di Franco Pezzini

[È appena uscito in libreria a cura di Emanuela Chiriacò, per i tipi Primiceri di Padova, il volume La Regina Cannibale. L’immaginario ecologico nell’età vittoriana e post vittoriana, con un saggio conclusivo di Paola Del Zoppo. Quella che segue è la mia prefazione.]

Lo sappiamo, l’età vittoriana con il suo impatto tanto vivido sull’immaginario di oggi, sorta di Paradiso perduto di eroi in mantellina e trine, pince-nez e ombrello (perennemente a spasso nell’odierno orizzonte transmediale, attraverso nuove edizioni di romanzi e racconti, trasposizioni su schermo, pastiche) rappresenta per altri versi e in modo concretissimo, in grazia del suo impero quasi planetario, una sorta di prova generale del nostro mondo globalizzato. Compreso per quanto riguarda i rapporti con la natura e le minacce che la insidiano, il clima e le sue crisi, il fronte che definiamo ecologico. Certo, è dall’inizio dell’Ottocento – o anche molto prima – che emergono inquinamento, sfruttamento industriale e altre situazioni lesive di un’alleanza tra uomo e natura, garantendo senz’altro una serie di benefici moderni ma ponendo al contempo fiumi di domande (comprese quelle di Mary Shelley col suo Frankenstein): però è con l’età vittoriana che una certa consapevolezza emerge in modo più acuto tra nubi di fuliggine spessa.

Grande pregio del testo che andate a leggere è nella proposta di un ventaglio di contributi, articoli, prove in punta di penna niente affatto noti al grande pubblico e per nulla scontati: a offrir voci che in valori e limiti – limiti che non paia ingeneroso rilevare, considerando quanto nell’ultimo secolo sia cresciuta una sensibilità all’ambiente e la percezione di rischi molto concreti – presentano sul tema un ampio panorama di provocazioni.

Si parte da Industrializzazione e città tentacolari, sul rapporto – paradigmatico nel caso di Londra – con la nuova urbanizzazione. Un fenomeno del resto tanto felicemente evocato in pagine di autori-cardine del periodo in questione: si pensi solo a Dickens (dagli impagabili Sketches by Boz, 1833-36, a mille scene dei suoi grandi romanzi, compreso l’emblematico Tempi difficili, 1854, che pure si ambienta a Coketown, trasfigurazione di Preston presso Manchester), a L’uomo della folla di Poe, 1840, ambientato significativamente in una Londra mitizzata, visionaria e febbrile – con il suo vampiresco Ebreo errante della labirintica modernità urbana, in osmosi/dipendenza dalla Notte etica di massa –, ai bassifondi evocati dai polizieschi di Conan Doyle e dalle incredibili tavole a incisione di Gustave Doré per lo “scandaloso” reportage London: a pilgrimage, 1872. È un fatto che, nel corso dell’Ottocento, Londra sia cresciuta in modo vertiginoso, dal primo quarto del secolo è divenuta la città più grande del pianeta (da oltre 1 milione di abitanti nel 1801 ha conosciuto un’impennata a 5,567 milioni nel 1891), il maggior porto esistente e il cuore pulsante di finanza e commercio internazionale, connesso in vario modo a tutto il resto della Terra; e alla fine dell’età vittoriana rappresenta un intero mondo, il luogo delle contraddizioni della modernità (al punto che proprio lì i movimenti dei lavoratori sono spinti a trovare un importante luogo di confronto). Non è un caso che nel Dracula (1897) il Grande Vampiro intenda trasferirsi nella gigantesca pasticceria di una Greater London stimata di 6,292 milioni di persone; e neppure che per intervenire urbanisticamente sull’infernale Babilonia dei quartieri poveri occorra il clamore mediatico del caso Jack the Ripper, 1888. Per contro, autori flâneur come Machen rilevano l’estrema complessità del panorama umano a Londra: dal narrante de La collina dei sogni (1895-1897, pubbl. 1907) nella sua catabasi urbana, al Dyson di La luce interiore, che vede nella capitale “il più grande soggetto che mente umana possa concepire. […] Vede, a volte mi sento disarmato al pensiero dell’immensità di Londra, della sua complessità. Con ragionevole sforzo si può capire Parigi, ma Londra no, Londra resterà sempre un mistero”.

