di Emilio Quadrelli

Non, je ne regrette rien

Tra i molti temi che l’intervista ha evidenziato, centrale pare essere la questione della violenza e delle coeve pratiche illegali. Una illegalità che, per gli abitanti dei quartieri popolari, ha ben poco di esotico ma rappresenta la prosaica realtà vissuta quotidianamente. Di ciò si è parlato con un pugile senegalese con alle spalle una “vita di strada” piuttosto intensa. L’approdo nel Collectif, la sistematica pratica sportiva e la successiva politicizzazione lo hanno emancipato da ciò che, per gli abitanti dei quartieri poveri, appare come un “destino” dal quale è impossibile sottrarsi. Un destino fatto di brevi “carriere criminali” le quali, il più delle volte, conducono a una esistenza fatta di carcere, tossicodipendenza e morte, oltre a una marginalizzazione pressoché assoluta. Dentro le enclave dell’esclusione sociale la guerra per il controllo del territorio, che in alcuni casi si riduce alla gestione di un solo palazzo, è tanto cruenta quanto violenta. Le micro gang che gestiscono lo spaccio sono continuamente in guerra tra loro ma non solo. Con una certa frequenza si assiste a rotture all’interno delle stesse micro gang e allo scatenamento di obbligate “rese dei conti” tra gli appartenenti mentre, nel frattempo, gli scontri con le forze dell’ordine si moltiplicano. Di tutto ciò ne parliamo con il nostro pugile senegalese C. M.

Ciao, hai ascoltato le cose sin qua dette, da te vorrei, per prima cosa, una descrizione di cosa significa vivere in uno dei “quartieri Nord”. In poche parole vorrei che tu riuscissi a descrivermi la vita sociale di questi quartieri nel modo più oggettivo possibile e, in particolare, la vita dei ragazzi.
La vita nei “quartieri Nord” non ha alcun mistero. Come tutti sanno vi è tantissima disoccupazione, molta precarietà e una enorme economia illegale, soprattutto droga. Lì ci cresci, quella è la tua vita. Lo spaccio è la principale attività, anche se qualche gang si dedica ai furti e alle rapine, il grosso è legato allo spaccio. In questa attività sono coinvolti i ragazzi sin dai 13, 14 anni perché in un “quartiere Nord” a quell’età sei già grande. Entri presto in una gang e spesso inizi anche a farti. Così entri in un circolo che ti brucia la vita. L’illegalità non è una scelta ma una via obbligata. A questo aggiungici i comportamenti dei flics con i quali sei, indipendentemente da cosa tu possa fare o non fare, continuamente in guerra. Loro si comportano come se fossero delle truppe di occupazione. Noi siamo la colonia interna, questa la nuda e cruda realtà.

Tu oltre che un pugile sei un attivista politico e sociale. Cosa puoi dire della tua esperienza, come valuti le cose che stai portando avanti?
Mi sembra che le cose che stiamo facendo con la boxe siano molto importanti, abbiamo costruito una realtà importante che ha permesso a molti, me compreso, di acquisire una identità sociale che prima non avevano. Poi è molto importante quanto stiamo facendo come precari e disoccupati anche se credo che, però, abbiamo una carenza grossa rispetto al carcere e alla attività dentro i quartieri. Dovremmo riuscire a costruire qualcosa dentro i quartieri come avevano fatto le Pantere nere. Una organizzazione che sia in grado di trasformare tutta quella rabbia – che lasciata a se stessa finisce in una guerra fratricida tra gang – in qualcosa di positivo, qualcosa che serva veramente alla nostra gente. Poi c’è il carcere e lì c’è proprio un vuoto.

Quindi, secondo te, una delle grosse mancanze è un intervento sul carcere?
A me sembra di sì. Il carcere, per la nostra realtà, non è un imprevisto ma un passaggio praticamente obbligato. Nei confronti del carcere, almeno nei confronti della massa carceraria, vi è un totale disinteresse. Eppure lì passa una fetta di classe. Credo che a noi manchi una esperienza come quella delle Pantere nere, perché penso che dal carcere potrebbero uscirne dei quadri veramente rivoluzionari che potrebbero avere grande peso e influenza per tutta la gente dei nostri quartieri.

