di Francesco Festa

Carmine Conelli, Il rovescio della nazione. La costruzione coloniale dell’idea di Mezzogiorno, Tamu Edizioni, Napoli, 2023, pp. 237, € 15,20

C’è una nota affermazione di Jacques Derrida dove il pensatore francese sosteneva che nel parlare del margine in realtà parliamo del centro, ossia, tocchiamo il cuore del problema, anzi, decostruiamo il centro a partire dal suo margine, laddove questo, obliquamente, ci mette nella condizione di osservare il centro in tutta la sua limitatezza.
Il libro di Carmine Conelli ci restituisce questo effetto, cioè, di parlare di un tema posto ai margini, situato icasticamente alla periferia della storia, ciò nondimeno, così potente da essere la spina nel fianco di questa “nazione”, la cruna dell’ago da cui, chiunque si confronti con esso, debba giocoforza passare.

In effetti un libro che parli del Mezzogiorno d’Italia ha poche alternative: o è un libro scomodo, che punta dritto al cuore sferrando l’attacco dalle retrovie, da dove non ti aspetti e va a colpire un fianco aperto, oppure è un deja vu, qualcosa di già letto. Se è quest’ultima la china, il discorso procederà con le lamentele e le recriminazioni, sulla “questione meridionale”, su ciò che è stato fatto, o non fatto, i soldi investiti e quelli sperperati o spariti, quanto sia responsabilità della classe dirigente oppure sulla responsabilità della cultura dei meridionali. Un testo del genere condurrà il lettore al cul-de-sac dove sono esposte la responsabilità, l’assenza di senso civico e di cultura della modernità dei meridionali.

Il rovescio della nazione, per fortuna, fa piazza pulita di questi discorsi depotenzianti, dei cliché e degli stereotipi, anzi, se ne tiene ben distante. È un libro scomodo, innanzitutto, che partendo dal margine meridionale cerca di indagare su ciò che può essere un punto di vista autonomo, altro, sul Meridione. È stato volutamente scritto per una facile divulgazione, superando gli specialismi, tralasciando – a ragione – l’infrastruttura bibliografica che sorregge l’impianto teorico delle categorie in esso utilizzato e che ha lavorato, almeno negli ultimi venti anni, come una talpa per decostruire e ricostruire l’idea di Mezzogiorno.

Sbrogliata la matassa dei discorsi depotenzianti, nel libro si coglie una stratificazione bibliografica, composta di saggi, articoli e libri pregressi i cui echi sono percepibili solo da chi ne conosce i rimandi; infatti, al lettore comune Il rovescio della nazione appare come un’opera straordinariamente originale, poiché ne elude la genealogia.

Vale la pena però qui ripercorrere la stratificazione bibliografica e risalire a quanto nel “presente storico” del Meridione, per dirla con Marx, vi sia il frutto di un lavoro di rovesciamento di paradigma, ciò non solo per ripercorrere la genealogia de Il rovescio della nazione ma tutta l’opera di studiosi e di collettivi che negli ultimi vent’anni hanno lavorato per smontare il regime di verità costruito sul Meridione, segnalando il rimosso, il non detto, il forcluso della storia italiana, ciò che Miguel Mellino chiama l’“inconscio coloniale delle strutture del sentire nazionale”.

