di Jack Orlando

La tuta della Nike e il borsello. Il doppio taglio. La “coattanza” di chi cerca rissa per farsi vedere, per affermare la sua presenza.
Parlano di coca e di soldi, di lame e di puttane.
L’espressione forzatamente cattiva, con le mascelle serrate, cozza con i lineamenti delicati, quasi infantili.
Li vedi muoversi in branco intorno al muretto sotto le case popolari, nel centro città o sullo schermo del tuo smartphone.

Si sta codificando nelle periferie metropolitane e nelle loro province ammorbate un immaginario che non ha molto di nuovo, ma suscita panico e repulsione nella società responsabile e attira magneticamente una gioventù multicolore e turbolenta.
E questo stuzzica le nostre antenne.
C’è qualcosa che brucia sotto la cenere ed è difficile definirlo sottocultura giovanile, difficile accoglierlo come una forma d’espressione rivoluzionaria o progressista o quello che vi pare.
Dalle casse bluetooth i ragazzini pompano machismo violento, sessismo becero, istigazione a delinquere e lumpencapitalismo predatorio. Potrebbe essere facile la tentazione di respingere in blocco tutta l’offerta bollandola come spazzatura.

Ma la trap, come musica e come forma di vita, dilaga e si afferma portandosi appresso tutti i clichè più pacchiani del gangsta rap ma perdendone spesso i virtuosismi di un’arte affinata in decenni, spezzando rime con onomatopee ossessive, innestando musicalità neomelodiche e scarnificando il lessico fino all’osso in una filiazione sporca dalla musicalità più pop ma dall’attitudine decisamente più punk.
Soprattutto spicca per come va accorciando la distanza tra la violenza dei suoi testi e quella della quotidianità dei suoi autori. Esistenzialmente, siamo più vicini ai ‘90 brutali di New York dei Mobb Deep che a quanto si è dato finora in Italia in questa scena musicale. Sottolineiamo il termine esistenzialmente, per non far torto a cultori del genere ma soprattutto per cogliere il dato d’interesse. Che, specifichiamo, non stiamo qui sfoggiare orecchie raffinate.

Per quel che ci riguarda è il dietro le quinte ad attirare la nostra attenzione, vedere chi e perché produce un determinato immaginario, sondare le possibilità di una linea di forza potenziale.
È quanto sta dietro, in termini di soggettività e di vissuto collettivo, ad una determinata produzione culturale o artistica a imprimerle un tratto di forza e renderla capace di produrre empatia ed immedesimazione. Per produrre immaginario forte, prima della tecnica, sono necessari il posizionamento e l’attitudine.
La cazzimma giusta nel posto giusto.

Immancabilmente se ne sono occupati i telegiornali e i servizi scandalistici dei programmi spazzatura che nutrono l’opinione pubblica di questo paese a colpi di fobie manettare, bigottismo morale e razzismo malcelato.
Una leva di giovanissimi artisti che supera i confini della propria scena nel momento in cui finisce in manette. Chi in galera, chi ai domiciliari. Accuse di risse, minacce, rapine, sparatorie.
Che le indagini siano un colabrodo e i capi d’accusa caschino su se stessi non importa granché. Operazioni di questura e servizi giornalistici vanno ad alimentarsi tra di loro in questi casi; quello che si canta al microfono diventa materiale d’indagine. Arrivano daspo urbani dopo che vengono girati videoclip, fogli di via dopo un concerto. Gli avvisi giudiziari si accumulano mentre i problemi legali e personali si ipertrofizzano.

Cosa guida questo accanimento poliziesco è facile intuirlo già solo guardando in faccia i soggetti in questione. Che nella musica di strada si parli di reati e di violenza è una costante, ciò che è diverso in questo caso è l’emergere, specialmente nel Nord Italia, di una dimensione razziale e sottoproletaria che inizia a ricalcare le banlieue di Francia.
Facce da arabi, nomi africani, brutti quartieri. L’immigrazione che ha messo radici ai margini delle metropoli ha dato vita alle proprie comunità di sfruttati e queste hanno generato figli che della fatica, delle umiliazioni e della miseria cui sono costrette le loro famiglie ne hanno le palle piene e cercano il proprio riscatto.