Quanto affermato arricchisce di non poco l’insieme di questioni che fanno da sfondo alle vite dei “dannati della metropoli”. Repressione, razzismo, militarizzazione del territorio sono la cornice abituale con la quale devono confrontarsi le “masse senza volto”. Da tempo l’ordine discorsivo dominante a Marsiglia, non diversamente dalle altre metropoli europee, è governato dalle retoriche dell’ “insicurezza urbana” prodotta dall’agire fuori controllo delle nuove classi pericolose1. Ciò, per gli abitanti dei “quartieri popolari”, comporta un costante corpo a corpo con gli apparati polizieschi, un confronto che tuttavia viene affrontato in maniera del tutto impolitica dai primi. Le parole di C. C., una pugile franco algerino di 25 anni, riescono a mettere bene a fuoco tutta la politicità che la questione polizia, repressione e militarizzazione del territorio si porta appresso.

Con C., M., abbiamo parlato del carcere, della condizione illegale in cui molti di voi, almeno in certi momenti della loro vita, hanno vissuto e di come, tutto questo, comporti il dover affrontare continuamente il rapporto con la polizia. Questo problema è affrontato tra voi e, se lo è, in che maniera?
Questo è un problema enorme al quale tutte le nostre vite sono confrontate. La polizia si comporta con noi come un esercito di occupazione, è da questo che dobbiamo partire. Mi chiedi se tra noi abbiamo affrontato questo problema? Sì, lo abbiamo fatto e lo stiamo facendo soprattutto tra noi donne perché siamo noi quelle che subiamo maggiormente l’oppressione poliziesca e razzista. Per prima cosa abbiamo dovuto capire noi stesse che l’essere donne e il non essere bianche ci metteva in una certa condizione, una condizione da colonizzate. In seguito abbiamo compreso che non esistevano vie di uscita individuali, ma solo collettive e che, tutto questo, voleva dire lotta e organizzazione.

Lotta e organizzazione cosa significano concretamente?
Significa, intanto, costruire dei momenti collettivi nei nostri territori, dove vederci, incontrarci, discutere, fare delle attività autogestite. Avere, insomma, delle forme di socialità interamente nostre. In questo modo è possibile rompere la gabbia dell’individualismo che ti porta o a diventare un servo e una spia dei flics o a entrare in qualche gang con l’illusione di fare soldi e diventare qualcuno. Tutto questo, però, non avrebbe alcun senso, perché lascerebbe il tempo che trova, se non ci ponessimo anche il problema dell’autodifesa. Se vogliamo che nei nostri territori le persone ci vedano come una reale via di uscita dobbiamo essere in grado di esercitare la forza. Senza un esercizio della forza diventa tutto inutile. Sicuramente è importantissimo, anzi direi che è la cosa fondamentale, avere uno spazio dove i problemi e le questioni vengono affrontati così come non è meno importante costruire dei momenti di vera e propria scuola politica, ma tutto questo ha senso solo se sei in grado di esercitare la forza. Qua i problemi sono infiniti anche se, alla fine, il principale è la mancanza di soldi. Però, nel frattempo, almeno su alcune cose è possibile intervenire. Dobbiamo imparare a combattere contro chi, dall’interno, sfrutta e umilia la propria gente. Ma qua torniamo al discorso sulla polizia. La polizia governa grazie a tutte quelle figure che, in cambio della loro impunità, permettono il controllo del territorio. Queste agiscono come spie e informatori per cui sono, a tutti gli effetti, parte attiva della dominazione. Far capire, concretamente, che questi possono essere attaccati significa far crescere fiducia e consapevolezza tra le persone. Come vedi, anche in questo caso, si torna alla questione della forza perché per poter lottare occorre, per prima cosa, liberare il proprio territorio da chi ti è nemico ed è del tutto completare della polizia.

Cosa intendi per “scuola politica”?
Come puoi immaginare, la cosa valeva anche per tutte noi, non è che tra noi fosse presente una grande cultura politica. Di conseguenza, non vi sono strumenti per comprendere il vero senso della realtà che ci circonda. L’abitudine è quella di ricondurre tutto alla propria esistenza senza saperla collegare alla sua dimensione generale. Per “scuola politica” non intendiamo delle lezioni intellettuali su questo o quello ma, a partire da un fatto concreto – la storia di uno sciopero, di una organizzazione operaia, di una lotta di liberazione, di una battaglia delle donne e così via – organizziamo delle discussioni, intorno a dei testi, attraverso cui diventa facile dimostrare come l’agire collettivo consenta di raggiungere determinati obiettivi pratici. Poi, sicuramente, c’è chi, a partire da questo, sviluppa anche interessi più approfonditi. Io, per esempio, a partire dallo studio, minimo, della rivoluzione algerina sono passata ai testi di Marx e Fanon ma credo che non vi sarei mai arrivata se non fossi stata smossa da questioni concrete. Noi abbiamo letto e imparato molto da Mao perché nelle sue cose abbiamo sempre trovato un discorso teorico legato alla soluzione di problemi concreti.

