di Neil Novello

Grazia Verasani, Solitudini. Uno status del XXI secolo, Oligo, Roma 2023, pp. 43, euro 13,00

A una plaquette in prosa poetico-filosofica, Grazia Verasani affida pensieri e memorie sia culturali sia autobiografiche sulla solitudine. E Solitudini. Uno status del XXI secolo appare come un libro sulla vita solitaria, una meditazione – come potrebbe scriverne Giuseppe Occhiato – dedicata alla “sulità” dell’uomo.

Si fa un’esperienza singolare a leggere libri in cui l’autore, nell’atto di scrittura, menziona autori e libri così da richiamare, nell’economia del proprio discorso, la parola dell’altro pensatore, dell’altro poeta, una parola ritenuta più speculativa. Accade così a Grazia Verasani e accade anche al lettore di Solitudini. Dicendolo con una categoria di Leo Spitzer, i “clic” intellettuali, cioè il riverbero memoriale di altri libri, di altri autori, qui si fa infinito. Da Giovanni di Patmos a Proust, da Dante a Leopardi, a Gramsci la solitudine richiama una varietà sentimentale e destinale: il pensiero della solitudine, la sua condizione volontaria, la solitudine come pensiero dell’opera, l’opera come solitudine del pensiero, la coatta solitudine carceraria. Ogni variazione rimanda o alla solitudine che immane, alla solitudine come dolore proprio della condizione umana, all’idea di patologia esistenziale, oppure all’altra solitudine, quella ricercata, la stessa condizione umana che si determina entro un orizzonte volontariamente solitario, la solitudine – per dirla con Roberto Assagioli – come atto di volontà, proposito lucido di isolarsi dal resto del mondo per curarsi nella cura della propria realtà.

Un “clic” che nel lettore risuona più di altri e ciò fino al tormento, a segnalare che per quella via passa forse più che una suggestione culturale, è La metropoli e la vita dello spirito di George Simmel. Il libretto del sociologo tedesco contempla la solitudine, un lemma che ovviamente non compare nel testo, entro una categoria relativa alla “vita dello spirito”. E la vita dello spirito in solitudine, quanto di più intrinseco all’esistenza dell’uomo, non distingue tra i volontari isolamenti sociopatici alla maniera del Des Essenties di Joris-Karl Huysmans né guarda allo stato di necessità creativa di uno che ha messo mano alla Recherche. Qui è in gioco un altro paradigma, un altro “status”, forse lo status. Si è dinanzi a una visione della solitudine svincolata, diremo isolata da ragioni o condizioni particolari. Non questa o quella solitudine ma la solitudine come nuda lettura, cifra dell’esistenza, qualcosa che rende possibile guardare all’Uomo della folla di Edgar Allan Poe non come a un uomo solitario ma all’esemplificata condizione di tutti gli uomini, gli uomini realmente in solitudine, che siano uomini in società, isolati veramente o accompagnati, eremiti, oppure un solitario follante.

Non ricordo più da che parte, se in un libro o altrove (forse un concetto di Barnaba Maj), qualcuno ha scritto o pronunciato la parola relittitudine: solo come un relitto. Se la parola coglie il momento non soggettivo della solitudine, se può avvicinare al concetto heideggeriano di Geworfenheit, vuol dire che c’è una solitudine prima della solitudine, una dote originaria, profondamente umana, la dote di chi è venuto al mondo e venendo al mondo è caduto quaggiù sulla terra. È la storia di tutti. E forse non ci siamo mai emancipati da tale condizione originaria. Così Simmel, che elegge la metropoli a teatro del suo discorso sociologico, vi guarda al contempo come alla messa in scena di solitudini in società, di uomini soli coabitanti in una comunità:

Il riserbo e l’indifferenza reciproci – i presupposti spirituali delle cerchie più ampie – non sono mai avvertiti più fortemente nei loro effetti sull’indipendenza dell’individuo che nella più densa confusione della metropoli, dove la vicinanza e la angustia dei corpi rendono più sensibile la distanza psichica. Ed è solo l’altra faccia di questa libertà il fatto che a volte non ci si senta da nessuna parte così soli e abbandonati come nel brulichìo della metropoli.

Grazia Verasani ha coscienza culturale di tutto questo e il suo Solitudini si inscrive nell’ideale confine tra il rivelato e l’alluso, presso una finisterrae. Il libro allora è un testo confinato sulla solitudine dell’artista, la solitudine dello scrittore, e per questo è un libro autobiografico, ma è anche un testo sconfinante verso un’idea di solitudine simmeliana. È ciò che la scrittrice bolognese rende scrivendo che «siamo tutti entità distinte e separate le une dalle altre», entità che «ci uniamo, ci leghiamo, ci intersechiamo ma restando soli con noi stessi». Se allora l’«isolamento è benedetto» lo è perché spiega la condizione naturale dell’artista. Un uomo è sempre solo, un artista è solo come un uomo ma lo è ancora di più come creatore. Scrivere è un’esperienza di solitudine, un’altra cosa in confronto a vivere. A meno che si viva per scrivere e allora vivere e scrivere si annullano in una superiore identità destinale. Resta alla fine, latente e mai estinto, l’inquietante «pedinamento di quel detective caparbio». A perdurare è la coscienza che «si viene al mondo», giusta l’involontaria agnizione heideggeriana di Grazia Verasani, ciascuno tra noi «con un senso della solitudine». Non avremo la solitudine se non esistesse il «mondo», la realtà umana da cui il solitario, che sia o meno un artista, fugge in nome del sé.

Pavese, Schopenhauer, Ovidio, Walser concorrono a dialogare sulla solitudine, a dialogare sulla solitudine come condizione subita dall’individuo o come condizione da lui creata, come malattia del vivere o come sua grande opportunità. Quel che è certo, anche al di là della solitudine, è che Solitudini è un libro sulla vita dello scrittore. Quella sociopatica di Katherine Mansfield è al servizio dell’opera. Come d’altra parte lo è per Proust nella scintillante testimonianza di Céleste Albaret. Ma non come per Luigi Pintor. Nel Nespolo, Pintor è afflitto da una non rara forma di solitudine, la più alta per gravità, quella che più disastra l’anima dell’uomo. È la solitudine di chi ha subito il peggiore degli abbandoni: la morte di un figlio. Pintor è stato lasciato in solitudine, la sua incolpevole colpa è di essere sopravvissuto a una morte filiale pagando così il fio di una «solitudine di pietra»: ecco un caso di relittitudine. E come Cioran, al di là di ogni idea di solitudine e così pienamente dentro la parte del suicidato vivente, del grande solitario da sempre morto alla vita.

Solitudini è anche un libro allo specchio. L’autrice parla di sé, di sé attraverso gli altri, degli altri attraverso sé. Affida a un’autobiografica flânerie alla Robert Walser, un autore presente nel libro, l’opportunità di guardare sé nelle vite dei «passanti solitari», di misurare quanto dolore contenga la «solitudine di orfana», quest’altra dolorosa solitudine, non superiore in ordine di patimento alla perdita di un figlio (come in Pintor). Una solitudine nuova per Grazia Verasani, il passaggio al lutto del «deraciné», la solitudine di chi perde il padre e poi la madre e così è spezzata la radice umana. A quel punto, non si ha più nulla dietro di sé. Resta solo il dolore di chi, «nemmeno genitore», sa di non avere, di non poter così avere neppure nostalgia del futuro perché, senza figli, pare nulla si abbia, oltre che dietro di sé, anche davanti a sé.