di Francisco Soriano

Nel 1987 fu conferito il premio Nobel per la letteratura a Iosif Brodskij. Il discorso fu tenuto davanti ai membri dell’Accademia svedese ed è stato pubblicato in una raccolta con il titolo: Un volto non comune (Edizioni Adelphi – Dall’Esilio; Milano, 2024). Un testo intenso e profondissimo in difesa della funzione della letteratura e della poesia, non concepite in una banale dimensione salvifica dell’Umanità, ma come acceleratrici della coscienza, del pensiero e della comprensione dell’universo.

Le vicissitudini di questo straordinario scrittore rimasero per sempre e indissolubilmente sullo sfondo della produzione letteraria e poetica. La sua intera esistenza ebbe come prassi, nella vita quotidiana, un’intima dedizione allo studio e alla scrittura: una scelta perseguita con caparbietà anche negli anni in cui subì una feroce persecuzione in patria. L’accusa principale perpetrata nei suoi confronti negli anni ’60, da parte delle autorità sovietiche, fu quella di essere ritenuto colpevole di parassitismo sociale. Secondo la testimonianza di uno dei numerosi accusatori-delatori durante il processo, Iosif Brodskji si distingueva per il suo distacco dal mondo, la propensione alla pornografia e, infine, la totale mancanza di sentimenti per la propria nazione, tanto da risultargli straniera. Il processo, il conseguente confino all’estremo nord nella regione di Archangel’sk e l’esilio negli Stati Uniti nel 1972, presso Ann Arbour nel Michigan, resero Brodskij un esule spesso oggetto di morbosa curiosità.

Fu proprio la condizione di esiliato che lo spinse più volte a cercare approdi solitari, in una vera e propria strategia che lui stesso definirà come l’arte di estraniarsi: una dimensione di misantropia a oltranza nei confronti di un mondo guardato, talvolta, con duro disprezzo. È inconfutabile che la sua idea fondante fortemente improntata all’individualismo più estremo, senza possibilità di negoziazione (la convinzione che ogni persona sia espressione unica e inderogabile di una propria identità diversa da quella di tutti gli altri: un valore da perseguire fino alle estreme conseguenze), sia stata la causa scatenante nell’individuare, in Brodskji, un esempio di disoccupato disfattista, nullafacente, un sabotatore impossibile da rieducare secondo un sistema di valori collettivisti. Lo scrittore non poteva e non voleva perseguire i dettami dinamici della Rivoluzione comunista, tantomeno assurgere alla funzione di intellettuale militante: Un’opera d’arte, in special modo un’opera letteraria, e una poesia in particolare, si rivolge all’uomo tête­-à-­tête, stabilendo con lui rapporti diretti, senza intermediari di sorta. […]. È sulla base di queste visioni e della vita vissuta come testimonianza, che bisogna concepire e discorrere della persona e dell’intellettuale in quanto tale.

La lettura del testo su La condizione che chiamiamo esilio pone il lettore nel perimetro di un disagio che si avverte e si sente, a tratti, in modo eclatante. È il tema dell’esilio-migrazione che trascina inesorabilmente chi legge in un sentimento, piuttosto uno spazio, di perenne e inguaribile dimensione di instabilità. Lapalissianamente, si è stranieri quando si abbandona la propria origine e la cui identità è caratterizzata dalla lingua di appartenenza. Quando si viene catapultati in una nuova dimensione che metta in discussione la funzione e il significato della persona in quel contesto del tutto nuovo e, per certi aspetti, incomprensibile, l’unica soluzione al disagio sembra risiedere nel ritorno alla lingua madre: La condizione di uno scrittore in esilio somiglia a quella di un cane o di un uomo catapultato nello spazio dentro una capsula […]. E la tua capsula è il tuo linguaggio. […] Per uno che fa il mio mestiere la condizione che chiamiamo esilio è, prima di tutto, un evento linguistico: uno scrittore esule è scagliato, o si ritira, dentro la sua madrelingua. Ormai esule, Brodskji si dedicò completamente alla poesia e allo studio della lingua inglese. Immergersi in questa lingua nuova non ebbe, semplicemente, finalità di carattere pratico, ma fu un notevole sforzo affrontato per fortificare un sentimento di vitale appartenenza alla realtà e conciliare il senso e la funzione della propria esistenza all’interno di una situazione ambientale naturalmente sconosciuta: Quando uno scrittore ricorre a una lingua che non sia quella materna può farlo per necessità come Conrad, o per una divorante ambizione, come Nabokov, o per arrivare a un estraniamento più profondo, come Beckett. […] Il mio unico intento era, allora come adesso, di ritrovarmi più vicino all’uomo che consideravo la più grande mente del ventesimo secolo: Wystan Hugh Auden.

