di German A. Duarte

La terribile realtà delle cose
È la mia scoperta quotidiana
(Fernando Pessoa)

Premessa: la valle perturbante

A differenza dell’opera originale, ideata nella prima metà degli anni Settanta da Michael Crichton, la serie televisiva WestWorld, in onda dal 2016, creata da Jonathan Nolan e Lisa Joy, potrebbe essere considerata un sintomo della piena familiarità dell’immaginario collettivo con le teorie della singolarità tecnologica e il transumanesimo. Si potrebbe dire che nella serie, a differenza della precedente declinazione cinematografica, non c’è più spazio per il “noi e loro” che caratterizza il film di Crichton. Nemmeno per il “noi o loro” del finale del film del 1973. Il ‘loro’ stava a indicare le machine, gli “hosts”, che si distinguono dal ‘noi’, gli umani, solo per qualche tratto fisico (tanto che, nel film, si consigliava ai nuovi arrivati di osservare le mani dei soggetti per capire se si trattasse di androidi o meno). Nel “WestWorld” di questo secolo la distinzione fisica tra umani e androidi è inesistente. Tuttavia, come nel film, nella serie la garanzia di trovarsi davanti a un umano si palesa esclusivamente nell’impossibilità, per gli hosts, di ucciderlo. Infatti, nel parco le armi non funzionano quando rivolte contro un umano (nella serie, gli hosts non possono puntarle contro gli ospiti umani), rassicurando così i visitatori sul fatto che l’androide non riuscirà mai a ucciderli. Non che l’androide non desideri compiere tale azione, semplicemente egli (esso?) non potrà mai passare all’atto – il che non è una rassicurazione secondaria per gli umani nel parco. Al di là del fatto, non banale, di non perdere la vita in quello che teoricamente è un gioco, questa garanzia serve proprio ad esorcizzare il fantasma della singolarità tecnologica, poiché l’umano potrà sempre imporre la sua superiorità sull’androide inerme. Di conseguenza, seguendo una logica inversa rispetto a quella dell’Etica nicomachea, in WestWorld, quello che caratterizza e trascende l’umano è proprio la sua capacità di uccidere, è proprio la brutalità che è capace di esercitare sui (ormai) suoi simili, sugli androidi che, del resto, per la loro condizione di macchine, saranno sempre soggetti alla violenza umana.

Si potrebbe ipotizzare che è proprio la similitudine morfologica tra hosts e umani che fa della serie WestWorld una grande ‘valle perturbante’1. dove gli individui si trovano sempre sul confine tra l’empatia e la repulsione, ma mai nel mezzo di esse. E questa valle perturbante è proprio il luogo di conquista – proprio come il far west nel nostro immaginario – dell’irrazionale attraverso la totale disinibizione dell’individuo. È la valle dove l’individuo festeggia la sua vittoria irrazionale, festeggia la sua totale disinibizione attraverso un saturnale di violenza sull’oggetto percepito come soggetto; sul corpo reificato che diventa soggetto proprio attraverso l’esercizio della violenza2. Infatti, a differenza del concetto marxista di reificazione (Verdinglichung), che posiziona il fenomeno nella sfera semantica dell’alienazione – e perciò viene a disegnare una distorsione dello scambio organico tra uomo e natura proprio del capitale –, qui la violenza ci ricorda che la reificazione si sviluppa su un piano fenomenologico anche al di fuori di condizioni relazionali determinate dal capitale. In altre parole, la violenza, che secondo Simone Weil presuppone sempre la trasformazione del soggetto in oggetto, finisce per allontanare il fenomeno della reificazione della sfera dell’alienazione per riportarlo alla sua sfera semantica originaria, quella dell’Entfremdung, dello straniamento.

Questo aspetto compare del resto già nell’opera di Georges Bataille il quale, pur condividendo in gran parte la comprensione marxista della reificazione – soprattutto nel riconoscimento della praxis come forza di reificazione3 – ha messo in luce la forza reificante di diverse pratiche rituali. Mi riferisco in particolare alla sua analisi di alcuni riti aztechi, posti dal filosofo in rapporto con la reificazione in contesto industriale4. Attraverso il lavoro di Bataille, allora, emerge come il fenomeno della reificazione non sia un aspetto esclusivo della forza che il valore di scambio (Tauschwerten) esercita sull’essere e come lo stesso fenomeno si manifesti anche al di fuori della relazione capitalista. Questa affermazione diventa ancora più chiara quando negli scritti di Bataille, analizzando lo sperpero (di energie e vite/beni/oggetti sacrificati) nei riti sacrificali aztechi, il filosofo mette in luce il passaggio da soggetto ad oggetto subito dal sacrificato in quanto dono al dio Sole5.

Nella valle perturbante di WestWorld ci troviamo di fronte ad un fenomeno di passaggio analogo, messo in moto proprio dalla violenza irrazionale. Gli hosts, che soggetti non sono – ma che vengono percepiti come tali – finiscono per diventare oggetti a seguito di una trasformazione propiziata dal loro sacrifico, e cioè dalla violenza. Infatti, essere destinatari della violenza irrazionale converte gli hosts in un oggetto. E questo accade benché tutto faccia presupporre – dal loro aspetto, alle loro apparenti facoltà mnemoniche – che precedentemente all’atto violento essi fossero soggetti dotati di libero arbitrio, che esistessero, quindi, perché capaci di esprimere volontà. Oltre a ciò, ad affermare (almeno apparentemente) la condizione di soggetti degli hosts è proprio la percezione che lo spettatore ha di loro. Uno spettatore che, non solo li riconosce come soggetti autonomi, ma che, proprio per via delle violenze e brutalità da loro subite, finisce per umanizzarli a dismisura. Ed è proprio per effetto di questa umanizzazione che, nella serie, soprattutto nella prima stagione, l’empatia può svilupparsi esclusivamente in direzione dell’androide. Ed è ancora per questo motivo che la barbarie degli hosts nei confronti degli umani, messa in atto nella seconda stagione, può essere percepita come una reazione di legittima difesa.