Ma nelle pagine che andrete a leggere il soggetto non è soltanto la pur emblematica Londra. Parte infatti nientemeno che dal Bosforo di Pierre Loti il primo contributo di questa raccolta, l’articolo The Ugliness of Modern Life – La bruttezza della vita moderna di Ouida (all’anagrafe Maria Louise Ramé, 1839-1908), prolificissima e oggi quasi dimenticata scrittrice inglese che ebbe però la stima di Oscar Wilde, morì a Viareggio e fu sepolta a Bagni di Lucca, dalla sua raccolta Critical Studies, T.F. Unwin 1900: e da quel fronte esotico si avventura in una serie di speculazioni sul rapporto tra modernità & cinica indifferenza alla bellezza. Con le sue riflessioni a volte interessanti e controcorrente, a volte discutibili o (ci pare) sgangherate, una libera battitrice come Ouida è forse emblematica della fatica di un’epoca a focalizzare problemi su un fronte tanto ampio, uscendo da soggettivismi e limiti di strumenti d’analisi: una fatica che, senza concederci alibi, fa meglio comprendere resistenze e ritardi in una percezione collettiva anche molto più recente.

Così un certo passatismo dell’autrice risulta simpatico dove contesta le crudeltà sugli animali, gli orrori dell’inquinamento industriale e gli sconci paesaggistici un po’ in tutto il mondo, le sirene svianti di un commercio cieco e avido e del militarismo imperante, nonché l’eccesso di ordine, “sicurezza” e uniformità (“La polizia è ovunque […] mentre fuori casa i ragazzi e le ragazze non devono cantare o ballare, il cane non deve giocare o abbaiare, la sedia non deve spiccare sul marciapiede”) – anche se poi biasima i verdetti troppo miti dei tribunali. Per contro forzate e datatissime sono altre sue valutazioni, scandalizzate e tonitruanti quanto confusive: come la stroncatura dell’arte moderna in generale, la miope ed elitaria critica al fatto che i bambini siano spinti a disegnare, lo sdegno sulla postura antiestetica sui mezzi di locomozione (a due ruote, soprattutto)… Per non parlare del suo grottesco Medioevo idealizzato alla Walt Disney, della guerra di una volta piena “di colore e di sfarzo”; o dell’imputazione dei frequenti traslochi della “maggior parte delle persone del ceto borghese e della classe operaia” a una deprecabile incapacità di capire il valore di una casa – laddove le cause sembrano ben più concrete e drammatiche, specie per i ceti più bassi. Del resto superficialotto è il suo giudizio sulla Comune di Parigi e in generale sul socialismo – a dimostrare, se mai ve ne fosse bisogno, quanto la cifra dell’antimodernismo resti in sé ideologicamente equivoca.

“Penso che non ci sia dubbio che la bellezza fisica stia degenerando rapida, e la frequenza con cui si vede la bocca scrofolosa nei bambini, anche nei bambini degli aristocratici, è allarmante per il futuro della specie”, il che Ouida imputa – non senza alcune ragioni – all’inquinamento: ma certo le preoccupazioni eugenetiche fanno avvertire non distante il Max Nordau di Entartung, 1892. Del resto, nella “Canaglia che si precipita con un urlo stridulo di risate quando colpisce e getta a terra una donna debole o un bambino piccolo” sembra di ritrovare le brutalità del signor Hyde di Stevenson (1886), lui pure ipoteticamente frutto degli ultimi pericolosi studi scientifici. E il dottor Moreau di Wells è appena un passo in là.

L’autrice torna sul tema in un articolo, The Streets of London La bruttezza di Londra. Un appello per le strade belle (inizialmente su Women’s World  data incerta ante 4 settembre, più avanti sul Western Star 8 dicembre 1888), dove interviene con proposte e censure su temi della vita urbana. Ed è interessante ricordare quanto una narratrice popolare quale Ouida, per quanto anticonformista, possa restituire l’eco di discorsi diffusi all’epoca tra persone molto più convenzionalmente allineate.

