di Maurizio Marrone

Riccardo Tontaro, Silenzio imperfetto, Funambolo edizioni, 2023, pp. 128, € 16,00.

Nina ha trentatré anni, non parla e da tempo immemore è rinchiusa in manicomio. Un agnello sacrificale, tra tanti altri come lei, immolati sull’altare del decoro da una società bigotta e imbrigliata nelle maglie ripugnanti del pregiudizio. Siamo nel 1976 e, dal suo eremo coatto, Nina si racconta nelle pagine di un diario lieve e amaro, ritrovato in un futuro imprecisato dal suo nuovo medico. Un diario scritto in poco più di una settimana, nel quale il tempo si contrae e si dilata fino a contenere un’intera esistenza.

Era una bambina intelligente Nina, vivace e curiosa, nata il 4 marzo del 1943 e cresciuta nell’Italia rurale del dopoguerra, un paese mutilato dall’orrore, dove la povertà e la fatica erano norma di vita. La sua infanzia, comunque allegra e spensierata, si incrina quando, ad appena sei anni, il “Barone”, padrone della terra e delle anime che vi lavorano con la schiena incurvata, la reclama come figlia propria. Perché il privilegio è uno stupratore che adora indossare la maschera ipocrita del diritto. Nella casa del padrone Nina ci sta male, le manca la mamma, si sente prigioniera o, nel migliore dei casi, semplicemente tollerata. Per fortuna c’è il nonno, un uomo colto e gentile che vive la presenza di questa nuova nipote come un dono inaspettato. Un uomo che non ha mai barattato l’empatia con il moralismo, cha la ascolta, la capisce e la inizia alla lettura. Perché a Nina piace scrivere e piace leggere. Da adolescente è travolta da un amore proibito per una sua coetanea; un amore impossibile che nel paese in cui vive si trasforma presto in ludibrio, disprezzo e stigma d’infamia. Lesbica, invertita, degenerata. Il nonno lo sa e lascia, nonostante tutto, che quell’amore sia. Poi, quando Nina ha quindici anni, il nonno muore e tutto deflagra. Sotto un diluvio che è presagio del collasso che sarà, Nina si getta nel fango della tomba ancora aperta e strepita il suo rifiuto di accettare il tempo che si porta via la vita. Non ci saranno più strepiti né parole per lei e, di lì a qualche mese, viene internata lassù, nella casa dei matti dove, dopo più di diciotto anni, ancora si consuma la sua ribellione afona. Sullo sfondo si intravedono letti di contenzione, elettroshock, violenza gratuita e la figura lucente e ribelle del suo nuovo dottore; un bel giovane di nome Franco, che le chiede di accompagnarla al mare, chiama “maledetti” gli infermieri che la legano, le regala dei libri e consegna al lettore le pagine del suo diario. Impossibile non riconoscere nella figura del medico rivoluzionario un omaggio a Franco Basaglia che, ovviamente, nel 1976 non era né giovane né alle prime armi ma che, al contrario, era già uno psichiatra di fama mondiale e che, di lì a due anni, con l’approvazione della legge 180, avrebbe messo per sempre la parola fine all’inferno in terra dei manicomi di stato.
Di Nina, altro non è dato sapere. Forse è scappata o forse è tornata alla parola e alla vita, tratta in superficie da un ricordo mai sopito.

Questo quanto al passato. Ma nel diario di Nina il tempo imperfetto dei ricordi si intreccia con il tempo presente del suo vissuto quotidiano, fatto di fughe e ritorni ma, soprattutto, di un denso monologo interiore che è il vero cuore pulsante del libro.
Nina è vittima due volte: del mondo, che ha preso il suo dolore e lo ha gettato come un panno sporco nel miasma dannato e irredento del manicomio, e della sua ribellione che, rifiutando il mondo, ha consegnato al silenzio il suo futuro. Il suo disagio è frutto di questo intreccio perverso e indissolubile che la paralizza e la tiene incatenata a un tempo immobile. Eppure, dall’osservatorio coatto della sua prigione muta, è come se Nina fosse sempre davanti allo specchio. Si scruta, sonda il suo sguardo sul mondo, pone domande e, senza alcuna clemenza, viviseziona pagina dopo pagina la genealogia di uno spaesamento antico che è il semplice non poter dar conto dell’esserci, qui e ora.

