di Marco Gabbas

 Introduzione

Questo articolo ha l’obiettivo di presentare alcuni spunti di storia orale sul Pci e di collegarli ad alcune riflessioni più ampie sulla storia e l’eredità di un partito che ha avuto un ruolo fondamentale nella storia d’Italia. In realtà la storia dei due intervistati, che sono stati attivi nel Pci in una cittadina del Sud Italia, è più lunga, perché va a toccare parzialmente anche le esperienze politiche che si possono definire post-Pci, e che arrivarono sino agli anni 2000. Le due interviste fatte a questi ex militanti sono di particolare interesse anche per la diversa classe sociale di appartenenza degli intervistati. Mentre Donato era un medico benestante, Giacomo, figlio di un artigiano, ha svolto sempre la professione di impiegato (entrambi i nomi sono di fantasia). Questo articolo, però, ha anche un obiettivo più ambizioso. Le due interviste, infatti, vogliono essere un punto di partenza per fare un ragionamento più ampio sulla parabola del Partito comunista italiano, il cui centenario è caduto solo un paio di anni fa.

L’approccio è di tipo critico. Purtroppo, sembra che il centenario sia stata più occasione di condanne moraleggianti o di agiografie acritiche che di seri ragionamenti critici (in linea, bisogna dirlo, coll’andazzo generale che persiste al di là di specifiche ricorrenze) [1].  Dato che questo articolo parte dalla storia orale, è bene dire due parole di introduzione in materia. La storia orale è nata negli Stati uniti come modo per registrare la storia dei senza storia, per esempio di persone subalterne e analfabete che non avevano modo di lasciare traccia di sé. Un esempio dei primi studi di storia orale sono stati quelli sugli ex schiavi neri, o sugli ultimi pionieri. La storia orale si è in seguito diffusa anche in Italia, dove vanta ormai una lunga tradizione e studiosi noti e tradotti anche all’estero. Più in generale, la storia orale è spesso usata per raccontare la vita di particolari gruppi politici, sociali o etnici. Un esempio classico è la storia orale fatta intervistando i militanti di partiti e sindacati, gli immigrati in un dato paese, ecc. ecc. Naturalmente, proponendosi come una narrazione dal basso, la storia orale vuole spesso proporre una realtà alternativa a quella dominante. Da cui la particolare attenzione rivolta alla fonte orale, alla sua narrazione e ai suoi punti di vista.

Questo approccio soggettivo, però, può anche avere il rovescio della medaglia. Talvolta, c’è la tendenza di fare storia orale solo sui gruppi o le comunità di cui si fa parte o verso le quali si prova simpatia. Qui c’è un rischio: la storia orale non può trasformarsi in mera agiografia, senza alcun approccio critico? La questione è complessa, e non può essere certo esaurita in queste pagine. In breve, penso che per essere più preziosa, la storia orale non può sottrarsi ad alcune regole base della Storia in generale. Alcune di queste regole fondamentali sono l’attenzione e l’approccio critico verso qualunque fonte scritta o orale che sia, e il confronto continuo con altre fonti. Anche se la Storia non può pretendere di raggiungere una Verità unica e incontrovertibile, ci si può avvicinare il più possibile solo con il confronto tra fonti diverse, e più sono meglio è. Come qualcuno ha giustamente notato, la storia orale fornisce spesso una “verità psicologica” molto utile per capire perché certe persone la pensano in un certo modo [2]. In altre parole, la storia orale non sempre e non necessariamente fornisce dei fatti completamente veritieri. Il compito di chi analizza la fonte orale è quello di confrontarla con altre fonti (anche scritte) per separare il grano dal loglio, il fatto oggettivo e incontrovertibile dalla sua interpretazione personale (per es., il fatto che il Pci si sia dissolto nel 1991 è un fatto oggettivo; diverse interpretazioni personali ci diranno se ciò sia stato un bene o un male, perché è successo, ecc.).