Occorre riandare agli anni Novata, all’avanzata del leghismo e all’emergere di una “questione settentrionale”, violentemente impostasi – e nei discorsi e nelle pratiche – contro la “questione meridionale”. Alla fine di quel decennio è incominciato a nascere come una sorta di revisionismo della storia del Risorgimento e dell’Unità d’Italia. La cifra stilistica di chi ne sosteneva movimenti culturali e politici ruotava sull’assunto che sotto i Borbone si stava meglio: Napoli capitale di un regno, la prima linea ferroviaria e le prime industrie erano al Sud, e via discorrendo, ignorando come tali primati corrispondessero solo ai capricci e agli interessi della casa reale e della borghesia proprietaria, la quale sotto il Regno Sabaudo cambiarono casacca garantendosi le medesime proprietà. I sostenitori di tali tesi si appoggiarono in seguito anche a libri, sempre di fattura revisionistica, scritti da giornalisti o presunti storici, con una debolezza disarmante di fonti storiografiche, ciò nondimeno ebbero una larghissima diffusione fra discount e autogrill. E gli effetti sono stati devastanti. Hanno suscitato un’eterogenesi di reazioni: da una parte, libri di taglio opposto ma dalla stessa fattura, dall’altra, in ambiti accademici, si sono intensificati gli studi a sostegno di tesi per lo più di matrice crociana e storicista, che hanno cercato di giustificare il processo unitario come necessario e ignorato sans phrase la “questione coloniale interna”, adoperando una categoria di Nicola Zitara. In altre parole, quelle reazioni hanno messo all’angolo all’interno della “costruzione della nazione” alcuni campi d’indagine afferenti al processo di unificazione e a quanto avvenuto a cavallo tra Otto e Novecento. Ne citiamo alcuni: il tema della colonialità, la struttura dell’accumulazione capitalistica, la politica delle differenze e i processi di razzializzazione. Tali temi forclusi si sono stratificati, non sono scomparsi, anzi, hanno continuano ad agire nel senso comune, tuttavia non sono stati studiati organicamente, se non affrontati sporadicamente da qualche studioso illuminato, ma in ogni caso sono rimasti dei temi isolati, assai poco introdotti negli studi sul Mezzogiorno, i quali sono rimasti ostaggio dell’economia politica, delle astratte cifre dei dati sugli indici di sviluppo o di differenza dalle province settentrionali.

Eppure qualcosa si stava muovendo alla fine degli anni Novanta. Una serie di ricerche, seppur con distinti approcci, andava dischiudendo tramite innovativi metodi di osservazione un altro modo di interpretare il Meridione d’Italia. Che potremmo leggere nella categoria di “pensiero meridiano”, dove “meridiano” addiviene a un altro sentire del Sud: una collocazione geografica quale incontro tra la terra e il mare, una collocazione di confine che simboleggia “la difficoltà di stare in un solo luogo”, la coesistenza di più “patrie” e, dunque, la garanzia di identità complesse e di riscatto da soffocanti campanilismi. Una volta rotta la gabbia della reductio ad unum e interpretato il Sud nella sua multiformità, l’esplosione di senso ha permesso nuove riflessioni sulla sua storia. Ne citiamo alcune: il processo di accumulazione originaria a cavallo fra Otto e Novecento che ha determinato, lungo il piano storico del capitalismo internazionale, la ricerca di nuovi spazi e nuove periferie da colonizzare, instaurando “politiche delle differenze”, cioè, politiche di inclusione differenziale a seconda della composizione lavorativa richiesta in particolare nelle province meridionali; il che, in decenni in cui infieriva il “romanzo antropologico” della scuola positivista, la razzializzazione quale dispositivo di controllo della popolazione e delle forze produttive è divenuto un modello di governo nel corso del Novecento, così a determinati rapporti di produzione è corrisposto un determinato ordine del discorso razzista.

In quest’ambito di studi una menzione particolare va fatta per “Meridiana”, una rivista nata all’interno dei dipartimenti di storia di alcune università meridionali, con la collaborazione anche di storici inglesi e americani. “Meridiana” ha certo gettato luce sul Mezzogiorno da altre prospettive. Innanzitutto, nella ricchezza e multiformità delle sue province, rifuggendo dalla tediosa “questione meridionale”, a causa della quale l’osservazione è stata curvata esclusivamente verso la dimensione dell’arretratezza, non solo economica e politica, ma anche sociale, civile e culturale, contrapponendo il Sud, nel suo complesso, al Nord prospero e progredito, centro reale della storia. “Meridiana” ha di fatto messo in dubbio il meridionalismo tradizionale come unica prospettiva possibile. Dello stesso tenore è il libro del 1999, Oltre il meridionalismo. Nuove prospettive sul Mezzogiorno d’Italia, curato dagli statunitensi Robert Lumley e Jonathan Morris, che affronta argomenti classici come l’economia del latifondo, la criminalità organizzata o la struttura del potere locale, e temi in quel tempo ancora insondati come, ad esempio, la nascita degli stereotipi sul Sud.

