di Jack Orlando

Fabio Piccolino, Simone “Danno” Eleuteri, Massimiliano “Masito” Piluzzi; Colle der Fomento. Solo amore; Minimum Fax; Roma 2022; pp. 476 20€

Quasi sei mesi. Tempo interminabile per una recensione.
Rimandi, incombenze, agitato procrastinare di vita metropolitana.
Nelle paranoie serali immagino l’espressione contrariata dell’ufficio stampa a cui ho chiesto il volume.
Ogni tanto sorge il dubbio “ma chi cazzo me l’ha fatto fare?”, ok, è vero che nelle mie stanze lo stereo suona per metà della giornata e che, spesso e volentieri, è l’hip hop nostrano la colonna sonora.
Ma io non scrivo mai di musica, mica sono un critico musicale… non ho idea di dove mettere le mani. Sono un militante che scrive di politica e tra l’altro, fedele alla mia di old school, rifuggo regolarmente lo scrivere in prima persona, imperdonabile peccato di individualismo alla luce di un’etica incardinata sulla dimensione collettiva.
Ci sono grosse deviazioni dalla disciplina qui. Si cammina su sentieri incerti.

Ma se non ho mai recensito un disco, né un libro sulla musica, la domanda a cui rispondere è: perché quest’impulso? Per quale motivo dovevo leggere e, soprattutto, scrivere di un libro su un gruppo hip hop romano?
Perché c’è qualcosa che è rimasto in sospeso, e che cerco di recuperare.
C’è una presenza assenza che si muove sempre dietro i miei fogli e a cui non riesco a dare voce.
Che cosa hai fatto per tutto questo tempo?

Ricordo il mio primo concerto punk in una scuola occupata, la prima serata tekno in un centro sociale, il primo del Truceklan al Verano (almeno credo fosse lì); tendenzialmente le prime volte si ricordano sempre, o quasi.
Perché il mio primo concerto del Colle Der Fomento non me lo ricordo.
Eppure, o forse proprio per questo, negli ultimi sedici anni avrò assistito almeno ad una dozzina dei loro show. Ma quella prima volta resta in una nebbia vaga, accatastata in un magazzino del cervello, sfocata, insieme ad un esercito di episodi archiviati frettolosamente.
Quello che posso dire sicuramente è che, come il 90% degli adolescenti del primo decennio Duemila, i primi pezzi del Colle l’ho scoperti in cameretta, col passaparola, mentre si scaricavano tonnellate di musica da Emule e Limewire e qualcuno, dopo l’ennesima canna, rimaneva impallato a guardare fisso quell’orrendo salvaschermo psichedelico di Windows Media Player.
No, niente vinili e nessun mc nella banda dove crescevamo, al massimo qualcuno che sapeva usare la bomboletta su un muro, di sicuro non io che ho sempre creato degli abomini malfermi, tanto con lo spray che con la matita; una giovinezza canonicamente molto poco hip hop.

Eppure il CDF, tra le diverse influenze, è stato una presenza costante, per noi come per tante altre bande di ragazzini; in qualche modo ci siamo cresciuti, è il suono originale che ci piace. E nel tempo ce lo siamo tenuto stretto.
Dai banchi di scuola alle prime comitive, dall’università a quella merda di mondo del lavoro. Ospite fisso di ogni playlist personale.
Alla fine, la musica del Colle è diventata un pezzo di identità collettiva, non poteva essere altrimenti: perché ci sono dall’inizio, dalla Roma delle Posse nei ‘90, perché ci hanno parlato di noi che giravamo col cinquantino sotto il cielo della nostra città o di quando ci pioveva in testa e non sembrava smettere, di quando ci siamo persi e a guardare indietro tutto era magia.