In ogni caso a rispondere a Ouida è una voce eccellente, William Morris, con il pezzo Ugly London – Londra la brutta (Pall Mall Gazette 4 settembre 1888): dove cerca di affinare la discussione. Che Londra sia brutta, sia scoraggiante (“C’è, davvero, come dice Ouida, qualcosa di mortificante e scoraggiante nella bruttezza di Londra; altre città brutte possono essere più minacciose e feroci nella loro crudeltà, ma nessuna è così disperatamente malmessa, così irrimediabilmente volgare come Londra”), non ci sono dubbi; e Morris si limita a qualche suggerimento che però – ne è cosciente – resta un palliativo. Ma è importante capire la chiave sociale: la bruttura della Londra Ricca deriva in modo diretto dal furto organizzato e legalizzato ai danni della Londra Povera. E di qui, se vogliamo, l’urgenza dell’utopia della Bellezza coltivata da Morris con il suo progetto Arts and Crafts: dove il recupero di istanze di bellezza proprio dal medioevo – ma istanze reali, non stereotipo di maniera, con cui portare bellezza nelle case non dei soli straricchi –, e il riconoscimento di una dignità artistica di buoni artigiani con lo sviluppo di una peculiare poetica delle arti applicate, muovono nel segno di un tentare pace con l’ambiente in modo creativo e illuminato. Certamente non può bastare, ma resta uno degli esempi più alti prodotti su questo fronte nell’Inghilterra vittoriana.

Dalla constatazione dei guasti della modernità e particolarmente in quella capitale che ne è quasi un simbolo, promana la seconda interessantissima sezione, Urbanizzazione e cambiamenti climatici, che vede in primo piano il fenomeno London Fog. Un fenomeno allarmante, presentato da uno scritto di Thomas Miller, London FogLa nebbia di Londra (Picturesque Sketches of London Past and Present, Office of the National Illustrated Library, 1852) come “una concentrazione di zuppa di piselli gialli, densa quel tanto che basta da farsi attraversare senza rimanere del tutto sommersi o soffocati”, che costringe ad accendere le luci e causa surreali incidenti. L’evocazione dei medesimi, in particolare nei quartieri sul Tamigi, è condotta con piglio d’ironia atroce alla Hogarth, ma l’enfasi non toglie nulla alla gravità del quadro.

Non stupisce che il pezzo seguente sia un vero e proprio racconto distopico, in qualche modo di fantascienza: The Doom of LondonLa tragica sorte di Londra di Robert Barr (The Idler, novembre 1892, poi nella raccolta The Face And The Mask, 1894). Barr (1849-1912) è un novellista scozzese-canadese trapiantato a Londra, autore di storie umoristiche, poliziesche e del sovrannaturale, amico di Stephen Crane e Conan Doyle (di cui però parodia l’arcidetective nelle avventure di Sherlaw Kombs). In questo caso è in scena una vicenda catastrofistica proprio incentrata sul tema della nebbia soffocante, chiamiamola pure smog: un testo che è di estremo interesse paragonare al successivo della raccolta, The Doom of the Great City; Being the Narrative of a Survivor, Written A.D. 1942La Tragica Fine della Grande Città del micologo e narratore William Delisle Hay (ca. 1853-1885: in volume, Newman and Co. 1880). Anche i titoli originali sono simili, citando entrambi il Doom/destino, ma quello di Hay è precedente di dodici anni: il sospetto è che Barr possa conoscerlo ma, con il suo racconto più neutramente catastrofistico, preferisca smarcarsi dai toni ideologici e moralistici del predecessore. Hay è in effetti un personaggio un po’ particolare, mixa nei suoi testi fantascientifici confusi conati socialisteggianti e spiacevoli posizioni da suprematista bianco. Il suo testo qui presentato è stato considerato il primo racconto moderno di apocalisse urbana, sull’onda della grave crisi d’inquinamento del 1873: ma l’autore vi vede una sorta di punizione per la depravazione della “Grande Città”, una Londra-Babilonia dove la disonestà regna nel lavoro, i poveri sono oppressi, una Chiesa ingiusta benedice lo stato delle cose e la depravazione trionfa, in un meretricio dilagante. A castigare tanta corruzione è la nebbia, che inevitabilmente colpisce anche gli innocenti…

La sezione successiva, La natura tra urbano e rurale, riconduce idealmente a un altro degli spunti di Ouida: e un eccellente punto di partenza è il pezzo Town and CountryCittà e campagna di Morris (The Journal of Decorative Art, aprile 1893), che rendendo più dialettica la contrapposizione, ne affronta una rapida disamina storica. Puntualizza così come a un certo punto il discrimine non sia più stato “tra le città e le campagne, ma tra Londra e il resto del paese, tra le città e il resto” – e il discorso torna a Madre Londra, come la chiamerà Michael Moorcock. Sottolineando anche la complessità del quadro:

