di Sandro Moiso

Jamaica Kincaid, Biografia di un vestito, Adelphi Edizioni, Milano 2023, pp. 45, euro 5,00

Occorre tornare con la memoria agli anni Cinquanta per ricordare come le donne dei ceti sociali più umili parlassero con rispetto e ammirazione per il popeline, un leggero tessuto di cotone, lucido, compatto e resistente anche se morbido. Il cui nome deriva dal francese che, in origine, indicava un tessuto pregiato e pesante per l’uso invernale, prodotto nel XIV secolo ad Avignone allora residenza papale, da cui il nome originario di ‘papaline’.

Ed è proprio questo tessuto a servire da trama per una brevissima ed efficace narrazione autobiografica che permette alla scrittrice statunitense, di origine caraibica, Jamaica Kincaid (nata nel 1949 ad Antigua) non tanto di raccontare la propria infanzia, ma piuttosto una condizione femminile e “coloniale” di cui la madre diventa l’esempio centrale. Narrazione che, nel racconto che dà il titolo anche al libretto, edito col numero 21 nell’agile collana “Microgrammi”, ruota intorno ad una fotografia scattata all’autrice in occasione del suo secondo compleanno.

Uno spaccato di vita famigliare e di vita in un paese che ha acquisito la piena indipendenza dal Regno Unito soltanto dopo il 1974, ma che fa parte del Commonwealth e dipende dalla sua corona ancora oggi, insieme all’isola di Redonda con cui forma le Indie Occidentali Britanniche; un territorio insulare, quello di Antigua, grande una volta e mezzo l’isola d’Elba1 sul quale sbarcò nel 1493 Cristoforo Colombo, che sembra concentrare nella vita degli abitanti, e soprattutto delle famiglie meno abbienti, come quella dell’autrice, tutte le condizioni di dipendenza economica e culturale in vigore nelle colonie europee del XX secolo.

Una condizione che si manifesta indirettamente nelle aspettative (scarse) di una donna (la madre) che cerca di inventarsi eventi insignificanti per nascondere, prima di tutto a se stessa, la delusione di una vita in cui una figlia, frutto di una maternità indesiderata, più che rappresentare una gioia finisce col rappresenta un peso ulteriore e un maggior carico di lavoro. Esser moglie e madre in una famiglia povera, per giunta di colore in un paese dominato dalle élite di carnagione più chiara, se non bianca aggrava, infatti, la condizione femminile, al di là di qualsiasi retorico discorso sulla famiglia, la maternità e l’amor figliale.

Riflessioni, memorie e descrizioni di ambiente che rinviano anche ad uno dei primi romanzi di un’autrice2, che oggi vive tra il Vermont e la California, che, senza cadere nello stucchevole autobiografismo intimistico oggi tanto di moda, illumina di luce allo stesso tempo fredda e abbagliante sia momenti del passaggio dall’infanzia all’adolescenza e del contemporaneo passaggio dall’amore per la madre al conflitto con la stessa, che il “senso” della vita di quest’ultima. Una sorta di itinerario nell'”infelicità” della madre, sulla quale l’autrice sarebbe poi ancora tornata con il suo Autobiografia di mia madre3.

E’, in fin dei conti, la storia di uno scatto fotografico quella che la Kincaid ci narra, per ricordare una situazione da cui, secondo la sua biografia, si allontanò a sedici anni per recarsi a New York per studiare. Una situazione in cui l’unica occasione di festa poteva essere data da un compleanno per cui la madre aveva cucito con cura e perizia inaspettata un abitino giallo che sarebbe stato usato una sola volta, visto che per l’occasione successiva (il terzo compleanno) si sarebbe già rivelato di dimensioni inutilizzabili.

Il secondo racconto, Quando ho rimesso insieme i pezzi, contenuto nel volumetto, ricostruisce invece le vicende successive alla scelta di andare a New York, dove l’autrice per iniziare a scrivere avrebbe scelto di cambiare il nome originario, Elaine Cynthia Potter Richardson, in quello attuale, visto che la sua famiglia non avrebbe mai approvato la sua scelta di diventare scrittrice. Probabilmente la sua famiglia non avrebbe nemmeno approvato la vita che ben presto, tra disillusioni, alcol, sesso disordinato e droghe la giovane avrebbe iniziato a condurre negli ambienti artistici, ma non soltanto, della Grande Mela.