Nello stesso periodo, gli studi si sono intensificati e, soprattutto, si è andata arricchendo la cassetta degli attrezzi del pensiero meridiano. Passaggio fondamentale è stato il 1996, con l’uscita de Il pensiero meridiano del filosofo Franco Cassano, senza dubbio un attrezzo apripista per un punto di vista autonomo sul Meridione e sulla molteplicità dello stesso, rivalutando quelle caratteristiche del Sud, stigmatizzate dal meridionalismo classico e viste come patologie alla sua crescita e alla sua modernizzazione. Il pensiero meridiano muove da tre idee principali e promuove due metodi di azione. Partendo da una critica agli interventi imposti sul Sud, finalizzati a ridurre lo scarto con il Nord, ma che anziché agire da cura ne hanno aggravato le patologie – in certi casi le avrebbero persino create – e promosso il sottosviluppo, viene proposto come primo assunto un Sud soggetto di pensiero, che pensi da sé e per sé, capace di riconquistare la propria autonomia; per operare un’inversione di marcia la prima azione è quella di abbandonare la corsa allo sviluppo inteso come tecnicizzazione, industrializzazione e accumulo capitalistico, sviluppo che si è cercato di realizzare, senza successo, “prostituendo il territorio e l’ambiente, i luoghi pubblici e le istituzioni” e ricorrendo ad attività criminali, quando poi sono falliti metodi e forme legali. La seconda azione è aspirare a un diverso ideale di modernità e di sviluppo e creare questo ideale attingendo al proprio patrimonio culturale e al proprio deposito di risorse e valori, quelle risorse e quei valori che sono stati finora visti come “vincoli, limiti e vizi” dai sostenitori della modernità e che oggi esistono solo in forme disperse o malate.

Sono seguiti altri studi che hanno proseguito lo scavo inaugurato da Il pensiero meridiano tuttavia ognuno di essi ha dovuto confrontarsi col suo punto di vista sul Sud. In tal senso, come già fatto da Cassano, si può considerare l’utilizzo dell’“orientalismo” alla storia culturale italiana. Un concetto d’ispirazione gramsciana, elaborato poi da Edward Said negli anni Settanta per interpretare il rapporto Oriente/Occidente tramite la lente dell’egemonia culturale: il “materialismo geografico” che caratterizza i processi di accumulazione a seconda dei differenti contesti territoriali, visibile anche e soprattutto della rappresentazione culturale che la parte egemone costruisce sulla parte subalterna. Nel 1998 esce a cura di Jane Schneider, Italy’s ‘Southern Question’ Orientalism in One Country, un libro che raccoglie studi storici e antropologici, promosso da università statunitensi e indiscutibilmente debitore di Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente di Said. Un altro passo fondamentale è stato compiuto, sempre nel ’98, con la pubblicazione di Come il Meridione divenne una questione. Rappresentazione del Sud prima e dopo il ’48 di Marta Petrusewicz e a seguire da Sull’identità meridionale. Forme di una cultura mediterranea di Mario Alcaro.