 

Per ora si comprende che abbiamo tre cose da affrontare: Londra, la brutalità e la sordidezza apparenti che la vita intellettuale in qualche modo compensa; gli snodi commerciali, che non hanno una tale compensazione, e anche in apparenza sono ben più orrendi di Londra; e il paese, che, invece di essere il giusto compagno e aiutante delle città e della Città, è un’appendice fastidiosa, un incidente imbarazzante della vita cittadina, commerciale o intellettuale, che è la vita reale del nostro tempo.

Il risultato di tutto ciò è la solita confusione arrabattata che opprime l’intera vita di questo tempo di strano e rapido cambiamento, se siamo precipitati in un così angoscioso bisogno di organizzazione ragionevole. Anche Londra, di gran lunga migliore delle città commerciali, è volgare in modo meschino nei quartieri ricchi, fetida e squallida in modo indicibile nei quartieri poveri. E il paese – in questa fine di maggio non dirò che non sia bello – bello più o meno dappertutto dove non ci sono molte case moderne all’orizzonte. Ma conosco bene il paese: e anche per un uomo ricco, un uomo benestante perlomeno, il paese si lascia coinvolgere dalla stupidità arrabattata del tempo. Fra tutta la bellezza soverchia di foglie e fiori, tutta la ricchezza di prati, e terreni, e colline, è avaro, oh così avaro!

 

Il vero Ebenezer Scrooge sembra doversi insomma individuare in questo tessuto di rapporti, che vedono sacrificata al soldo ogni istanza di bellezza. Ma Morris non si ferma alla lamentela e ci parla di come vorrebbe riformata la città, anche in vista di un futuro migliore.

Una sorta di diritto di replica è concesso a Ouida con il brano GardensGiardini (Views and Opinions, 1895), a celebrare il gusto del giardino privato, luogo del pensiero e del sentimento, contro i giardini e parchi pubblici: raccomandando di non eccedere in “pulizie” (“Il giardino, come una donna può essere troppo pulito, troppo freddo, troppo tiré à quatre épingles”), l’autrice vede il giardino ideale in quello di Corisande, nel Lothair di Disraeli, politico celebre ma in precedenza dandy e autore di fiction alla moda, e si mette a ragionare sui migliori accostamenti di piante e sulla tradizione inglese dei giardini. Di nuovo si può discutere sulle affermazioni della Nostra ove polemizza contro “tutto il ‘realismo’ delle esistenze dei poveri [che] si giudica in base a squallore, carestia, crimine, ubriachezza e invidia” – in un’apparente incomprensione del fatto che i “poveri” non si scelgano da soli simili inferni,  che quelli costituiscano il frutto di non casuali contingenze di classe e che i romanzieri non inventino nulla. Basti vedere la documentazione fotografica sulle stanze dormitorio dei bassifondi dove la gente dorme seduta sostenuta da una corda: c’è allora poco spazio per pensare agli idilliaci cottage fioriti di rose di gente pur semplice descritta dall’autrice. Lodevole l’insegnamento ai piccoli dell’amore per i fiori, “Non bisognerebbe mai permettere ai bambini di cogliere i fiori, nemmeno nei campi e nelle siepi, soltanto per buttarli via; bisognerebbe insegnare loro grande rispetto per la bellezza floreale che li circonda”; per contro vivaci – e comprensibili – critiche riguardano lo spreco di fiori nelle case dei nobili e nelle chiese. In generale apprezzabile è il senso del colore e la documentazione d’ambiente nelle pagine di Ouida, pur appesantite da brontolii e comunque non troppo illuminanti dal punto di vista dell’analisi sociale.