Nonostante le difficoltà incontrate da una sensibilità epidermica come la sua e con la necessità di ingaggiare una forma di sopravvivenza (almeno all’inizio dell’esilio), dignitosa e fuori dal campo dell’esule perseguitato (Brodskji non desiderava affatto vivere in questa dimensione e farsi riconoscere solo in quanto tale) egli asseriva, comunque, che era meglio essere l’ultimo dei falliti in una democrazia che un martire o la crème de la crème in una tirannia. In fondo, neppure la parola esilio poteva più essere percepita come la condizione di uno scrittore costretto da uno Stato, dalla miseria o da altro, ad abbandonare il proprio Paese. Questo perché subito dopo il distacco e la partenza, l’esilio diviene inesorabilmente altro: esso imprime un’enorme accelerazione al volo – o alla deriva – che già per motivi professionali ci porta verso l’isolamento, verso una prospettiva assoluta; verso la condizione in cui tutto quel che resta a un uomo è lui stesso e la sua lingua, senza più nessuno o nulla di mezzo. L’accentuazione del carattere individualistico dello scrittore viene determinato dall’idea che, se l’arte insegna qualcosa, questa è proprio la dimensione privata della condizione umana. Per Brodskji l’arte stimola nell’uomo, volente o nolente, il senso della sua unicità.  L’idea di un individualismo così assoluto e totalizzante rimarrà, per sempre, incuneato in ogni sua dissertazione, scritto in prosa o poesia. La sua era una modalità deliberata e argomentata di sfuggire a ogni condizione esistenziale che si basasse sul concetto dell’uomo come animale sociale. Infatti, per lo scrittore, l’arte è l’elemento stimolatore per eccellenza, non un medicinale né un approdo, è lo stimolo e il senso della propria unicità, della separatezza, dell’Io autonomo.  

È da questo postulato che Brodskji spiega politicamente il ruolo e il significato della poesia, ancor più di quello che accade con la prosa: ne definisce le caratteristiche e conclude quanto, a tutti gli uomini di potere, essa è seriamente invisa. La poesia è odiata, ostacolata dai paladini del bene comune, osteggiata dai padroni delle masse, tacitata dagli araldi della necessità storica: In altre parole, all’interno di quei piccoli zeri sui quali i paladini del bene comune e i signori delle masse fanno conto per le loro operazioni, l’arte introduce delle varianti, “punto, punto, virgola, meno”, trasformando ogni piccolo zero in un piccolo volto, non sempre grazioso, magari, ma umano. La radicalità di questo pensiero lo avrebbe condotto in quel luogo immaginario e immaginato dove, finalmente, la poesia e lui stesso avrebbero trovato residenza.

