il punto nodale di analisi nel modo di concepire poesia, in Tadini, non poteva che essere la poetica di Eugenio Montale. Del poeta degli Ossi di seppia e di Satura, nel 1950, Tadini asseriva in una recensione all’Antologia della poesia italiana (1909-1949) a cura di Giacinto Spagnoletti che era nella sua volontà di penetrare un mondo in sfacelo e di verificarlo con asprezza fino in fondo, e che il poeta ligure aveva praticato il vero rinnovamento della lingua italiana in poesia proprio attraverso l’irrompere del parlato, del tono basso nei versi.

 

Tadini fu studente alla Cattolica di Milano ed esponente di un cattolicesimo interpretato coerentemente nel suo vissuto aderendo alla sinistra cristiana, quella che faceva riferimento a personaggi, come Vittorini, con i quali amava dialogare. Per questo motivo la sua sensibilità e cultura a impronta umanistica e classicista trovò nella scrittura della Passione secondo San Matteo la vivificazione di un mito sopravvissuto a tutte le intemperie e le persecuzioni del mondo.

 

Dov’è adesso Cristo dov’è a rompere / il cuore dei ricchi gli esitanti / e imbiancati sepolcri, ad abbracciare la gente / piena di attesa e di speranza i poveri / dai grandi occhi? In esergo al poema Tadini si pone una domanda che prelude alla sua ricerca esistenziale e a quella di coloro che assistevano allora alla deriva individualistica dei tempi moderni, in cui sviluppo e mercificazione assumevano già criticità e derive incidenti drammaticamente sulla società. Tadini costruisce un postulato politico, precedendo addirittura quello che di Pier Paolo Pasolini, anni dopo, fu terreno di ricerca sia con le sue scritture, in questo caso coerenti e lineari, sia con un film notoriamente riconosciuto come il suo miglior capolavoro da cineasta. Ad ogni modo lo scrittore ci informa del tragico dissidio, dell’informe angusto spazio dell’ingiustizia, dell’umanità che non ha smesso di imbiancare sepolcri laddove, proprio nella ricerca di un Cristo portatore di eguaglianza sociale, Tadini stesso esprime la vivificazione di una speranza: Forse sulla riva di un lago forse / corre sulla montagna si disseta / in fretta ai pozzi bianchi inseguito e cercato. Certo la poesia è proprio la straordinaria possibilità di realizzare ciò che non è sempre possibile ad altro nella realtà, divenendo più tangibile e materiale del suo stesso inchiostro, quando si afferma in modo assolutamente incontestabile che un rivoluzionario / scava paesi e intere regioni / con le parole che lascia le parole / di vetro e d’oro le parole logiche. Per Tadini il dramma si compie, il tempo è nelle mani dell’angelo (della morte?) e i morti / cominciano a tremare nelle tombe. Pasqua e demenza nei versi del poeta assumono carattere devastante, affresco dell’insensato vissuto dagli uomini protesi alla festa e alla deriva, al fedele ristoro di uno slancio estatico e al tradimento per trenta denari. È forse solo un mito ma è soprattutto la storia dell’umano generato da un misterioso arcano dal quale sembra inestricabile ogni più accettabile comprensione. Tadini innalza già dai primi versi, con l’abilità del poeta e la passione del credente, una tensione lacerante descrivendo i passi del giusto e dell’uomo come leggeri e profumati / come quelli di un cervo spaventato, con un deciso rimprovero: dovevate lasciare che il profumo si versasse / senza parlare. Nell’infanzia-ignoranza dei suoi undici seguaci, il Cristo conosce il tradimento metafora dei mali di un mondo che facendo il male assolve alla sua stessa sopravvivenza. L’incomprensione è uno sfondo drammatico, resiste alla parola, è inconciliabile nel tempo che verrà, attende il momento ineluttabilmente determinato. Nell’alternanza del tempo, dei giorni e delle notti che ne scandiscono gli istanti in fotogrammi, è un andare e venire di persone quasi inconsapevoli della tragedia che incombe: sopraggiungono copiosi con i loro / cani con gli alberi secchi e il pane.

 

Che cosa rende eterno un eroe del mito? La solitudine. Tadini definisce con maestria il teorema, affermando: Prendono e mangiano la sua carne prendono / e bevono il suo sangue, tutta la consolazione / è consumata, ora bisogna che egli esca. / Ora è solo. In questo evento la pianta per eccellenza è l’ulivo, in attesa da anni di una luna, l’ultima, che appare nella sua tenue e soffice luminescenza con il compito di attutire e rendere silenzioso il rumore dei passi; sereno nella sorte che lo attende, perché questa rappresenta il suo fine, il Cristo di Tadini è solo / a lottare contro la roccia. L’universo circostante rompe il silenzio e la calma piatta, così come il cielo armonioso e curvo: tutto si contorce in assalti urlanti di ingiustizia. Due labbra tremanti e indispensabili / scatenano l’inferno. Intanto, chi è stato a tagliare l’orecchio / del servo? I sacerdoti assolvono al loro potere, rispondono al giusto e al vero con l’ipocrisia, il tradimento, con pugni e schiaffi e sputi sulla faccia di quell’uomo la cui sentenza è scandita da un gallo metallico e implacabile: canta come un vetro nell’acqua, è un gallo freddo come l’argento / come quest’alba. Il mattino è forse assolato, ma un uomo pende derelitto piegato dal suo stesso misfatto, mentre uomini cercano di occultare la vergogna, seppellendo monete-mosche nel campo del vasaio insieme alle mani di Giuda. Tadini dipinge una immagine di immane forza evocativa con queste mani sepolte, strumento perfetto del tradimento.

 

Ancora mani, quelle di Pilato, vestito come uno stupido vigliacco, prima molli e nascoste, poi esibite nella volontà che tutto sia finito: si lava le mani / ma nel catino non c’è niente si lava le mani come un pazzo. E come potrebbe essere altrimenti per chi, per amore del potere che corrompe e inficia, non fa che nascondere l’ingiustizia. I sacerdoti si accarezzano l’un l’altro le mani / e chiudono tutte le porte con gesto premuroso: il crimine è compiuto e la pratica della perfidia archiviata, mentre Cristo sale sul Golgota. Sulla sua faccia, cadendo, sembrano imprimersi polvere e giardini, e soltanto pochi sanno di quale sentenza è stato condannato a morte. Il legno-croce è il sacrificio per le sorti del mondo: tra tutti gli uomini Cristo sceglie la compagnia di due ladri, mentre sacerdoti e mercanti ballano sotto la croce.

 

Sul Golgota, collina d’alluminio, tutta l’acqua brucia in una sola fiammata come alcol, e il pentimento dei colpevoli non sembra lenire il turbamento della natura che tutto sconvolge. I sacerdoti, ancora loro, non vogliono più inganni né uomini azzurri / che incomincino a camminare dalla parte del sole / non vogliono che nulla si muova, e sigillano il sepolcro alla stregua delle monete di Giuda. Il gesto è compiuto, ma la luce acceca dalle finestre e in ogni dove, ed è da questo momento che tutto deve essere fatto, parola e gesto vita / e solitudine.

 

Dal Nulla e dal Niente il mito ha cercato la chiarificazione del vuoto. Tadini, da magnifico poeta, rifugge ogni retorica che infici, nasconda, semplifichi. Il suo Gesù morto che incomincia a decomporsi in cielo salverà davvero il mondo?

 

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