Di altro livello, per qualità stilistica e intensità lirica sono le pagine che seguono: il piccolo gioiello In the Botanical GardensAi giardini botanici di Katherine Mansfield (1888- 1923: con lo pseudonimo di Julian Mark, è il suo primo racconto pubblicato a 19 anni, 1907); la visione Dame NatureLa Signora Natura della scrittrice e naturalista scozzese Elizabeth Brightwen (1830-1906: da More about Wild Nature, T.F. Unwin 1893); il vividamente pittorico Where The Forest MurmursDove mormora la foresta di Fiona MacLeod (pseudonimo ma vero e proprio “secondo sé” di William Sharp, 1855-1905, autore di notevole interesse spentosi in Italia a Bronte nel Catanese: da Where The Fortest Murmurs. Nature Essays, R. & R. Clark, 1906) coi suoi bozzetti invernali poeticamente documentaristici. Le stagioni come punto d’osservazione emergono con passo insieme letterario e rigorosamente scientifico anche in The Biology of AutumnBiologia dell’autunno del naturalista scozzese Sir John Arthur Thomson (1861-1933: da The Evergreen A Northern Seasonal. The Book of Autumn, T.F. Unwin 1895). Nell’età vittoriana schiere di studiosi gentiluomini – zoologi, botanici, esploratori, entusiasti a vario titolo – mostrano così di affrontare il mondo della natura con sguardo elegantemente elegiaco e insieme puntuale sui dati scientifici, ma senza immaginare le crisi che un secolo dopo vedranno gli assetti da loro celebrati esposti a rischi radicali.

Il frutto dell’interpretazione essenzialmente patriarcale offerta da gran parte di loro – emblematici gli studi di Bram Dijkstra sulle letture artistiche d’epoca sulla Donna, supportate da un impressionante bacino sessista di convinzioni spicciole e pretese verità scientifiche – verrà ridiscusso in tempi più recenti dalla cosiddetta queer ecology, con la denuncia del predominio del maschile su natura e femminile. Cui è dedicata l’ultima sezione: anche qui, il pregio della raccolta è di scelte per nulla banali e scontate.

Si parte dunque con un testo narrativo, il racconto Pan di un’autrice notevolissima, George Egerton (all’anagrafe Mary Chavelita Dunne Bright 1859-1945) tratto dalla raccolta Symphonies, John Lane 1897. La vicenda si ambienta non in Inghilterra, ma nel coevo mondo basco machista e brutale dei Bassi Pirenei: qui il richiamo dell’uomo capra suonato a una gara di ballo avrà conseguenze sessualmente esplosive e tragiche. A far esplodere la situazione non stupisce che una scrittrice come Egerton, associata almeno agli inizi a un certo orizzonte decadente attraverso marcatori emblematici come le illustrazioni di Aubrey Beardsley, convochi in scena quella divinità della natura scatenata – pulsioni comprese – che in tale arco di decenni conosce un allegro ritorno: si pensi solo a Machen (The Great God Pan, 1894), al romanzo di Knut Hamsun (Pan, 1894), a The Blessing of Pan di Lord Dunsany (1927), a The Goat-Foot God di Dion Fortune (1936) e allo stesso Peter Pan di Barrie, per non parlare dell’attenzione offertagli da pittori, filologi come Wilhelm H. Roscher (poi ricordato da James Hillman nel suo Saggio su Pan) e storici delle religioni come Sir James George Frazer. La fisionomia spiazzante ed eversiva di Pan permette richiami alla natura non mansueti o manieristici, e il significato del suo nome – “il tutto” – svela alle sue evocazioni connotati di spiazzante latitudine.

Un secondo racconto, il bellissimo The Music on the HillLa melodia sulla collina (dalla raccolta The Chronicles of Clovis, John Lane 1911), è pure di firma celebre, Hector Hugh Munro noto come Saki (1870-1916), e pure torna a Pan, con il misto di macabro e ironia caro all’autore. In questo caso il devoto al dio pagano è l’uomo, ma la protagonista ha fatto proprio il sistema di un mondo patriarcale. Con risultati di cui dovrà dolersi…

Mentre il terzo, Miss  Ormerod (The Dial, 1924) di Virginia Woolf è ispirato a un personaggio autentico, l’entomologa Eleanor Ormerod (1828-1901): non sposata e a sua volta perfettamente integrata nella società patriarcale dell’epoca – con una scienza saldamente in mano agli uomini – non mostrò mai interesse a criticare tale assetto. Virginia Woolf ne offre un ritratto scintillante, gustosamente ironico e spiritosamente convenzionale. “Sotto il microscopio si percepisce chiaramente che quegli insetti hanno organi, orifizi, feci; e, sottolineo, copulano”: a richiamare a una delle dimensioni di natura più essenziali e in fondo più provocatorie per un certo orizzonte sociale. Ma senz’altro soggetta al ministero di Pan.