Se delinquenza e teppismo sono aspetti collaterali e strutturali di ogni condizione subalterna, allora la ricerca di dignità ed affermazione esistenziale partirà da qui, dagli elementi che gli sono più prossimi per trascrivere un proprio immaginario.
Costruire attorno al proprio vissuto una specifica narrazione autonoma è d’altronde il primo passaggio di ogni resistenza.
Non solo, è anche una possibilità materiale di riscatto personale. È mettendo in musica il proprio vissuto che le leggende dell’hip hop si sono alzate da una condizione di miseria e violenza altrimenti senza uscita. Non serve citare esempi.
Per questi artisti non fa differenza, vale la stessa regola, ciò che cambia è che tecnologia e social network permettono ascese (e cadute) molto più rapide. Ci vuole molto poco a fare un videoclip, quasi nulla a registrare una traccia, bastano un paio di singoli per firmare con un’etichetta e non essere più un pezzente sulle panchine del parchetto.

Ha colto bene il senso di ciò l’antropologo Pietro Saitta definendola una violenta speranza1. Un tentativo di ribaltare una condizione squalificante cavalcandola come mezzo di successo personale e come salvagente esistenziale.
C’è qualcosa di potente dietro questa lirica, che evidentemente travalica di gran lunga il droga&puttane, ed è una chiara identificazione collettiva e generazionale. La violenza verbale apre ad una consapevolezza che, nemmeno troppo in controluce, reca in sé uno spiccato istinto di classe.

A mò di esempio: marzo 2021, ancora in mezzo alle restrizioni da covid, a San Siro si raduna una folla di ragazzini. Stanno girando il videoclip dei trapper Neima Ezza e Baby Gang, il titolo è “Rapina”.
Bastano le prime rime a vedere che c’è un di più che va nel profondo, oltre la spavalderia.

Mio fra che magna
Se non metto il passamontagna?
Lo buttano in gabbia
Pensando che il ragazzo cambia
Ma esce fra con più rabbia
Italia corrotta e mafia
Lo Stato fornisce
E poi dopo ci butta in gabbia

La galera non è una cazzata da rapper stavolta, lo sa Baby Gang, lo sanno i ragazzi dei suoi quartieri e quelli cresciuti al margine. Qui si esorcizza il suo spettro rivendicando la propria illegalità. È un elemento che fa parte del vissuto della comunità subalterna e ci si transita facilmente.
Quanto facile? Basta guardare il video; la folla di ragazzini per metà della clip è impegnata in una sassaiola con un reparto della celere intervenuta tra i vicoli per disperderla (è ancora il periodo di divieto degli assembramenti). Seguiranno perquisizioni e denunce, diverse a carico di minori.

La posta in gioco traspare subito nelle dichiarazioni della stampa:

“Se si riescono a portare trecento ragazzi senza un’organizzazione vera e propria, diventa una cosa preoccupante, commenta il questore di Milano, Giuseppe Petronzi: Ora stiamo studiando le condizioni in cui si è verificato questo fenomeno.”2

Emulazione dei leader e quindi costruzione di modelli, mobilitazione rapida e spontanea, l’incontrollabilità di una gioventù razzializzata e la sua presunta attitudine violenta. Il teppismo assurge a ultima bandiera di fronte ad una frustrazione costante del presente che non lascia sbocchi. Il video in questione è un tassello importante nella persecuzione giudiziaria di cui sopra. Per i tutori dell’ordine il rischio del contagio è grande e da scongiurare immediatamente.
E forse il timore non è campato in aria.