Dunque, il poeta senza mai cedere a lusinghe e comportamenti compiacenti, talvolta durissimo e intemperante anche nei confronti dei suoi interlocutori-intervistatori, chiarisce che è assolutamente inutile ricercare e catalogare un poeta in ideologie o convinzioni politiche e religiose, perché egli è inesorabilmente e naturalmente, per sempre, un esule. Per questo motivo la lingua diviene lo spazio abitato per eccellenza, il riferimento fisico e intellettuale delle sue vicissitudini e della sua arte, il suo esistere e il suo esserci. È così che Brodskji rifugge dalla definizione-dimensione di dissidente con gli strumenti che a lui sono più congeniali: il linguaggio e la scrittura. Senza alcun dio a cui riferirsi, lo scrittore affermava in una intervista del 1979 pubblicata su The Paris Review, che se esiste una divinità, questa è il linguaggio. La lingua è il centro e il fulcro del tutto, la sua unicità sembra riassumere il molteplice, ricondurci all’essenzialità della vita. È la questione nodale che rende questo poeta così originale e carismatico nel mondo della letteratura e della poesia: Non hai nessuna immagine in testa, e a essere sincero non hai nemmeno nulla da dire. Le immagini e tutto il resto sono suggerite dalla lingua, nel suo processo di dispiegamento. Il dispiegamento, dunque, non ha nulla di “magico”: è niente altro che una forma di attraversamento, reale e immaginifico allo stesso tempo, in cui il poeta-scrittore sembra essersi immerso come un artefice invincibile. Una soluzione proposta da Brodskji che lascia riflettere sull’elemento intimamente permeante del linguaggio, che appare procedere in un proprio cammino di definizione del mondo in parole, visioni, accadimenti reali, infine, in immagini. La lingua è dunque una forma sonora, poi visiva, mentalmente determinante nelle visioni non solo oniriche e immaginifiche per l’uomo: è inestinguibile e invincibile. Intimamente legati da un filo rosso, linguaggio e libertà sembrano essere punti cardinali a cui riferirsi su tutti i fronti. Ma la libertà non ha senso sul piano delle forme metriche e della prosodia, dove gli scrittori appaiono circoscritti in una cornice delineata: nessun confine nei loro orizzonti, ma interpreti animati dai cosiddetti magneti spirituali che, altro non sono, se non una connessione fra il pensiero dell’autore e quello di coloro i quali vengono dopo.

L’incompreso Evgenij Abramovič Baratynskij fu, probabilmente, un riferimento poetico e stilistico ineludibile per Brodskji. Nel su citato discorso a Stoccolma, quest’ultimo asserisce che Baratynskij, discorrendo della propria Musa, le attribuiva un volto non comune. Questo meraviglioso quanto essenziale paradigma è per molti aspetti il centro-motore della poesia stessa, la ricerca ineffabile che ci conduce fuori dall’ordinario, in quella originale eccezionalità delle cose del mondo. Intravedo, in questo caso, punti di contatto con la poesia romanza: avanguardia e modernità di un canone poetico pregno di contenuti, insieme determinanti per le sorti di tutta la produzione poetica dei secoli a venire. Non a caso, Brodskji ci parla del volto non comune come forma di acquisizione del significato dell’esistenza umana, poiché a questa singolarità siamo predisposti, per così dire, geneticamente. Il poeta, però, avverte: guai a vivere una vita come un semplice epigono di qualcuno o di qualcos’altro, smarrendo la certezza della propria unicità e della conseguente possibilità di autodeterminarsi in ogni espressione esistenziale. Le imposizioni esterne risultano essere tossiche e prescritte, inutili, rappresentando un vero e proprio spreco per la propria vita. Tutto ciò che risulta essere tautologia e ripetizione, attiene alla sfera del potere: sono la letteratura e la lingua le cose più antiche e inevitabili, più durevoli di qualsiasi forma di organizzazione sociale. Da queste parole comprendiamo definitivamente l’inconciliabilità del pensiero brodskjiano con la prassi sovietica degli anni del comunismo stalinista. Finalmente si definisce, in modo chiaro, il messaggio politico del poeta russo che asserisce con assoluta legittimità che, il disgusto, l’ironia o l’indifferenza che la letteratura esprime spesso nei confronti di uno Stato sono in sostanza la reazione del permanente, dell’infinito, nei confronti del provvisorio e del finito. In questa solare definizione si intravede un concetto davvero affascinante, un aspetto del pensiero di questo immenso poeta che varrebbe la pena discorrere in ogni contesto pedagogico. L’anarchismo concettuale di Brodskji, in questo caso, diviene evidente e incontenibile, per ragioni e logica, quando asserisce che un sistema politico, una forma di organizzazione sociale, come qualsiasi sistema in genere (dunque non si parla solo dell’autoritarismo stalinista di cui fu vittima), è per definizione una forma del passato remoto che vorrebbe imporsi sul futuro; e chi ha fatto della lingua la propria professione è l’ultimo che possa permettersi il lusso di dimenticarlo.

