di Sandro Moiso

William Atkins, Un mondo senza confini. Viaggi in luoghi deserti, Adelphi Edizioni, Milano 2023, pp. 440, 28 euro

In anni di drastico cambiamento climatico e soprattutto durante una stagiona infiammata da temperature molto elevate anche in luoghi un tempo difficilmente definibili come “caldi”, la lettura del testo di William Atkins appena uscito per i tipi di Adelphi può rivelarsi sia utile che affascinante, poiché, in fin dei conti, i deserti di cui l’autore inglese è andato letteralmente a caccia ci sbattono in faccia quello che potrebbe essere l’aspetto di gran parte delle terre emerse alla fine del capitalocene.

Ma quegli stessi territori, considerati tra i più caldi del pianeta, come il deserto di Sonora e quello di Black Rock negli Stati Uniti oppure i deserti di Gobi e di Taklamakan in Cina o, ancora, il Gran Deserto Victoria in Australia insieme a quelli dell’Oman, dell’Egitto Orientale e del Kazakistan, si rivelano essere non soltanto estremamente inospitali per la specie umana e, spesso, non soltanto per quella, ma anche luoghi che nella loro essenza sono proprio il contrario dei non-luoghi in cui la civiltà capitalistica ci ha abituati a vivere.

Come annotò, nel 1878, John Wesley Powell nel suo Report on the Lands of the Arid Region of the United States, il deserto, sub specie West degli Stati Uniti, era ostile al capitalismo. Certamente dal punto di vista economico, viste le difficoltà intrinseche in termini di costi e strutture necessarie per mettere a rendimento quei territori, ma anche dal punto di vista dell’immaginario dettato dalla loro estensione e dall’impossibilità di confinarli.

I deserti, infatti, sono regioni in cui possono essere stati o si sono confinati popoli e furfanti, dissidenti e briganti, eremiti, santi e avventurieri, delle cui storie sono piene le pagine del testo di Atkins, ma i cui limiti geografici e biologici sembrano essere sempre in costante movimento. Sia in senso espansivo che nel senso del restringimento. Territori sostanzialmente “anarchici” dal punto di vista della mappatura geografica, così utile a definire spazi di proprietà privata o statuale, ma inadatta a contenerne i limiti reali. Spesso negati per comodità di incanto economico.

Si pensi soltanto al rapporto del 1878 cui si è accennato prima, che rivelava, con grande scandalo per l’epoca, come gran parte degli Stati Uniti appartenessero, e ancora appartengano, dal punto di vista climatico, geologico e biologico ad aree desertiche o semi-desertiche.

«La regione arida inizia a metà delle Grandi Pianure» scrisse Powell «e si estende attraverso le Montagne Rocciose fino all’Oceano Pacifico». In un’area così arida, avvertì, « si avranno molti periodi di siccità, molte stagioni di seguito saranno infruttuose, ed è lecito chiedersi se, tutto considerato, l’agricoltura vi si possa dimostrare redditizia ». E non era neppure un problema di dispersione delle acque che la regione possedeva: «Quand’anche tutte le acque che scorrono nei torrenti della regione fossero canalizzate, solo una piccola porzione del territorio potrà essere riscattata ». Powell aveva capito che la carenza d’acqua non era l’unico problema: c’erano anche il gelo, il suolo alcalino, il drenaggio insufficiente. Lì non era possibile vivere come si viveva nell’Est. Al di là di ogni altra considerazione, c’era bisogno di grandi spazi. Lo Homestead Act del 1862 garantiva 162 acri a ogni colono, ma quella era una misura calcolata da gente che viveva nella piovosa Washington. Nel deserto sarebbero bastati sì e no per due vacche inappetenti. Powell suggerì di allocare un minimo di 2560 acri per ogni ranch. Propugnava pascoli comuni non recintati, imprese cooperative e sovvenzioni federali.
[…] Per i ‘fautori’ dell’American West come il potente speculatore fondiario Charles Dana Wilber, il deserto di Powell era solamente un mito: «Il Creatore non ha mai imposto un deserto perpetuo a questo mondo,» scrisse nel 1881 «ma al contrario l’ha fatto in modo tale che, in qualunque paese, l’uomo possa trasformarlo con il suo aratro in terreno agricolo». Non sarebbe bastato certo il consenso scientifico a smuovere chi era stato sedotto dalla dottrina del Destino Manifesto. Wilber era anche un apostolo dell’idea che l’attività agricola stessa avrebbe alterato il microclima locale, una teoria esposta per la prima volta da Josiah Gregg nel 1844. «Una coltivazione intensiva del terreno» scrisse «può contribuire a moltiplicare le piogge». La meccanica di questo processo non era chiara – alcuni supposero che fosse collegata alla maggiore capacità di assorbimento del terreno arato –, ma fra coloni e fautori si andò affermando la convinzione che il deserto – così com’era – potesse essere fatto indietreggiare fino alle pendici delle Montagne Rocciose. Un fautore giunse ad affermare che per ogni metro di binari stesi in quel deserto sarebbero caduti quattro litri di pioggia in più all’anno. Oggi sappiamo che non fu il deserto a indietreggiare. «La pioggia segue l’aratro» si sarebbe dimostrato un motto disastroso per i coloni, che si insediarono sul margine orientale del deserto solo per vedere un succedersi di siccità mentre il secolo volgeva al termine. Quelli che lasciarono le pianure spazzate dalla polvere dipinsero sul fianco dei loro carri: «In Dio abbiamo creduto, nel Kansas abbiamo fallito»1.