“Peschiera è Africa!” do you remember? Oltre un migliaio di poco più che bambini, immigrati e non, che muove da tutta la provincia veneto-lombarda per un appuntamento lanciato sui social e converge sui luoghi della movida rivierasca per vandalizzarla. Ritornano le immagini di casse bluetooth con la trap, tute e doppio taglio, ancora la polizia antisommossa che cerca di sloggiarli. Già ne avevamo parlato in queste pagine.3
Ancora indietro, te lo ricordi invece delle notti di Torino e Milano? “Tu ci chiudi tu ci paghi” si gridava ovunque, spesso finendo a contatto con la polizia.
La vetrina di Gucci in Piazza Castello, sfondata e saccheggiata, i selfie davanti ai monopattini in fiamme, i tavolini dei bar e le fioriere che volano sulla celere.
Ancora loro, tuta e doppio taglio, sfumature di blackness, è sempre la stessa composizione che dovrebbe garantire, col proprio sudore, il buon funzionamento della locomotiva d’Italia e invece ne turba il sonno, scalcia contro i suoi ingranaggi.
C’è una collettività che non è ancora comunità politica, ma esprime sé stessa con rabbia e spregiudicatezza.
Questi selvaggi sono ingrati, non sanno stare al loro posto.

Tornando ai nostri artisti, restiamo sempre sui due nomi di prima.
Più datato è il pezzo “Baby” di Baby Gang. Stavolta le immagini sono più crude, anche se studiate a tavolino: spazi angusti e affollati, passamontagna, bossoli e armi da fuoco, canne girate tra i polpastrelli, bilance e pezzi di cocaina sul tavolo. Il grigio e il nero sono i toni che dominano in una luce metallica.

È un’iperbole di immaginario criminale, di quella delinquenza da bassifondi dove si rischia tanto per poche briciole, messa però a fare da cornice ad un racconto autobiografico, dove il nocciolo sta nella condizione del sottoproletariato immigrato. Marocchino e povero in Italia, condizione doppiamente squalificante in cui ognuno dei due termini alimenta l’altro.
Di qui la pratica illegale che assurge a linea di condotta, anche quando non prospetta una via d’uscita, ma consapevoli transiti in galera.

Quale street, quale strada
Tuo padre è un avvocato e mia zia gli pulisce casa
Mia zia gli pulisce casa
Mio frate gli svuota la casa e
Prende frate quella cassa poi
Si fa un anno di vacanza
Non a Dubai o Casablanca
Ma con lo zio Peppe in casanza
A giocare a scala quaranta

La gabbia d’acciaio non concede scappatoie. Per quanto rivendicata ed esaltata, la condizione subalterna e delinquenziale non risponde mai all’esigenza primaria, quella dello stare bene, di vedere felice la famiglia e gli amici. Tema che ricorre come un filo sottile e bruciante lungo tutta questa produzione di genere.

A ben vedere sono due gli elementi che emergono ciclicamente come salvifici.
In primo luogo il gruppo: gli amici, la gang. Che iconograficamente affolla quasi tutta la videografia, oltre che i testi e il sottofondo sonoro; perché è automatico e naturale che chi non ha nulla in tasca si giochi le carte sulla relazione. Nei quartieri avere una collettività di riferimento vuol dire non solo crescere, ma esistere, avere una conferma da qualche parte della propria presenza, sapere di valere qualcosa.
È in gruppo, solo in gruppo che ci si sente forti.
Si parla di cash e di impicci ma si legge della ricerca della forza comune.
La collettività. Aggressiva, violenta e gioiosa. Capace di muoversi in branchi grossi e spavaldi. Dallo schermo dello smartphone al quartiere, dalle telecamere del tg alla piazza invasa. “È una cosa preoccupante”, diceva il questore, quando i selvaggi prendono parola.

L’altro elemento salvifico è la musica. Attraverso la messa in opera del proprio vissuto si ricerca quel successo personale che le vie legali semplicemente proibiscono, mentre quelle illegali lo lasciano solo subodorare per poi tramutarlo in incubo ancora più profondo.
È la svolta che salva dalla sfiga.