Fare questo è indice di serietà e di un approccio sanamente critico. Non significa assolutamente, contrariamente a quanto pensa qualcuno, non valorizzare o non rispettare la fonte orale (questo viene talvolta sostenuto ricorrendo a delle citazioni semplicistiche di Marc Bloch) [3]. Si è ritenuto opportuno fare queste precisazioni introduttive perché, in ultima analisi, ogni storia è una storia del presente. Questo vale, nel suo piccolo, anche per questo articolo, che infatti contiene nelle conclusioni delle considerazioni sull’eredità di un piccolo pezzo di storia del Pci; azzardando altresì l’ipotesi che anche un piccolo caso-studio come questo può essere un elemento utile per portare a delle conclusioni più generali.

«Sembrava una così brava persona!»

Tessera del PCI

Donato, oggi un ultraottantenne, si ricorda di essere entrato nel Pci dopo aver maturato dei «convincimenti sindacali, che poi son diventati anche espressione di scelte politiche». In un certo senso, Donato ci racconta di un rapporto tra sindacalismo e politica partitica che alcuni ritengono morto o mai esistito (la c.d. “cinghia di trasmissione”, secondo qualcuno). È interessante che l’intervista con Donato, però, ha ben presto iniziato ad assumere un tono comico, dato che i ricordi sono andati al suo «mondo del lavoro che era in quel momento completamente controllato, in mano ai democristiani. Quelli che con sfregio chiamavamo i democristiani. Anche se, li dovessi valutare oggi, li valuterei molto meglio che non i forzisti cosiddetti, eh! Cioè un Brunetta non c’era allora» [4]. Quindi, l’attività politica di Donato (caso poi, se ci si pensa, non tanto strano) è iniziata non per, ma contro. Donato ricorda alcuni di quelli che lui chiama i «vecchi democristiani» locali e la differenza con alcuni democristiani giovani che, pur essendo tenuti in spregio dai «vecchi», erano introdotti nella DC con un metodo molto particolare che si potrebbe definire di cooptazione, anche se Donato preferisce esprimersi in dialetto. Letteralmente, queste persone venivano “raccolte”: «Però come si raccoglie l’immondezza, capito?». In un certo senso, Donato ricorda tra lo scandalizzato e il comico la lottizzazione politica tipica dell’era democristiana tragicamente criticata nel film di Elio Petri Todo modo (1976). «Eri […] il buonissimo datore di lavoro che ti preoccupavi del benessere della popolazione, panem et circenses […] Loro diventavano o funzionari o direttori di qualche ente mutualistico, no?». In una canzone comico-satirica composta sui democristiani locali, Donato aveva così riassunto questi comportamenti: «Al popolo diamo le caramelle da succhiare, nel mentre questi fanno […] i loro comodi».

Tra le risate, Donato fa l’esempio di un personaggio locale («senza arte né parte», «una persona che difficilmente potevi collocare nella specie umana […] un sottoprodotto») che la DC locale avrebbe voluto cooptare in un ente. Per ottenere il posto, però, «doveva superare un tema di italiano. E allora i democristiani vecchi […] l’avevano aiutato dicendogli il titolo del tema […] “Parlami di un animale domestico”». Il quale tema il candidato avrebbe svolto parlando… «del leone»! «E questo faceva ridere – continua Donato – lo dicevano dappertutto. Era una cosa continua». Donato ricorda altresì che la DC locale spesso pubblicizzava un proprio candidato con un curriculum “creativo” («pieno di cagate»), come quello di un personaggio che «era diventato, l’avevano fatto venire qui come direttore di un ente in sostanza… di cui non conosceva» nemmeno «l’indirizzo […] Poi con potere decisionale su altri».