Importa sottolineare come il risultato più significativo conseguito da questo sforzo di pensiero, da queste ricerche, sia stata la critica all’usurata “questione meridionale” e di tutta quella corrente economico-politica che va sotto il nome di meridionalismo, ovvero la costante demolizione spietata del Sud attraverso una rappresentazione di varia natura e desolazione iniziata e sviluppata a partire dalla fine dell’Ottocento. In realtà, non si è trattato solo di fare i conti con la radice liberal-risorgimentale che ha alimentato il meridionalismo, tanto nella sua versione dorsiana-salveminiana quanto in quella marxista-togliattiana, bensì si tratta, ancor oggi, di individuare la classe politica – e della sinistra riformista e di quella centrista – sparsa anche al di fuori del Mezzogiorno, nella pubblica amministrazione, nelle burocrazie sindacali e di partito, nelle redazioni dei giornali e delle emittenti televisive, che continuano a riprodurre una opinione pubblica accidiosa, svolgendo un pensiero in continuità con quel meridionalismo “sviluppista” in cerca di interventi speciali, che ha in sé il paradigma dell’emergenzialismo, sostenuto da attività di studio e di ricerca, con consolidate risorse accademiche, i cui esiti sono assai caricaturali. La posta di quegli studi meridiani, invece, è stata ben più alta: aprire gli studi sul Sud, sottraendoli ai dati legati al Pil, all’economia politica, alle classifiche dei tassi di crescita, puntando ad altri ambiti: l’antropologia, la sociologia comparata, la storia delle idee, delle passioni comuni, dei desideri, dei movimenti, della comune apprensione del tempo e della natura, della psico-analisi della vita quotidiana, del senso comune e delle forme di rimozione collettiva.

Con gli anni duemila, la cassetta degli attrezzi meridiana si arricchisce notevolmente: appaiono in lingua italiana le traduzioni di alcuni saggi e articoli, in gran parte anglo-sassoni, che vanno sotto il nome di Postcolonial studies, Subaltern studies o anche più genericamente Cultural studies. Per lo più è materiale di studio svolto in riviste collettive indiane o della diaspora coloniale. Stuart Hall, Paul Gilroy, lo stesso Edward Said o gli storici Ranajit Guha e Dipesh Chakrabarty, e la filosofa Gayatri Chakravorty Spivak, sono alcuni riferimenti di questa corrente di studi, i cui strumenti interpretativi si mostrano subito utili, sia agli studi sul Meridione sia al dibattito del movimento noglobal (in quegli anni, in pieno fermento nella critica alla modernità capitalistica e al paradigma della globalizzazione neoliberista), infatti è dei primi anni duemila, un numero speciale della rivista DeriveApprodi, intitolato proprio Movimenti postcoloniali.

Di indubbia importanza, nella stratificazione che stiamo ripercorrendo, è l’originale lettura del pensiero di Gramsci offerta dai subaltern studies. Liberato dalle maglie imposte da Palmiro Togliatti, con la pubblicazione dei Quaderni del carcere nel 1948, Gramsci riacquista quella potenza interpretativa della realtà sociale. Le sue numerose categorie sono così diventate strumenti utili per leggere la produzione del mondo da parte del capitalismo, ma soprattutto leve per disarticolarlo. Oppure l’analisi dei “gruppi subalterni” o l’idea di “egemonia”; il campo dell’“ideologia” e della cultura oppure l’archivio dei “luoghi comuni” che è stato indagato approfonditamente da Gramsci in un rapporto di tensione con il marxismo classico e di abbandono delle semplificazioni del “riduzionismo” e dell’“economicismo”; le “società” o le “formazioni sociale”, ove si combinano in modi differenti istanze economiche, politiche, ideologiche, i costumi, le abitudini e le “tradizioni” nazionali.

A cavallo dei due secoli, Lidia Curti e, poi, il Centro Studi Postcoloniali e di Genere hanno svolto una funzione indispensabile per la traduzione e la diffusione a livello internazionale degli Studi Postcoloniali. Curti insieme a Iain Chambers ha curato il volume La questione postcoloniale nel 1997, da quella pubblicazione in poi vi è stato un crescendo di ricerche con sede presso l’università l’Orientale di Napoli, diffondendo conoscenza critica dei rapporti di sapere e di potere, decostruendo i processi di colonizzazione e subordinazione e focalizzando gli studi lungo la linea della disuguaglianza razziale e di genere. Lo sviluppo del pensiero di Chambers ha certo aperto la strada all’introduzione degli studi postcoloniali nelle ricerche sul Sud e sul Mediterraneo. Qualche anno fa, scriveva Chambers: “Smontare il Sud per permettere che un altro Sud possa emergere, significa cercare un’altra grammatica con cui narrare questo tempo-spazio costruito e costretto a ripetersi nello specchio di una subalternità costante. Insistere sul ruolo determinante del Sud nella riproduzione politica e culturale dell’egemonia del Nord, come parte integrante della sua riproduzione, significa già smantellare la gabbia”.