Iosif Brodskji è, dunque, consapevolmente determinato nell’affermare il primato della lingua e della letteratura nelle faccende del mondo, sostenendo che, se lo Stato si permette di immischiarsi negli affari della letteratura, la letteratura ha il diritto di immischiarsi negli affari dello Stato. Un teorema che non farebbe piacere a nessun interprete, in nessun tipo di sistema politico, ancorché autoritario o addirittura totalitario, nella consapevolezza che uno scrittore corre un pericolo gravissimo non semplicemente nella persecuzione che subisce da parte di uno Stato, quanto la possibilità di farsi ipnotizzare dalla fisionomia dello Stato (che può essere mostruosa o può cambiare verso il meglio ma rimarrebbe provvisoria). La definizione che si dà di uno Stato, eticamente, consiste nel considerare cronologicamente la sua essenza: sempre proiettato in un passato, declinato e votato a ciò che è ormai ieri. Al contrario, la lingua e la letteratura sono sempre oggi, e spesso (specialmente nel caso in cui un sistema politico sia ortodosso) possono costituire, addirittura, il domani. Il punto è quale vita un uomo intende interpretare, se nella ripetizione, nella tautologia, nelle dinamiche che lo condurrebbero a essere un epigono di qualcuno o qualcosa, oppure compiere una scelta coraggiosa, come imbracciare le armi dell’arte, della letteratura, della poesia: neppure più ci si salva rifugiandosi nell’individualità dell’artista, ormai superata dalla dinamica e dalla logica del materiale stesso, dal precedente destino dei mezzi che ogni volta esigono una soluzione estetica qualitativamente nuova.

A questo punto, la lamentazione del poeta diventa plausibile, oltre la stessa legittimità della questione, quando egli stesso sottolinea quanto ai suoi tempi, è piuttosto diffusa l’idea che uno scrittore, in particolare un poeta, debba usare nella sua opera, la lingua della strada, la lingua della folla. Brodskji parla dell’apparente democraticità e dell’intento, certo, di voler subordinare l’arte e la letteratura alla storia. Questa tendenza, per così dire, favorevole e vantaggiosa allo scrittore, avrebbe come risultato quello di fermare l’uomo nella sua evoluzione (in caso contrario sarà piuttosto il popolo a dover parlare la lingua della letteratura). Dunque, quanto più è ricca per un uomo l’esperienza estetica tanto sarà più sicuro il suo gusto e netta la sua scelta morale, abitando finalmente in quello spazio così agognato che si chiama libertà.

Nessun teorema contro la storia, ma sicuramente avversità nei confronti di una certa idea che vorrebbe vedere il corso degli anni in modo deterministico e falsamente ottimistico, di crescita, di progresso, in base a una ipocrita quanto deleteria visione del tempo. L’uomo sembra porsi al di fuori del contesto cronologico, finalmente abbracciando un’esistenza in libertà piena, priva dai condizionamenti delle forme di potere, istituzionali, refrattarie alla creatività e all’autodeterminazione degli individui, in ogni campo e realtà. Questo è il messaggio di Brodskji, fortemente improntato alla lotta contro gli epigoni che appaiono, spesso nella loro funzione affabulatoria, come voci di un potere che li vuole schiavi e schiacciati sul passato e su quello che risulta essere già superato.

Definito il ruolo del poeta nella società, è bene ricordare anche i suoi obblighi: semplicemente quello di scrivere bene perché, essendo in minoranza, non ha altra scelta. Ogni suo tradimento in questo senso verrà pagato con il pegno dell’oblìo, perché simmetricamente, la società non ha alcun obbligo verso il poeta. Il pensiero di Brodskji diviene, a questo punto, una sorta di sillogismo: avendo molte altre opzioni, la società può anche consentirsi di non leggere versi, ma se trascura di leggerli non avrà altro futuro se non quello di scivolare, facile preda di un tiranno o un demagogo, nel totalitarismo e nell’autoritarismo. Che sia un pericolo attuale?