Donato ricorda che la sua decisione di candidarsi col Pci provocò delle reazioni nell’ospedale dove lavorava: «Quando è venuto fuori il fatto che io mi fossi candidato con i comunisti, eh, è successo mezzo finimondo. Mezzo finimondo… Per quello che poteva essere in ospedale. Le suore: “Ma guarda quel dottor […]! Sembrava una così brava persona”. E si svegliavano con me che ero comunista». Per aggiungere ancora comicità alla Storia, il succitato personaggio del tema di italiano, ignaro dell’impegno preso da Donato, gli aveva proposto di candidarsi con la DC in un comune della provincia. Donato ricorda che la proposta di candidarsi col Pci a consigliere comunale gli venne fatta in un giorno di festa da due persone, benché lui prima non si fosse mai occupato di politica: «Io gli avevo detto: ma scusate, perché venite a propormi? E perché sappiamo, conosciamo le tue idee». Si riferivano, appunto, all’attivismo sindacale di Donato: «Io fino ad allora di politica vera e propria non mi ero interessato. Mi interessavo di sindacato […] E facendo il sindacato dovevi prendere anche delle posizioni, e quando le prendevi, erano sempre posizioni contrarie ai democristiani. Se non per altro perché era quelli che gestivano l’ospedale». Donato fa risalire questa proposta all’inizio degli anni ’70, ma non ricorda l’anno preciso.

I successivi ricordi di Donato sono particolarmente interessanti, perché vanno a toccare una questione fondamentale, cioè il suo status economico agiato in contraddizione al fatto che andava a rappresentare un partito che diceva di voler fare gli interessi delle classi disagiate: «Una volta che son stato, che sono entrato nel giro, già mi aspettavo un’accoglienza abbastanza fredda perché allora comunisti erano, diciamo, i lavoratori, ma poveri […] Mentre invece sarà stato merito mio, non lo so, sarà stato merito dei comunisti che ho conosciuto. Sono stato accolto bene». Oltre a questa accoglienza positiva ma inaspettata, Donato ricorda con piacere delle visite che faceva con altri compagni di partito a un quartiere popolare della periferia della sua città. Donato precisa che non si trattava esattamente di giri propagandistici pre-elettorali: «Più che campagna elettorale erano… neanche di indottrinamento, ma, diffusione della buona novella, diciamo». Se da un lato il riferimento è alla pratica evangelizzatrice cristiana, è interessante come compaia, sembra, un elemento pedagogico che ricorda vagamente l’approccio leniniano (v. Che fare?) e che certamente sarebbe condannato come “elitista” dagli odierni populismi [5]. In quel quartiere, precisa Donato, «trovavi però terreno fertile, perché erano già, molti, lo erano già», essendo un quartiere abitato da «quelli che si chiamavano allora i lavoratori. La classe operaia in senso lato», tra i quali «molti erano artigiani. D’altra parte, anche la composizione del gruppo comunista era un pochino espressione di questo» (come parentesi comico-politica, Donato ricorda anche che l’accoglienza era talmente buona che una volta tornò a casa sulla Vespa miracolosamente guidata da un cugino, dato che avevano bevuto un’intera bottiglia di Vermuth Gancia: «Io non ero abituato a bere, ne sono uscito che non sapevo neanche dov’ero»).

Il segretario del PCI Enrico Berlinguer davanti all’Opera di Guttuso “Il funerale di Togliatti”

Parlando invece dell’attività politica istituzionale, Donato non ricorda particolari successi dato che il Pci si trovò sempre in minoranza (pur aumentando, nel tempo, il numero di consiglieri da 3 a 11). Ricorda inoltre, con un po’ di tristezza, che i numeri della politica facevano sì che spesso le maggioranze in Comune si reggessero su pochissimi voti, talvolta appartenenti a partiti minori. Pertanto, per poter andare avanti, era necessario mettersi preventivamente d’accordo con l’ago della bilancia di turno concedendogli qualche favore. Una volta fatto, il voto era garantito e si poteva andare avanti. Donato ricorda anche un atteggiamento del Pci eccessivamente attaccato a una visione superficiale del prestigio istituzionale. «Istituzionalmente la provincia valeva di più, avere una provincia comunista era più importante che avere un comune, anche se» quel comune «era capoluogo. E quindi per la provincia si sono mollati un sacco di cose».