Emancipato dai fardelli del meridionalismo e arricchito da questi contributi, nel 2008, Franco Piperno cura il volume Vento del meriggio. Insorgenze urbane e postmodernità nel Mezzogiorno. In realtà, Piperno dà forma e parole a riflessioni prodotte un decennio prima in Elogio dello spirito pubblico meridionale: genius loci e individuo sociale, uscito nel 1997; infatti Vento del meriggio raccoglie saggi provenienti da luoghi posti in quel conflittuale margine in lotta contro i modelli di sviluppo capitalistico imposti dallo Stato e dai governi dell’epoca e in contrasto con i desideri delle comunità. Un libro corale che parla delle lotte meridionali e offre loro un apparato teorico. Ritroviamo le lotte contro il nucleare a Scanzano, le rivolte contro l’inceneritore di Acerra o quelle contro la discarica di Serre, per un altro modo di gestione della raccolta dei rifiuti in Campania e per la filosofia di “rifiuti zero”. Sono solo alcuni esempi di un’opera che si presenta come sintesi di pratiche e condotte riconducibili al pensiero meridiano.

Il paradigma meridiano, al giro di boa del 2010, è ormai maturo. Si porta dietro tanto materiale: svariati saggi e interventi, qui brevemente scorsi, e una riflessione complessivamente solida sul Sud, una cassetta degli attrezzi a cui collettivi, centri sociali e organizzazioni di movimento possono attingere. Infatti, la sistematizzazione di questo svariato materiale avviene in un ciclo di seminari, fra il 2011 e il 2013, promossi dall’esperienza di Orizzonti meridiani, una rete che collegava ricercatori ed esperienze militanti. I materiali sono raccolti in Briganti o emigranti: Sud e movimenti tra conricerca e studi subalterni, del 2014, un libro collettivo che getta uno sguardo sulla condizione del Meridione, interrogandone l’esistenza stessa, a partire da una comune, autonoma temporalità, dal sentimento del luogo e del movimento che ne costituisce la specificità. Sono esercizi di decostruzione delle vecchie categorie concettuali sulle quali per anni si è fondata la tradizionale “questione meridionale”: la coppia sviluppo/sottosviluppo, dispositivo di governo che attraversa tutta la storia del Mezzogiorno, sancendone la presunta “arretratezza”; i discorsi di inferiorizzazione, spesso esplicitamente razzisti, che hanno avuto ampia parte nella costruzione della subalternità del Sud; le retoriche dello stato d’eccezione e della perpetua “emergenza”. Allo stesso tempo, sondano le nuove pratiche del comune, della riappropriazione, degli esperimenti di welfare dal basso, che animano le lotte della società meridionale. In quelle pagine trova applicazione il “materialismo geografico”, vale a dire, Gramsci che incontra i Subaltern studies e le prospettive postcoloniali per definire una cartografia delle lotte, delle resistenze, delle insorgenze che, da Sud, tracciano un’alternativa altermoderna, oltre la crisi del modello lineare e omologante di sviluppo imposto dal neoliberismo.