Questa radice, inzuppata d’acqua e d‘esistenza, è soffocata tra i sanpietrini ma, ciononostante, resistente. Se solo qualche giorno fa qualcuno m’avesse chiesto che cosa è l’esistenza, avrei risposto che non è nulla, che è qualcosa di immaginario che si connette alle cose senza modificare il loro essere. Invece ora la percepisco chiara questa esistenza: è qui, tutt’altro che astratta. È qui come dovunque, anche in questa radice, impastata insieme all’acqua e alla terra. Ogni cosa, ogni essere animato e inanimato, si lascia andare all’esistenza. Io no, in mezzo a tutta questa indebolita moltitudine, no, mi sento in eccedenza, di troppo.1

Il non lasciarsi andare all’esistenza avvertendone l’eccedenza non è altro che la Nausea di Sartre declinata in altra forma. Non è difficile, infatti, ritrovare alle spalle di Nina la sagoma sfuocata, ma riconoscibile, di Roquentin che annuisce con un sorriso appena abbozzato. Perché le domande che Tontaro innesta nel suo personaggio, che lo paralizzano e lo inchiodano davanti allo specchio della sua mente inquieta, sono le domande fondanti della riflessione esistenzialista sulla natura del tempo e della morte.

Cosa palesa il crescere, se non rimandare, appassire, vedere morire? Che il tempo sgattaiola, frattanto, disertandosi da solo, inesorabile.2

E a nulla vale il tentativo di sfuggire a questa ineluttabilità attraverso il potere taumaturgico del racconto. Nina lo sa ma è incapace si evadere dalla prigione che le sue stesse domande le hanno eretto intorno.

Un’idea, come fosse un brutto gattaccio arruffato, rannicchiato sopra un cumulo di lische in un angolo buio qui dentro, sembra dirmi qualcosa…
Ma è davvero questo quello che vuoi? Racconti, non vivi. Stai solo ingannando te stessa. Nessuno può volere indietro ciò che racconta: se si ha qualcosa è solo ciò che si vive ora. Che già ora, capiscilo, quell’ora è già finito.
Hai ragione.
Cerco di vivere la mia vita come se la raccontassi.3

Silenzio Imperfetto di Tontaro si inscrive nel perimetro dei molti libri, usciti nel recente passato, dedicati al disagio psichico. Dal celebrato – e forse sopravvalutato – Tutto chiede salvezza di Daniele Mencarelli,4 al meno celebrato – ma sicuramente più interessante – Beati gli inquieti di Stefano Redaelli5. E lo fa in punta di piedi, con una scrittura leggera ma ben calibrata e, a tratti, misuratamente evocativa, grazie alla quale, la ricomposizione quasi pudica del passato si fonde con la brutale monotonia allucinata dell’internamento. Ma oltre a questo, che comunque fa del Silenzio Imperfetto un libro che merita di essere letto, c’è qualcosa di più profondo e inquietante: perché alla parsimonia del racconto, a tutto ciò che è suggerito ma non detto, fa da controcanto una riflessione, quasi urlata, nella quale la voce nitida e perentoria di Nina, pur muta, ci sbatte in faccia, senza filtri, il disagio primigenio dell’esser gettati nell’esistenza.
Non so se, come fa Cormac McCarthy nel Passeggero,6 dobbiamo domandarci se il senso autentico della carità umana sia quello di salvaguardare i matti. McCarthy, si sa, è un esploratore del limite e un acrobata dell’iperbole. Tuttavia, in un mondo nel quale il consumo nell’effimero ha soppiantato il tempo lento del pensiero, fermarci con Nina a riflettere sul senso del nostro non sentirci a casa può essere un buon modo per prenderci cura dei frammenti dispersi di ciò che siamo.

Allora metto in salvo le mie cose, a una a una, prima che il nubifragio le affoghi: il taccuino del nonno, la penna per scrivere i miei pensieri, i bei libri da leggere, la buona musica da ascoltare, i piedi dell’andata e del ritorno e tutte le scuse per le parole che non ho più da dire. L’essenziale è la circostanza, è come l’esistenza, e essere qui, ora, senza sentire il bisogno di nessuna necessità.7


  1. Riccardo Tontaro, Silenzio imperfetto, Funambolo edizioni, 2023, p. 113. 

  2. Ivi, p. 119. 

  3. Ivi, p. 73. 

  4. Cfr. Daniele Mencarelli, Tutto chiede salvezza, Mondadori, Milano, 2022. 

  5. Cfr. Stefano Redaelli, Beati gli inquieti, Neo Edizioni, 2021. 

  6. Cfr. Cormac McCarthy, Il passeggero, Einaudi, 2023. 

  7. Riccardo Tontaro, cit., p. 119.