Complessivamente, Donato ricorda che la sua militanza attiva nel partito è durata all’incirca dal 1975 al 1990, ma non ha un buon ricordo degli ultimi anni, dal 1985 al 1990: «Son stati cinque anni che peggiori non potevano essere. Perché c’era una decadenza, un decadimento complessivo, generale […] Del partito, degli esponenti […] E… per me, non vedevo l’ora di uscirne». Alla domanda se si trattasse di un decadimento solo locale o anche generale, Donato risponde: «Io credo a livello anche generale. Localmente sicuramente. Ma credo che fosse un riflesso della decadenza generale che si stava manifestando». È interessante che, subito dopo aver fatto menzione di questa decadenza, Donato sente il bisogno di parlare di Enrico Berlinguer: «Berlinguer per me è stato il mio idolo». Forse perché, essendo Berlinguer morto nel 1984, può darsi che Donato associ la sua morte alla decadenza finale del Pci. Donato non ha conosciuto Berlinguer personalmente, ma ricorda di essere stato ai suoi funerali.

La menzione di Berlinguer è stata l’occasione per Donato di spiegare la particolare ideologia della quale si sentiva e si sente convinto: «Io ero, sono nato e rimango berlingueriano». Per essere precisi, questo “berlinguerismo” significava «essere, se non antisocialista quanto meno inviso ai socialisti», e avere una buona opinione del cosiddetto “compromesso storico”: «Compromesso storico ero d’accordo allora, che non era il compromesso che c’è oggi» (l’intervista è stata registrata durante il governo Renzi-Berlusconi del 2014-2016, con tanto di “Patto del Nazareno”) [6].

Alla richiesta di arrischiare delle ragioni per questo decadimento del Pci, Donato nomina Berlusconi, benché il suo primo governo risalga al 1994, cioè alcuni anni dopo lo scioglimento del Pci. Ma, nota Donato: «Perché Berlusconi nasce prima. Nasce con Craxi, col craxismo. Il berlusconismo […] Ma può darsi, o forse meglio, che sia nato prima il berlusconismo che ha prodotto Berlusconi poi». Qui, è importante notare che l’impero televisivo berlusconiano, che certamente contribuì in misura preponderante alle vittorie politiche del suo proprietario, fu stabilizzato grazie a una legge, la legge Mammì del 1990, che fu approvata con forti responsabilità del Pci. In buona sostanza, il Pci si mise d’accordo per far passare la legge Mammì (ironicamente definita dai giornalisti di allora la «legge fotografia» o «legge polaroid», dato che si limitava a “fotografare” e legalizzare l’anomala situazione allora esistente) in cambio di una sua influenza politica sulla terza rete della Rai [7].

Sempre sulla decadenza del Pci, Donato nota che «questa che chiamiamo la cupio dissolvi è esistita sempre» all’interno del partito, pur non precisandone in significato. Il termine cupio dissolvi merita una precisazione. Si tratta di un termine religioso proveniente da San Paolo, e che esprime il desiderio di autodistruzione del corpo e di resurrezione dell’anima (bene tenere a mente questo particolare). Sui rapporti del Pci con l’Urss e paesi satelliti, Donato dice che sono stati improntati nel tempo a diverse sfumature: «C’è stato, c’è stato sicuramente, tutte queste cose […] ci sono state. La sudditanza. La critica. Ebbe’! Oh, la critica si è resa evidente, io dico anche molto prima, ma già con i fatti di Ungheria [del 1956] ci sono stati… c’è stata parte del partito che si è dissociato. Mentre parte ha avallato. Un fatto è certo: che in quei tempi il partito era monolitico. Doveva essere il verbo».