La violenza degli hosts sembra qui una legittima risposta alla carneficina irrazionale e immotivata portata avanti fino a quel punto dagli umani. In ogni caso, mi pare che già all’inizio della seconda stagione, l’empatia dello spettatore sia ormai tutta per loro, per le macchine. Non ce più spazio per un ‘noi o loro’, nemmeno per un ‘noi e loro’. È qui che risiede, a mio avviso, la differenza della serie rispetto alla narrazione originale creata da Michael Crichton negli anni Settanta. Il WestWorld di questo millennio non ci permette di vedere nel West lo scenario di una lotta tra umani e androidi. La conquista qui è di tutt’altra natura.

A differenza del film di Critchton, la trama del WestWorld di questo millennio non si fonda su una netta dicotomia tra umani e macchine. Gli hosts di questo millennio hanno perso completamente l’essenza macchinica – non sono concepiti in base alla parcellizzazione e frammentazione della produzione propria del taylorismo – e sono ormai entità digitali, stampe a tre dimensioni di tessuti organici. Inoltre, il malfunzionamento, il glitch (programmato?) che avvia la rivolta si manifesta chiaramente con l’apparente acquisizione di facoltà mnemoniche da parte degli androidi. Quello che nel film degli anni Settanta sembra una reazione meccanica, un riflesso violento e irrazionale prodotto da un errore elettronico che permette agli androidi di oltrepassare il Rubicone e uccidere un umano, appare nella serie come una reazione violenta articolata e fondata sui ricordi, sui traumi personali che finiscono non solo per costruire l’identità degli hosts, ma che li rende capaci di stabilire relazioni di empatia con gli umani6. Riprendendo la formula di Blade Runner (1982), nella serie si pretende di costruire un essere umano attraverso l’installazione di ricordi. Come ci spiega la mitica scena del film di Ridley Scott, dove appena concluso il Voight-Kampff test effettuato a un replicante ignaro di esserlo, emerge chiaramente la difficoltà di differenziare l’umano dal replicante dotato di ricordi:

Il commercio è il nostro obiettivo, qui alla Tyrell. “Più umano dell’umano” è il nostro motto. Rachel è un esperimento, niente di più. Abbiamo iniziato a riconoscere in loro una strana ossessione. Dopotutto, sono emotivamente inesperti, con pochi anni… In cui immagazzinare le esperienze che voi e io diamo per scontate. Se li dotiamo di un passato, creiamo un cuscino o un guanciale per le loro emozioni. Di conseguenza, possiamo controllarli meglio. 
– Ricordi. Lei parla di ricordi

Sono i ricordi che umanizzano gli hosts proprio perché nel processo di evocazione di un ipotetico passato, nell’evocazione del vissuto, si costruisce l’empatia con lo spettatore. Di conseguenza, come già accennato, la violenza esercitata dagli hosts è percepita come legittima reazione alla barbarie umana. Inoltre, l’atto violento, quando compiuto da un host, viene compreso come espressione di una naturale indeterminatezza dell’androide, il ché si aggiunge a rinforzare l’umanizzazione di queste entità intelligenti. Il risultato è che in questa valle perturbante la sindrome di Frankenstein non si manifesta, e la valle è perturbante proprio perché la repulsione è verso gli umani, autori delle peggiori atrocità. Gli hosts sono, agli occhi dello spettatore, propri simili; gli hosts sono individui completamente familiari a noi, umani. Tuttavia, la loro presenza costruisce un Unheimlich, generato proprio dall’incapacità dello spettatore di riconoscersi nell’umano; in altre parole, l’Unheimlich che si manifesta nella serie risiede nella forza che spinge allo spettatore a vedere nell’umano ‘l’Altro’.

(1continua)


  1. Su questo concetto, vedere Mori M., (1970), The Uncanny Valley, Tr. Eng. K.F. McDorman & T. Minato. Energy, 7:33-35.  

  2. Weil S., (2014), L’Iliade ou le poème de la force, Éclats, Paris.  

  3. Su questo argomenta, vedere Bataille G., (1949), La part maudite, in Oeuvres complètes. Vol. 7. G. Bataille, Gallimard, Paris, p. 62.  

  4. Duarte, G.A., (2015), “La chose maudite”. The concept of reification in George Bataille’s The Accursed Share, in Human and Social Studies De Gruyter, Vol. 4 (1): 91-110.  

  5. Bataille G., (1949), “La part maudite”, in Oeuvres complètes. Vol. 7. G. Bataille, Gallimard, Paris, p. 55.  

  6. A questo proposito, consiglio il testo di Alfredo Rizza, The ‘Death of Neighbour’ Seen in a Black Mirror – (“Be Right Back” on Solaris), dove l’autore analizza, attraverso il concetto di tecnologie fatiche e l’interazione linguistica, la forma in cui la fantascienza ha introdotto nell’imaginario collettivo l’ipotesi di ricreare un soggetto per mezzo di una ricostruzione linguistica dei suoi messaggi, email, discussioni, e conversazioni.