Veniamo, così, alla questione polizia e autodifesa.
Noi sappiamo benissimo che non possiamo affrontare, o almeno lo possiamo fare raramente, i flics in campo aperto. Questo è possibile farlo nei cortei e nelle manifestazioni organizzandoci in squadre in grado di portare attacchi a determinate strutture, come banche, multinazionali, luoghi simboli dello stato ma questo è, come dire, quasi routine nel senso che in quei casi il numero di persone attrezzate per fare questo è abbastanza vasto. Tutta un’altra cosa è affrontare i flics sul territorio. Anche in questo caso agire collettivamente è l’arma principale. Se, di fronte a un fermo del tutto ingiustificato o a una irruzione in una casa, non si scappa ma si scende in strada, i rapporti di forza possono cambiare perché, a quel punto, i flics si trovano in svantaggio e non possono affrontare, se non chiamando numerosi rinforzi, la situazione. A quel punto, però, la situazione diventa talmente tesa che basta un nulla per farla esplodere e così, di solito, se ne vanno. Questo atteggiamento, però, non è facile da ottenere perché c’è molta paura, una paura che, in certi momenti, si traduce in rivolta a tutto campo ma, come in tutta la nostra storia abbiamo imparato, queste rivolte sono quasi sempre dei fuochi di paglia che si lasciano alle spalle ben poco. Ciò che serve, invece, è costruire organizzazione, consapevolezza e addestramento.

Vorrei chiudere chiedendoti sia che dimensioni ha, nei vostri territori, il ciclo economico legato allo spaccio sia in che modo, se lo avete fatto, lo affrontate?
Intanto cominciamo con il dire che lo spaccio, seppure sia sicuramente una realtà grossa e importante, riguarda pur sempre una parte, sicuramente considerevole ma pur sempre una parte, degli abitanti dei quartieri. La maggioranza sono operai, precari, disoccupati i quali possono anche lavorare come spacciatori ma non sono, come dire, spacciatori di professione. Quello che vale per lo spaccio vale anche per altre attività illegali.

Scusa se ti interrompo. Vuoi dire che in realtà ciò che avviene è un passaggio, più o meno costante, tra lavoro legale e lavoro illegale?
Sì, possiamo dire che è così. Certo esistono sicuramente gruppi criminali abbastanza organizzati, ma si tratta, almeno come numeri, di realtà limitate. Poi succede che, in assenza di altro, qualcuno per un periodo lavora per questi. Fa un po’ ridere ma esiste anche una precarietà illegale. Comunque questa è la realtà. Per questo lottare per il salario garantito ha anche lo scopo di emanciparci da questa condizione che, in un modo o nell’altro, ciascuna di noi ha conosciuto. Detto questo, però, il problema resta ed è un problema grosso perché, come facilmente puoi capire, spesso spaccio significa tossicodipendenza e tutto ciò che ne deriva. Al momento siamo obbligati a convivere con questa situazione, non siamo in grado di condurre una guerra aperta contro gli spacciatori e non solo e non tanto per una questione di rapporti di forza ma perché lo spaccio è una fonte di sopravvivenza per molti. Tutto questo lo potremmo affrontare in maniera radicale e definitiva solo quando saremo in grado di avere una determinata forza ma, soprattutto, quando avremo vinto la battaglia per garantire a tutti, occupati e non, un salario vero. Il problema dello spaccio e della droga lo si risolve modificando i rapporti di forza con lo stato e il potere politico perché è lì che sta il problema. Affrontare il problema dello spaccio pensando che questo non sia un problema di rapporti di forza, quindi un problema politico, con lo stato e le istituzioni significa demandare alla République e ai suoi flics in veste di assistenti sociali, educatori e via dicendo, un problema che è proprio la République che ha creato.

Solo un ultima cosa: per quale motivo hai equiparato gli assistenti sociali, gli educatori e altre figure simili ai flics?
Perché loro sono l’altra faccia della dominazione, sono delle figure del tutto complementari il cui fine è addomesticarci. Ma noi non abbiamo bisogno di narcotici di stato ma di autonomia politica, lotta e organizzazione.

Le cose ascoltate, per molti versi, parlano da sole. Ciò che nell’insieme emerge è la dimensione “concreta” dell’essere proletario in una città come Marsiglia. La molteplicità dei temi ascoltati obbligherebbe a una serie di riflessioni e ragionamenti che esulano dai limiti che un reportage etnografico obiettivamente comporta. Gran parte dei ragionamenti e riflessioni possiamo tuttavia in parte approfondirli volgendo lo sguardo verso il Collectif Autonome Précaires et Chȏmeurs Marseille, il quale mostra non poche “affinità elettive” con il Collectif Boxe. In origine, precari e disoccupati, rimandavano a due realtà distinte ma che a breve giro, sulla base delle non secondarie comunanze, si sono unificate. Questo percorso lo ascoltiamo attraverso le parole di L. B., infermiera precaria di una struttura medica privata, che del Collectif è una delle principali animatrici.