Una sezione del PCI

Questo monolitismo, secondo Donato, non è sinonimo di centralismo democratico, anzi: «Centralismo democratico sul quale io ero e sono d’accordo se è gestito, come dice il nome, democraticamente. Se tutti hanno la parola, la possibilità di parlare, di essere ascoltati e di ascoltare, per me è la forma migliore di democrazia quella». Interessante, poi, che secondo Donato il centralismo democratico sia perfettamente compatibile con l’idea di democrazia espressa da Stefano Rodotà nel suo libro Il diritto di avere diritti: «In questa frase secondo me c’è tutta la democrazia. Tutti abbiamo il diritto di avere diritti. Se tu riconosci questo, hai fatto già un passo molto lungo nella ginnastica, direbbe De Andrè, dell’obbedienza. La chiamava De Andrè» [8]. Donato parafrasa un verso della canzone «Nella mia ora libertà», contenuta nell’album Storia di un impiegato (1973). È difficile interpretare le parole di Donato. Nella canzone, la «ginnastica d’obbedienza» viene vista come una cosa negativa. Forse, Donato intende che bisogna allontanarsi da una concezione arrogante ed egoista del potere. Oppure, che un minimo di limitazione o “ginnastica” dell’obbedienza è indispensabile per poter garantire il convivere civile.

A una domanda sulle letture che Donato e suoi compagni facevano all’epoca, la risposta è stata: «Tex, Capitan Miki». Per la musica, invece, Donato ricorda di essersi appassionato a Fabrizio De Andrè, incontrando però le obiezioni di un prete locale, forse per motivi moralistici. Anche se questo stesso prete, nella memoria di Donato, veniva apostrofato pubblicamente nella via principale della città come «Don […] minchia d’oro» da una prostituta locale (un evidente complimento per sue le doti fisiche). La menzione di questo esimio religioso è stata l’occasione per una domanda sui rapporti fra il Pci e il clero. Secondo Donato, i comunisti «non sono mai stati anticlericali», dato che l’anticlericalismo «non fa parte della dottrina comunista». O meglio, l’attitudine del Pci non era del tipo «io ce l’ho con te perché sei prete […] Ce l’ho contro il fatto che tu sostieni una tua filosofia che la mia filosofia non ammette […] tant’è vero che, soprattutto in Italia, ma non solo in Italia, la maggior parte dei comunisti sono tutti “credenti” fra virgolette, non anti, anticlericali voglio dire».

Questa menzione del clero e della religione è importante, perché permette di fare una riflessione sull’atteggiamento in materia del Pci (soprattutto dell’ultimo Pci) e dell’ideologia comunista in genere. Una cosa è certa: basta avere delle conoscenze anche molto superficiali per sapere che nella dottrina comunista hanno sempre avuto una parte molto importante non solo la critica al clero, come vedremo, ma anche alla religione in quanto tale. Naturalmente, Marx è stato un autore estremamente prolifico, ma per sapere le sue opinioni in materia di religione non è necessario andare a cercare testi sconosciuti o inediti. Ricorriamo a una edizione del Manifesto comunista tradotta e introdotta da Palmiro Togliatti. A p. 73 leggiamo: «Le leggi, la morale, la religione, sono per lui [per il proletario] altrettanti pregiudizi borghesi, dietro ai quali si nascondono altrettanti interessi borghesi» [9].

Marx ed Engels non potrebbero essere più chiari: la religione altro non è che un pregiudizio borghese. Non solo. Poche pagine dopo, i due si fanno beffe delle obiezioni della borghesia contro il comunismo: «nel corso dell’evoluzione storica […] la religione, la morale, la filosofia, la politica, il diritto […] si mantennero sempre […] Ci sono, inoltre, verità eterne, come la libertà, la giustizia, ecc., che sono comuni a tutte le situazioni sociali. Il comunismo, invece, abolisce le verità eterne, abolisce la religione, la morale» [10]. Marx ed Engels notano sprezzanti che il comunismo significa infatti «la rottura più radicale con le idee tradizionali», con buona pace della religione [11].  Ma già nel 1844 Marx aveva precisato, nella sua Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico: «La religione è il singhiozzo di una creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, lo spirito di una condizione priva di spirito. È l’oppio dei popoli» [12]. Alcuni interpreti dicono che Marx in realtà non avesse un’attitudine negativa verso la religione, considerandola un riflesso di determinati rapporti sociali. In questa visione, con il cambiamento dei rapporti sociali (rivoluzione) la religione non sarebbe stata più necessaria e sarebbe scomparsa. Al di là di quale sia l’interpretazione giusta, non c’è dubbio che negli scritti marxiani la critica verso la religione è chiaramente presente, ed è forte. Negarlo significa negare l’evidenza. Inoltre, non risulta che con il suo esempio personale Marx abbia mostrato che bisognasse adattarsi alla religione, per esempio nell’educazione dei figli (diversamente da quanto fecero molti membri del Pci e Berlinguer in prima persona) [13].