Guardando la cartina degli stati “desertici” e semi-desertici”, contenuta a pagina 271 del libro di Atkins, chiunque conosca almeno una minima parte della storia degli Stati Uniti e del loro contraddittorio sviluppo avrà modo di verificare come le straordinarie foto di Dorothea Lange, Ben Shahn e Walker Evans che, per conto della Farm Security Administration, hanno documentato l’esodo di decine o centinaia di migliaia di contadini impoveriti dagli stati agricoli del Mid-West e del West, rovinati dalla crisi economica degli anni Trenta e dalle tempeste di polvere, verso i campi di lavoro della California, erano già inscritte nella morfologia del territorio che si erano sforzati di piegare allo sfruttamento agricolo. Grande o piccolo che questo fosse.

Ed è qui, tralasciando le storie infinite di monaci, di pazzi esploratori che attraversarono certi deserti trainando barche e battelli da usare su mari interni che non avrebbero mai trovato ma di cui avevano auspicato l’esistenza, di esperimenti nucleari condotti senza alcun dato scientifico che ne attestasse la non pericolosità per gli esseri viventi che abitavano quelle aree o quelle circostanti e mille altre vicende ancora che rendono i deserti luoghi molto più interessanti di quanto si creda nella civiltà del frigorifero stracolmo di cibo spazzatura e di cervelli altrettanto riempiti di spazzatura mediatica, che si pone il centro di interesse delle riflessioni suscitate dalla lettura di Atkins.

Se c’è, nei fatti, una lezione che il deserto sicuramente insegna è quella dell’umiltà e non a caso è stato il luogo privilegiato per l’eremitaggio oppure per le vite di popoli costretti a fuggire, oppure che sceglievano di farlo, per non cadere sotto le grinfie dell’offerta mercantile, della falsa ricchezza rappresentata dall’oro e dai sui sanguinari custodi e cercatori. Poiché il deserto si rivela non come luogo di accumulazione (nozione basilare per una comprensione dei meccanismi capitalistici), ma di sottrazione dell’inessenziale per la sopravvivenza e la vita.

Un luogo in cui è l’essere vivente, soprattutto sub specie Homo, a dover sapersi adattare, così come ci hanno insegnato per millenni i nostri antenati Che in quei deserti, come ci ha insegnato Giorgio De Santillana uno storico e filosofo della Scienza di cui ci occuperemo in una prossima recensione su Carmilla, hanno posto le basi delle conoscenze scientifiche semplicemente osservando il moto degli astri in un cielo non ancora offuscato dalle effimere luci del progresso, dando così vita ai più antichi e straordinari miti dell’Umanità. Prima che la loro trasformazione in religioni, più o meno rivelate, ne offuscasse l’intrinseco e più autentico significato.

Una lezione che l’essere umano attuale, convinto dal Rinascimento e dalle sue origini nel libero arbitrio cristiano di essere artefice del proprio destino e libero di agire e decidere, tarda a riscoprire. Anche là dove volendo criticare l’esistente si accolla “antropocentricamente” tutte le responsabilità di trasformazioni climatiche ineludibili, ma di cui, invece, occorrerebbe comprendere la reale portata per evitare di aggravarne le conseguenze. Come già due secoli or sono Giacomo Leopardi si sforzava di far capire ad una società addormentata sugli improbabili allori di un secolo servile, superbo e sciocco, cantando le lodi della ginestra che del deserto è il fiore.

Solamente ripartendo da lì può prendere spunto una critica radicale del modo di produzione dominante e devastante che ci accompagna, insieme alla sua hybris, da poco più di due secoli. Non dal greenwashing variamente travestito, ma dal “deserto”, dalle sue storie e dalla sua storia geologica plurimillenaria.


  1. W. Atkins, Tra grandi fuochi. Il deserto di Sonora, Usa, in W. Atkins, Un mondo senza confini, Adelphi, Milano 2023, pp. 268-269