Ancora di più: perché è uno di quei pochi esempi rimasti di musica autentica, fatta perché se ne ha bisogno e non per i soldi, perché segue la sua ricerca e la sua evoluzione, nessuna moda e zero parruccate; che se ne frega delle major, dei contratti e delle passerelle, eppure sfonda e rimane al centro della scena, contando solo sui propri mezzi.
Underground e indipendenti ma assolutamente mai marginali né scrausi.

Tre decenni, praticamente una vita, e il Colle resta in piedi e non regala niente.
In quattrocento e passa pagine di libro sulla loro esperienza, non si legge solo della carriera artistica di un gruppo, si legge una storia di Roma; la sua controcultura, la socialità degli spazi alternativi, le comitive dei muretti, una storia che ci appartiene, ma anche qualcosa in più.

Citare dalla coda, dribblare lo spoiler:

Non soltanto un’avventura musicale ma il racconto di come si possa tentare una strada diversa, di quanto possa essere faticoso percorrerla pur conoscendo la rotta, per accorgersi infine che ne è valsa la pena. È la storia di persone che hanno attraversato questi anni insieme e di tante altre che pur non conoscendosi sono unite da un sentire comune, dalla consapevolezza di essere parte di un qualcosa in cui identificarsi. Un rapporto speciale che ha a che fare con i sentimenti, le percezioni, l’empatia […] è “fam, not fan”: è famiglia, ed è qualcosa di cui facciamo parte.1

Eccolo il succo: il punto non è l’essere hip hop, e non è nemmeno (soltanto) la musica, il punto è che si tratta di una questione d’attitudine; è ricerca continua, è il cammino da cani sciolti che sanno unirsi in branchi, è essere famiglia per salvarsi da una vita che stritola, è restare fedeli a sé stessi mentre intorno cambia tutto e cambiamo anche noi.
Quel magliettone col fiammifero non lo abbiamo più nell’armadio ma, come il Colle, siamo ancora ghetto chic, finché cerchiamo di tirare fuori qualcosa di bello dalla merda che viviamo, perché ci si rigira lo stomaco se non trasformiamo i nostri giorni e pure se oggi abbiamo sulle spalle trenta o quarant’anni e di cazzate ne facciamo molte meno, abbiamo ancora la visiera del cappello calata bassa sopra gli occhi.
Né per l’oro né per loro, solamente perché…

Se lo abbiamo imparato, se quest’attitudine ce la siamo coltivata dentro, molto è stato anche grazie a queste rime, che ce le siamo portate appresso.
Qualcuno se l’è messa nella bic e nelle pagine sporche d’inchiostro, qualcuno dentro i guantoni su di un ring, c’è chi l’aveva nelle cuffiette mentre si staccava da terra l’aereo a Fiumicino e si cercava un futuro altrove, chi l’ha usata come stampella quando usciva dal reparto psichiatrico e chi come scudo mentre era ostaggio dello Stato.
Questa roba ci ha accompagnato e ci ha cresciuto, mentre piangevamo e ci mettevamo il ghiaccio sui bozzi e mentre ridevamo e ci regalavamo abbracci.

E allora davvero, per questa storia, non ci poteva stare titolo migliore che Solo amore.
Quasi sei mesi ci ho messo, e solo un paio di paginette, dovevo scrivere una recensione e ho fatto tutt’altro.
L’espressione contrariata dell’ufficio stampa, le mie paranoie serali.
Però, ecco che cosa avevo lasciato in sospeso.
In fondo cercavo l’occasione.
Serviva un cenno che fosse scritto, pure se rapido e leggero, ma che non restasse sempre sottinteso, per quei pischelli sui muretti sempre in bilico; per quel senso d’appartenenza che conserviamo in un angolo del petto insieme a nomi, volti e sensazioni; per quell’identità che in fondo ti fa amare questa città pure quando ti scortica e non ti rende indietro un cazzo; per quegli attimi e quei battiti che ti costruiscono.
Che puoi non ascoltare, ma non puoi cancellare.


  1. Op. cit.; pp 399-400 

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