Questo per quanto riguarda il marxismo, ideologia alla quale, almeno inizialmente, il Pci riteneva di ispirarsi. Ma che dire dell’Urss, il paese che per lungo tempo fu il principale punto di riferimento del Pci? Qui il discorso si farebbe complicato, perché andrebbe a investire una contraddizione fondamentale del Pci che certamente ha contribuito alla sua fine, cioè il fatto che un partito interno alla democrazia parlamentare si ispirasse a una dittatura monopartitica instaurata con una rivoluzione armata, giusta o sbagliata che fosse. Fin dal 1917 i bolscevichi al potere mostrarono sempre antipatia e ostilità verso la religione, con campagne antireligiose continue e talvolta violente che hanno avuto una battuta d’arresto solo con l’avvento di Gorbachëv nel 1985. La loro opera fu sempre ispirata a un laicismo e ad un ateismo radicali, tant’è che l’ateismo scientifico veniva insegnato in tutte le scuole e università. La letteratura in materia, del resto, è sterminata [14]. Il dato storico interessante, però, è che dalla svolta di Salerno in poi, il Pci ha progressivamente attenuato la critica marxista alla religione, sino a eliminarla quasi del tutto con Berlinguer.

Sempre dentro, sempre critici

Giacomo è un po’ più giovane di Donato, dato che nel 1973-74, quando si avvicinò al Pci, aveva 25-26 anni. Anche Giacomo fu avvicinato al Pci da persone che frequentavano il partito, quando lui già lavorava come impiegato per un ente pubblico: «Il mio interesse per la politica è nato più o meno insieme all’attività lavorativa. Perché fino ad allora mi definivo un po’ anarcoide, con libro di Bakunin nella valigia». Giacomo ricorda di essersi avvicinato a Bakunin (ma senza seguito) durante alcuni anni di università frequentati al Politecnico di Torino, tra il 1967 e il 1968 (anche, se, dice, «per la verità al Politecnico non ci si è quasi accorti […] di quello che stava succedendo nel resto del mondo»). Poi, dice: «Guardavo verso sinistra. Quindi mi è sembrato quasi naturale aderire [al Pci]. Inizialmente andare a curiosare». Inizialmente senza tessera del partito ma iscritto alla CGIL, Giacomo fu progressivamente coinvolto da colleghi più politicizzati, assieme ai quali rivitalizzò «la sezione Lenin» che «era abbastanza attiva». Interessante punto di contatto tra l’intervista di Giacomo e quella di Donato è che anche Giacomo ricorda le visite al quartiere popolare periferico, anche se con l’obiettivo di distribuire l’Unità: «Ricordo che fra le altre cose non c’era domenica senza che noi andassimo a vendere l’Unità, a distribuire l’Unità nel quartiere […] Quindi sai […] Ci facevamo tutte le stradette, le case – non solo di quelli che sapevamo l’avrebbero presa, ma anche… ovviamente si tentava di darla anche a uno che magari qualche volta la prendeva qualche volta no».