Tu sei una delle fondatrici del Collectif Autonome Précaires, su quali basi nasce questa esperienza?
Intanto nasce su base territoriale nel senso che la condivisione di una determinata condizione lavorativa l’abbiamo socializzata dentro il quartiere. Il nucleo originario del Collettivo nasce a Frais Vallon ma si è allargato abbastanza velocemente in altre zone e oggi siamo una realtà cittadina. La nascita territoriale è in qualche modo obbligatoria perché la precarietà rende, almeno inizialmente, praticamente impossibile organizzarsi sul posto di lavoro. Inoltre, cosa che non bisogna dimenticare, quando si parla di precarietà si parla anche di lavoro del tutto irregolare il che complica ancora più le cose. Prendere atto di una situazione collettiva è stato il primo passo per uscire da quell’individualismo a cui la condizione di precario conduce. La condizione precaria è una condizione che ti isola, che ti porta a pensare che solo tu puoi risolverti i problemi, che non esiste una condizione collettiva anzi, l’assurdo di questa condizione è che ti porta a vedere gli altri come nemici, come gente che può prendere il tuo posto e lasciarti senza lavoro. In quanto precario non hai alcuna possibilità di contrapporti, anche sulle minime cose, con il padrone. Devi accettare tutto, oppure andartene. Tieni anche presente che tanti precari hanno avuto qualche problema con la polizia e hanno precedenti penali e si ritrovano spesso con la polizia sul collo. Abbiamo costruito il Collectif per cercare di dare una risposta a questa situazione. Forse, però, prima bisogna dire un’altra cosa, il primo obiettivo che ci siamo posti è uscire dalla condizione di invisibilità sociale in cui la precarietà sociale ti obbliga. Questo ci è sembrato il problema di fondo. La condizione di precario ti relega nel mondo delle ombre, uscire da questa condizione è stato il nostro primo obiettivo. Oggi essere precario significa essere un marginale, un povero, un escluso e essere deprivati di una dimensione di classe. La stessa sinistra, basta pensare a ciò che è stato scritto in relazione alle rivolte delle banlieue, non parla mai di queste realtà come realtà di classe ma come luoghi della povertà e della marginalità. Pertanto, riacquistare una dimensione di classe, è stato il nostro primo obiettivo.

Quindi, per capirsi, la prima cosa che avete fatto è stato rovesciare le retoriche che, tanto a destra quanto a sinistra, fanno da sfondo a ciò che, nel passato, veniva chiamata questione sociale?
Esattamente. Rimettere al centro la questione di classe è stato il passaggio fondamentale per non cadere nelle trappole del sicuritarismo o del paternalismo assistenzialista che ne è l’esatto aspetto complementare. Il precario e il disoccupato sono considerati o come potenziali criminali o come soggetti da prendere in carico e disciplinare si tratta, cioè, di due forme di stigmatizzazione che deprivano il soggetto di qualunque identità. In questo modo tutta una fetta di società cessa di essere iscritta alla relazione capitale – lavoro salariato con tutto ciò che, inevitabilmente, ne consegue. Lottare come operai e proletari è stato il passaggio costruito dentro il Collectif.

Come si caratterizzano queste lotte e che tipo di strategia hanno?
Qua affrontiamo uno snodo essenziale che, secondo me, ha una valenza che va oltre la lotta in sé. Come si sa, per rimanere nell’ambito del precariato, gran parte di questa forza lavoro è impiegata in posti di lavoro non troppo numerosi, come per esempio la ristorazione o il settore turistico. Si tratta di aprire vertenze, con blocchi e picchetti, davanti a questi posti di lavoro e, al contempo, socializzare questa lotta con volantinaggi e megafonate per arrivare, in alcuni casi, a momentanei blocchi stradali. In questo modo si fa emergere l’invisibilità di questi lavoratori e si apre una vertenza. Coinvolgendo, almeno entro certi limiti, la città. Alla cosa si cerca di dare, chiaramente, la massima visibilità possibile ma anche la messa in campo di una forza rilevante. Per questo, nonostante si tratti di micro vertenze, mobilitiamo gran parte delle forze disponibili. Questo per due motivi. Per prima cosa un certo numero di persone presenti al blocco rende più sicuri i lavoratori scesi in lotta; secondo, questo modello, rompe concretamente l’isolamento in cui i lavoratori pensavano di essere. Se sei, per esempio, in dieci a lavorare in un ristorante e magari solo cinque o sei sono decisi a entrare in sciopero è normale che abbiano dei timori ma se vedono che una cinquantina di persone sono lì a sostenerli, la cosa cambia. Cambia per coloro che non hanno aderito, i quali magari cominciano a avere meno paura, cambia per il padrone che capisce che non può fare il bello e il cattivo tempo come gli pare. A ciò va aggiunto la cassa di risonanza che la lotta si porta dietro e che raggiunge anche altre situazioni le quali, a partire da ciò, possono pensare di mettersi in moto. Questo è ciò che la lotta in sé produce nell’immediato, poi vi è il resto.

