di Mauro Baldrati

Forse potremmo cavarcela così: l’entertainment moderno si basa non su quello che dice ma come lo dice. Ovvero possiamo apprezzare storie o leggere libri le cui vicende, le cui poiesi sono in contrasto con le nostre idee, ma noi, con la nostra autocoscienza, possiamo ripulirle, scrostarle. Possiamo decontestualizzarle e godercele per quello che sono.

In letteratura i casi sono più rari rispetto al cinema, perché la scrittura è più pericolosa, è costretta a dire, anche se spesso si nasconde con l’inchiostro simpatico tra gli spazi bianchi. Così l’autore deve essere un giocatore d’azzardo coi sentimenti bassi, che riesce a gestire con spregiudicatezza ma anche con saggezza, senza farsi dominare.

Forse il caso letterario più eclatante è La capitale delle scimmie di Charles Baudelaire. Un libro razzista, odioso, ma che ci fa sorridere, per le sagome che contiene, gli insulti verso i belgi, sbertucciati anche con l’uso del body shaming, senza pietà. Lo scrisse per vendetta, senza terminarlo, nella fase finale della sua vita infelice, in occasione del viaggio a Bruxelles in cerca di fortuna, dopo i rifiuti in patria. Ma nessuno se lo filò, passò giorni, mesi in miseria, solo, malato, avvelenato dalla rabbia e dal rancore. Lo leggiamo e lo apprezziamo per quello che è, l’opera del più grande poeta della Francia moderna, sottovalutato, beat: una satira intrisa d’odio anche verso una certa modernità, ipocrita e mercantile.

La stessa modalità possiamo applicarla alla visione di due serie israeliane di genere thriller: Fauda e Hit & run.
Quello che dice: siamo regrediti all’epopea dei western americani degli anni Cinquanta, quando, secondo la narrativa ufficiale, gli eroici coloni ottocenteschi, difesi dai Templari in giacca azzurra, combattevano duramente contro i selvaggi indiani, barbari pagani votati al saccheggio e all’omicidio.
Come lo dice: con un linguaggio cinematografico innovativa che univa il racconto d’avventura a una rappresentazione storica accurata per l’epoca, per cui davvero ci sembrava di essere dentro la frontiera.

In Fauda una piccola task force di agenti speciali dell’unità antiterrorismo israeliana combatte con tenacia, a costo della vita, spinta dalla missione di difendere il proprio popolo dai feroci terroristi palestinesi disposti a tutto. Va avanti per quattro stagioni (la quarta è disponibile da qualche tempo su Netflix) con cadenza da thriller avvincente, adrenalinico, con una ricostruzione verosimile degli ambienti, dei personaggi, uomini e donne rappresentati in tutta la durezza del loro incarico, che si riverbera anche nella vita privata. Tra l’altro il protagonista, Doron, è interpretato dall’attore Lior Raz (che è anche co-creatore della serie) che nella vita ha davvero fatto parte delle forze speciali. Gli israeliani sono i buoni, come nei paleo-western lo erano i coloni e le giacche azzurre, mentre i palestinesi sono gli indiani selvaggi. E la guerra è totale, perché c’è in gioco la vita, propria e di un intero popolo. Tra l’altro contiene anche degli errori, delle forzature: i terroristi sono tutti di Hamas, che è certamente un’organizzazione combattente fondamentalista, ma qui vengono animati come burattini in una struttura semplificata, mentre nella realtà è molto complessa, segnata da contraddizioni e divisioni interne.

Nelle prime tre stagioni comunque gli sceneggiatori cercano di darsi una parvenza di tolleranza democratica. L’ambiente dell’antiterrorismo è segnato dalla burocrazia ottusa, dagli eccessi di dirigenti spietati e senza scrupoli, un po’ come in certi polizieschi hard boyled di Michael Connelly. Qua e là viene dato spazio agli spietati terroristi che si lanciano in riflessioni sull’occupazione di Israele. Capire il nemico insomma, come fa Tacito, l’antico cronista della Roma imperiale, che al seguito di Agricola durante l’occupazione della Britannia mette in bocca al capo barbaro Calgaco un proclama in cui viene evidenziata tutta la violenza predatoria dei romani (dei quali lui stesso è parte attiva).

«Predatori del mondo intero: quando alle loro ruberie vennero meno le terre, si misero a frugare il mare. Se il nemico è ricco, eccoli avidi; se è povero, diventano arroganti. Né Oriente né Occidente potranno mai saziarli: soli fra tutti gli uomini riescono a essere ugualmente avidi della ricchezza e della povertà. Depredare, trucidare, rubare essi chiamano con il nome bugiardo di impero. Dove passano, creano deserto e lo chiamano pace.»

Ma resta comunque una serie sionista, specialmente nella quarta stagione, dove i terroristi sono ancora più stereotipati, e non c’è più traccia di autocritica. Eppure come lo dice? Con una narrativa cinematografica di alta qualità, con un ritmo che tiene incollati al video, incantati dal verismo delle scene e degli ambienti, tanto che si interrompe il collegamento malvolentieri, per cucinare, per le commissioni, per lavorare e dormire.

Insomma, si può dire che “perdoniamo” Israele, l’occupante che col tallone di ferro del suo potente esercito, sostenuto e armato dall’America, opprime il popolo palestinese. Lo ha cacciato dalle terre fertili che già occupavano, e anche recentemente ha annunciato un nuovo spaventoso ampliamento della colonizzazione, con nuovi insediamenti che toglieranno ulteriori spazi ai palestinesi.

E chi non è in grado di discernere? Chi è distratto? Chi prende tutto alla lettera? La serie non toglie né aggiunge nulla alla disinformazione imperante, nella quale la decontestualizzazione procede in senso inverso rispetto alla nostra di spettatori un po’ cinici, per silenzi e notizia monche. Ovvero gli israeliani sono i buoni, attaccati e non attaccanti, e proprio come nella serie sono moderni, luminosi, civilizzati, mentre i terroristi sono entità oscure e fanatiche che minacciano gli eroi e la libertà.

HIT & RUN (L to R) LIOR RAZ as SEGEV AZULAI in episode 109 of HIT & RUN Cr. JOJO WHILDEN/NETFLIX © 2021

Hit & run prosegue nel genere thriller-spy story, con alcuni attori di Fauda, soprattutto Lior Raz, che qui è Segev, una guida turistica che fa una vita tranquilla in compagnia della moglie, ballerina che deve partecipare a una importante audizione a New York. La prima puntata e parte della seconda ci obbligano alla pazienza, per le scenette sentimentaliste tra lui e lei, quanto si amano, con dialoghi banali telefonati eccetera. Ma d’un tratto, con un’accelerazione improvvisa, lei viene investita da un’auto, che non si ferma. Ecco che parte il thriller. Segev naturalmente ha un passato militare nelle forze speciali, un addestramento indispensabile perché deve combattere duramente contro nemici ignoti, in un intrico internazionale che vede coinvolti il Mossad e la CIA, servizi segreti fratelli, ma anche parecchio coltelli.

I terroristi stereotipati sono spariti, cancellati. Ora si tratta di misteri politici, tradimenti, veli dell’apparenza che vengono squarciati, e come sempre ci lasciamo trascinare con piacevole abbandono dal ritmo furioso della vicenda e dai colpi di scena. Purtroppo giunge la notizia che Netflix ha rinunciato a trasmettere la seconda stagione. Speriamo che ci ripensi, perché la serie termina con Segev che corre all’impazzata verso l’ignoto, alla ricerca della figlia rapita, e noi smaniamo di gettarci a nostra volta nel running.

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