Giacomo ricorda quei quartieri come «molto estesi, c’era tanta gente. Infatti, noi impegnavamo… eravamo diversi gruppetti nella sezione. Andavamo generalmente in due. E impegnavamo tutta la mattinata». Gli abitanti di questi quartieri provenivano prevalentemente dai paesi dei dintorni, ed erano soprattutto «impiegati, operai. Certo non cosiddetta classe medio-alta. Erano tutte persone che si erano un po’ arrangiate a farsi la casa da soli, quindi insomma muratori… ma anche tanti impiegati». Giacomo aggiunge: «E devo dire che quegli anni li ricordo anche con piacere, perché quasi dappertutto ci invitavano ad entrare, si scambiavano quattro parole. C’erano persone anche anziane, vecchi. C’erano molti comunisti lì, eh! […] ai quali faceva piacere. Anzi, era motivo d’onore prendere il giornale. Qualcuno ci offriva il caffè». Alla mia domanda di giovane ingenuo – perché andavate a distribuire il giornale? Non c’era un’edicola? – Giacomo risponde: «Ma era un modo per far politica, per star vicino alla gente. Non era solo il fatto […] di portare il giornale. Era un modo per anche sentire i problemi, eventualmente riportarli, discuterne. Cioè era un modo vivo, diverso da quello… Oggi ci si guarda attraverso la televisione. Cioè uno guarda e l’altro si fa guardare. E lì c’era proprio il contatto fisico, lo scambio di idee […] di prima mano. I malumori, ma anche gli apprezzamenti per quello che succedeva». Giacomo ricorda anche: «Abbiamo avuto anche il piacere, per diverso tempo, di dare, portare il giornale» a un ingegnere azionista che era stato veterano della Guerra di Spagna. All’epoca «era già molto anziano […] E ricordo che un paio di volte ci siamo anche seduti, con lui, a bere il caffè a casa sua. Così a chiacchierare». A differenza di Donato, Giacomo ricorda di essersi tenuto lontano dalle avventure alcoliche, accettando al massimo un caffè ma rifiutando il bicchiere di vino che qualcuno gli offriva.

Il dopo Berlinguer e la sua icona

Giacomo distribuiva in quel quartiere periferico anche perché era il quartiere cui faceva capo la sua sezione, una delle cinque o sei presenti nella sua cittadina, e che ricorda come «abbastanza vivace». Oltre alle discussioni talvolta accese, Giacomo ricorda anche con un pizzico di ironia una caratteristica peculiare delle riunioni di sezione settimanali: «La cosa singolare era che a quei tempi, anche se si doveva parlare magari di un argomento della città, del quartiere, come regola il segretario di sezione […] partiva sempre con una sorta di relazione […] Introduttiva. Partiva […] dalle questioni internazionali [ride], quindi Russia, Stati Uniti e […] poi si avvicinavano i tempi dello strappo con la Russia […] e si partiva di là, poi si passava all’Europa, poi si passava all’Italia, poi alla» nostra regione, «e alla fine quando tutti eravamo esausti [M.G. ride] si arrivava magari al problemino di quartiere. Che era poi quello che magari» interessava maggiormente «chi abitava nel quartiere, che magari era meno interessato ai problemi internazionali e più al fatto che il quartiere non aveva ancora tutte le strade asfaltate, non aveva per niente servizi, e che… e così via. Però questa era la consuetudine, sia delle riunioni di sezioni, sia delle riunioni poi che si facevano periodicamente».

Col senno di poi, secondo Giacomo un’impostazione del genere era troppo dispersiva, «troppo pesante». È vero che lunghe e ricorrenti riunioni di questo tipo possono ben stancare delle persone già stanche dal lavoro, e certamente l’odierna politica digitale si serve di ben altri mezzi per tenere i contatti col popolo. La politica faccia a faccia di cui parla Giacomo, però, presenta anche innumerevoli vantaggi che il mondo del web non offre [15]. Inoltre, riunioni di questo tipo potevano essere positive ed istruttive, parlando di questioni di politica internazionale anche ai militanti di una piccola cittadina del Sud Italia, che così potevano sentirsi parte di un movimento internazionale. Del resto, Giacomo sente il bisogno di aggiungere: «Magari in una certa fase storica può anche essere che questo sia stato anche opportuno, necessario, perché contribuiva comunque a tenere accesa l’attenzione su problematiche che, anche se da lontano, ci riguardavano tutti».