Questa è la genealogia cui attinge Il rovescio della nazione. Ma l’importanza di questo volume, così come ogni ricerca accademica, è quella tensione costituente ad arricchire la bibliografia esistente con ulteriori elementi. Ne consideriamo uno qui, vale a dire la definizione di “colonialità” che Conelli prende in prestito dal sociologo peruviano, Anibal Quijano, il quale la utilizza per denominare lo scarto tra il fenomeno della colonizzazione, intesa come processo militare, politico e culturale limitato nel tempo e nello spazio, e quello della colonialidad che è invece la forma materiale del potere. Se il colonialismo è la pratica di conquista, assoggettamento e sfruttamento, la “colonialità” è molto più duratura e profonda come forma di potere, poiché si fonda sulla giustificazione del ruolo dei colonizzatori – per Quijano gli europei – in qualità di organizzatori razionali del mondo e portatori di un ordine superiore – che in quel caso era l’eurocentrismo. Va aggiunto poi quel surplus, direbbe Étienne Balibar, di differenziazione costituito dall’idea di razza, quale strumento di “codifica e naturalizzazione di presunte differenze biologiche”. A questo punto, Conelli ha in mano una lente assai potente per portare in evidenza la sottile “filigrana della colonialità” mostrando come essa abbia attraversano decenni e decenni giungendo fino all’oggi, mutando la sua finalità, da mera politica economica a stereotipo, insidiandosi nelle categorie del pensiero e nel senso comune, una lente che ci consente anche di scorgere chiaramente la colonialità impregnata nelle politiche dell’“autonomia differenziata” in via di realizzazione dal governo post-fascista. Se ne evince bene la portata nel passaggio qui accluso:

L’espansione coloniale incise fortemente su quel processo di formazione dell’identità nazionale che fino all’unificazione e con la guerra al brigantaggio era avvenuto proiettando su un’alterità «interna» il rovescio della modernità auspicata dalle élite. Esso ora si ridefiniva attraverso il contrasto con l’alterità delle popolazioni colonizzate, che consentiva di ridurre la differenza imperiale con gli altri paesi d’Europa e di riportare all’interno del discorso nazionale gli stessi meridionali. Ci troviamo ora al punto di incontro tra la logica della colonialità che abbiamo individuato nel processo di costruzione del Sud e il fenomeno coloniale in senso proprio. Utilizzare il filtro della colonialità per passare al setaccio il campo discorsivo dell’identità nazionale italiana significa porsi sulla linea di demarcazione esistente tra questione meridionale e questione coloniale, rendendone cristalline le sovrapposizioni e le rotture inaugurate nella sfera pubblica italiana a partire dal periodo risorgimentale (p. 95).

Gli echi di quel catalogo dell’“altro indesiderato” si sentono ancora, come un brusio a volte percepibile talaltre meno, eppure è lì, sullo sfondo: i meridionali, passionali, indisciplinati, ribelli, individualisti e senza cultura razionale, civica, ordinata. Il rovescio della nazione va oltre questo catalogo, anzi, a partire dai frammentari “criteri metodologici” del Quaderno XXV di Gramsci, si pone alcune domande sull’attualità dell’organizzazione dei subalterni. Focalizzando i limiti di esperienze di autorganizzazione negli anni Settanta a Napoli, si concentra su ciò che è l’autonomia di comportamenti delle classi subalterne, quelle “contro-condotte” com’ebbe a dire Michel Foucault, grazie alle quali si possono immaginare e consolidare delle pratiche costituenti. Da qui, Conelli ci mostra la violenza dello Stato e dei suoi lacchè intellettuali nel rapporto con la subalternità o con ciò che è indesiderabile, il che si manifesta in maniera icastica sui bambini, sui corpi inermi, e l’autore dedica ampie riflessioni alla vicenda di Ugo Russo, il quattordicenne ucciso da un carabiniere. Il consiglio, spesso, è di tornare ai classici, in effetti, Vincenzo Cuoco annottando punti sulla sconfitta della Rivoluzione napoletana del 1799, rammentava come “le genti de’ geni, de’ spiriti”, assai spesso sono “incapaci di cogliere le distinzioni”, “di comprendere la molteplicità della realtà effettiva” della diversità.