In questo secondo racconto a predominare è la biografia dell’autrice, insieme alle lunghe notti e serate da riempire, pur avendo pochi dollari a disposizione, e al disordine che ancora una volta sembra in parte derivare dal colore della pelle e dalla condizione cui questo condanna anche in una nazione “libera” e apparentemente “liberal”.

Fu proprio quando ormai disperavo di diventare una scrittrice che feci domanda per un posto da segretaria ala rivista «Mademoiselle». Avevo ventiquattro anni. Al colloquio di lavoro indossavo una gonna cortissima, una camicetta di nylon sotto la quale non portavo il reggiseno, scarpe rosse dai tacchi molto alti e cerchietti bianchi intorno alle caviglie, e niente cappello a coprire i cortissimi capelli biondi. «Mademoiselle» non mi assunse. La gnte con cui avevo parlato era stata molto gentile e affettuosa con me, sia al telefono sia di persona, e così mi ci volle molto per comprendere che non mi avrebbero mai assunto, Mi chiesi se fosse stato per le scarpe e i cerchietti alle caviglie, o forse per i capelli. Parlavo di queste cose con un amico, chiedendomi a voce alta perché non fossi stata presa a «Mademoiselle» quando sembrava che fossi piaciuta parecchio, e lui disse: Ma come avevo potuto fare domanda in un posto come quello – non lo sapevo che non assumevano ragazze nere?4

E’ una scrittura asciutta, distaccata quella con cui la Kincaid parla di sé e della propria identità, toccando temi talvolta scabrosi che rimandano, a tratti, alla scrittura di Lucia Berlin, altra americana (bianca) dalla vita difficile. Ma a differenza della seconda, la prima non sembra provare alcuna emozione e commozione oppure mostrare autocompatimento, nemmeno per se stessa o per la madre, mentre a trionfare sono invece osservazioni quasi di carattere entomologico, che ne fanno un’autrice in sé davvero unica. Una scrittura anti-coloniale in cui l’estraneità e l’odio per gli oppressori si può concentrare tutto in una singola frase come questa: «pagò con una banconota da una sterlina con l’effigie di re Giorgio V (un uomo brutto dal naso ossuto, crudele, affilato, non uno dei nasi gentili, morbidi, carnosi cui ero abituata allora)»5. Un risultato non da poco in un mondo in cui la letteratura sembra traboccare di sentimenti e piagnistei tesi soltanto a solleticare superficialmente la mente e le emozioni degli sfortunati lettori che vi si imbattono.

Roberto “Bobi” Bazlen (!93-1965), vero ideatore del successivo percorso della casa editrice Adelphi, avrebbe voluto che il catalogo della stessa fosse composto da libri “unici”. Forse questa aspirazione non è stato possibile realizzarla, ma sicuramente autrici ed autori “unici” l’hanno popolato e continuano ad animarlo. E tra questi, sicuramente, va annoverata Jamaica Kincaid. Imperdibile per chiunque ami la letteratura e abbia in odio il colonialismo e le sue conseguenze sui popoli che l’hanno subito.


  1. «Un universo lungo una ventina di chilometri e largo una quindicina» nella sintetica descrizione che ne fa l’autrice stessa in un altro suo libello: Un posto piccolo, Adelphi, Milano 2000 (ed. originale A Small Place – 1988)  

  2. J. Kincaid, Annie John, Edizioni Adelphi, Milano 2017 (prima edizione in lingua originale 1983-1985)  

  3. J. Kincaid, Autobiografia di mia madre, Adelphi, Milano 1997 (ed. originale 1995) cui vanno affiancati ancora, per amor di precisione: Lucy, Adelphi, Milano 2008 (ed. originale 1990), ancora sull’infanzia dell’autrice; Mr. Potter, Adelphi, Milano 2005 (ed. originale 2002), dedicato al padre assente, odiato e amato allo stesso tempo («Mr. Potter è crudele, indifferente, ripiegato su se stesso. Non ha mai amato nessuno, neppure le molte bambine con il naso uguale che gli hanno generato troppe donne diverse») e Mio fratello, Adelphi, Milano 2020, (ed. originale 1997).  

  4. J. Kincaid, Biografia di un vestito, Edizioni Adelphi, Milano 2023, p. 41.  

  5. Ibid., p.15