Ecco, proprio questo resto sarebbe importante che venisse ben esplicitato.
Intanto c’è una considerazione che potremmo definire strategica e mi spiego. Sappiamo tutti benissimo quanto il lavoro sia frammentato e ciò, in una città come Marsiglia assume dei tratti macroscopici. L’idea, pertanto, di avere grosse lotte, se escludiamo gli scioperi generali ma quello è un altro discorso, è abbastanza difficile. Ciò che dobbiamo sforzarci di fare, questo il nostro obiettivo, è trasformare questa debolezza in forza. Se noi riempiamo la città costantemente di micro vertenze la rendiamo, di fatto, difficilmente controllabile. Sappiamo di non inventarci nulla di nuovo perché non si tratta di far altro che applicare nella metropoli imperialista attuale il principio della guerra nel deserto di Lawrence, ossia mille punture di insetto possono abbattere il rinoceronte. Alla frantumazione del lavoro dobbiamo contrapporre l’apertura di mille fronti. Mille fronti che, però, non rimangono isolati perché le vertenze non vanno viste come solo questioni sindacali ma come questioni politiche. Per questo, anche dentro la più piccola vertenza, cerchiamo di far convergere lì il maggior numero di militanti. In questo modo la vertenza diventa veicolo politico dello scontro tra le classi. Quella della separazione tra lotta politica e lotta economica, assunta in maniera rigida, è un retaggio tardo comunista che sicuramente non ci portiamo dietro. L’altro resto è dato dal giornale che stiamo provando a fare. Un giornale dei precari e dei disoccupati che metta al centro le lotte. Noi riteniamo che sia fondamentale avere un organo che amplifichi e metta in collegamento le lotte. Un giornale che esprima il punto di vista dei precari e dei disoccupati il quale diventa anche uno strumento finalizzato alla costruzione di organizzazione. Avere, chiamiamolo un “nostro giornale”, significa intanto avere una visibilità e rompere quindi le tante gabbie della marginalità ma, sopratutto, significa mettere in collegamento diverse situazioni ed esperienze. L’organizzazione non si costruisce a tavolino ma con e dentro le lotte.

A conclusione di tutto questo vorrei chiederti come siete arrivati a unificarvi con i disoccupati?
Si è trattato di un processo in gran parte scontato. La soglia tra precarietà e disoccupazione è quanto mai sottile per cui le due lotte sono molto simili. La condizione di disoccupato, e tieni presente che qua a Marsiglia è una condizione molto diffusa, è quella che conduce alle maggiori forme di marginalizzazione e criminalizzazione per cui esserci organizzati in quanto disoccupati ha voluto dire rivendicare, per prima cosa, la propria esistenza di classe una condizione che, per di più, tende a farsi tanto endemica quanto strutturale oltre che altamente funzionale all’attuale ciclo capitalista. È strutturale perché l’espulsione di forza lavoro stabilizzata è ormai un dato di fatto, funzionale perché dai disoccupati sono prelevate, volta per volta, quelle quote di forza lavoro momentaneamente necessarie per essere poi nuovamente confinate ai bordi della società. Il percorso dei precari e quello dei disoccupati, pertanto, non poteva che unificarsi. Va aggiunto, anche se questo è tutto un intervento da costruire, che la lotta dei disoccupati non può che affrontare anche la questione della militarizzazione del territorio.

In che senso?
I disoccupati sono identificati come classe pericolosa la quale è principalmente concentrata dentro determinate aree urbane le quali sono oggetto, in nome della sicurezza, di una massiccia militarizzazione del territorio. Ciò che stiamo vivendo è una guerra civile di bassa intensità condotta costantemente dallo stato imperialista nei confronti delle masse subalterne.

(3continua)


  1. Cfr.: E. Ciconte, Classi pericolose. Una storia sociale della povertà dall’età moderna a oggi, Editore Laterza, Roma – Bari, 2022