È Neima Ezza stavolta a rendere perfettamente tangibile tutto ciò nel suo “Risposta”, un pezzo decisamente più intimista e senza fronzoli, che controbatte alla macchina del fango che gli si è rovesciata addosso e di cui dicevamo poco sopra. Qui il razzismo quotidiano, la brutalità poliziesca, lo stigma vengono apertamente sfidati attraverso il lavoro musicale e le sue possibilità.

questi sai cosa dicono?
“un artista ruba l’oro”
ma il mio contratto di lavoro
vale dieci volte il loro
infangano il mio nome perché ce la sto facendo
un giorno lascerò il mio bendo
morendo lascerò il segno
solo sbirri corrotti mai visto uno corretto
mi dà dello straniero usando frasi in dialetto
io non mi diverto
chi ci darà indietro il tempo che abbiamo perso?
le cose che hanno detto ci rimarranno dentro
ma io non ci do peso
come ogni razzista che insulta sui social network

Questi ragazzi vogliono spaccare perché hanno fame ed hanno ragione, perché vogliono ciò che la società promette e non rende mai, specialmente se stai tra gli ultimi.
Vogliono i soldi perché sono intimamente capitalisti? O forse perché i soldi sono ciò che rappresenta la “via d’uscita”, lo stare bene, la fine della fame?
Ma non parlano d’amore! Non portano avanti ideali nobili, diranno gli amanti dell’umanità, le anime belle. I loro messaggi sono tutto tranne che edificanti.
Bene! C’è qualcosa di più liberatorio di prendere da dentro i propri giorni tutta la merda accumulata e trasformarla in qualcosa di potente, di vivo?
E poi che cosa dovrebbero portare in alto, la fratellanza universale? La bandiera rossa?
Nella morte e nell’impotenza degli slanci politici, tra l’autismo dell’antagonismo, la stucchevole ipocrisia del discorso umanitario e l’ostilità dello stato, dov’è precisamente che dovrebbero trovare la liberazione?

Louisa Yousfi, giovane giornalista francese di origine algerina, ha colto nel segno praticando un percorso molto simile a quello operato qui, ma di ben altra profondità, seguendo le liriche dei trapper Booba e PNL, per aprire uno squarcio nella cattiva coscienza francese e farne sgorgare il sangue delle banlieue, del lato cattivo.
Tutta questa roba, questa poesia trucida, ha un unico scopo: restare barbari.4
Laddove la cosiddetta integrazione non solo ha fallito, ma ha scientemente prodotto una specifica forma di colonizzazione interna alle metropoli democratiche e generato una subalternità cui si imputa quotidianamente un’inferiorità colpevole e, paradossalmente, congenita; ribaltare l’accusa è una pratica di resistenza, risignificare la propria mostruosità vuol dire aumentare la propria potenza, sottolineare l’alterità è ricomporre i pezzi smembrati della propria anima.
È una vendetta contro la dominazione e un assalto alla conquista della propria condizione umana.

Non c’è da fare alcuna mitopoiesi del sottoproletariato, sono le comunità a creare i propri miti. Né di categorizzare moralmente o politicamente lo spaccio e la violenza gratuita.
L’obbiettivo è comprendere. Annusare l’aria. Occorre inseguire le linee di frattura della società alla maniera delle bestie, fiutandone il sangue dalle ferite.

Questa musica merita di essere ascoltata perché mette in opera l’indicibile; salva chi la pratica ma, svelando un vissuto comune, salva anche tutti gli altri. La gang, la famiglia.
È strumento di liberazione perché offre un linguaggio a chi è privato di voce. Perché qualcuno possa ascoltarla e riconoscersi, fare un passo avanti nel dare una forma ai demoni dentro di sé, perché sappia che altri individui, ostili, invece la ascoltano e provano paura.
Oderint dum metuant.
Se scandalizza, se fa paura, fa bene. Perché le voci che giungono dall’abisso, non vengono mai in pace.


  1. P. Saitta, Violenta Speranza. Trap e riproduzione del panico morale in Italia, Ombre Corte, Verona 2023  

  2. https://www.milanotoday.it/attualita/sassaiola-video-rapper-perquisizioni-sansiro.html 

  3. https://www.carmillaonline.com/2022/06/29/banlieue-del-garda/ 

  4. Lousa Yousfi, Restare barbari. I selvaggi all’assalto dell’Impero, DeriveApprodi, Roma 2023 

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