«Poi piano piano», però, «le sezioni hanno iniziato a soffrire la mancanza di militanza. E quindi si sono un po’ ridotte di numero, di attività, e poi in fase successiva» le sezioni sono «quasi praticamente sparite». Per quanto riguarda la democrazia interna al partito, Giacomo ricorda che vi fossero sì degli attriti tra opinioni diverse, ma che la libertà di espressione fosse sostanzialmente garantita: «Ciascuno di noi diceva liberamente quello che pensava», anche se magari c’era chi diceva «ciò che conveniva per fare poi carriera». Nello specifico, Giacomo dice di aver fatto parte di un gruppo interno al Pci locale che aveva degli screzi con i dirigenti più ortodossi, i quali li accusavano di «fughe in avanti, che i tempi non erano maturi», appellandosi al «famoso, maledetto, “rinnovamento nella continuità”». Ma quale era l’oggetto del contendere? Secondo Giacomo, la «democrazia interna al partito», alcune «scelte urbanistiche», ma anche la lottizzazione politica della quale parla anche Donato. Allora, infatti, «era molto più apertamente politicizzata la sanità. Il presidente [delle Asl] veniva scelto. Oggi è la stessa cosa però si fa in maniera subdola. Prima era pacifico che c’era un accordo fra democristiani e comunisti per dire: questo ecco, questo fa il presidente della Asl. […] C’era un’alternanza. C’è chi prendeva quello, la camera di commercio. Quindi sai, queste battaglie le abbiamo fatte tutte. Col privilegio, l’orgoglio di essere sempre in minoranza». Giacomo precisa anche che questa «spartizione» degli enti pubblici è sempre esistita, a prescindere dal fatto che il Pci fosse maggioranza o meno.

Sempre su questo gruppo di “dissidenti”, Giacomo aggiunge che «soprattutto noi eravamo tutte persone che avevamo il nostro lavoro, non eravamo funzionari di partito. Quindi eravamo indipendenti da tutti i punti di vista […] Ragionavamo con la nostra testa», cosa che non tutti vedevano di buon occhio, tanto da arrivare a qualche tiro mancino. Giacomo è stato più volte candidato alle elezioni locali, ma «non son stato eletto perché i miei compagni di partito, dopo che passavo io a fare il giro della mia zona, della zona che mi era stata assegnata […] passavano a dare diverse indicazioni. Quindi […] “vota quest’altro” […] succedevano anche di queste cose». Nonostante questo, però «siamo andati avanti lo stesso, abbiamo fatto le nostre battaglie interne». Del resto, Giacomo precisa per la politica di «carriera» non l’ha mai interessato.

Questo gruppo di dissidenti si trovò poi a formare una rivista bimestrale alternativa che voleva essere «la coscienza critica del Pci […] ci apprezzavano quasi tutti, fuorché quelli della classe dirigente del Pci» che infatti tentò di sabotarla «in tutti i modi». «Soprattutto nei primi anni, quando eravamo molto motivati, molto impegnati […] abbiamo saltato anche le mille copie, siamo arrivati che vendevamo sulle 1200 copie ad uscita, che insomma, per questa zona non sono poche». Complessivamente, la rivista è durata dal 1987 al 2005.

Complessivamente, Giacomo dice di potersi essere orientato politicamente autonomamente: «Io non ho mai respirato aria di politica qui a casa mia […] Non se ne parlava, quindi io ho avuto la possibilità di orientarmi per i fatti miei». A una domanda su quali fossero i simboli politici che lo attiravano, Giacomo cita Berlinguer, come Donato: «Simboli in carne e ossa sicuramente c’era Berlinguer, che già da allora era un simbolo. Perché sia da quando era in vita sia dopo ha sempre rappresentato il modo corretto di intendere il comunismo, di intendere la sinistra […] quei continui richiami, inascoltati per lo più, alla correttezza […] La questione morale insomma. E lui li faceva […] Per tantissimi, direi per la maggior parte, era un simbolo. Poi vabe’, non so gli altri simboli. Il… quello che ha dato il nome alla mia sezione [Lenin] non l’ho mai visto come un simbolo in effetti […] Uno sicuramente dei padri fondatori, però era già… cioè non era, non aveva quel richiamo». Berlinguer, invece, «sicuramente era la personalità di maggior spicco, e che ti, proprio ti dava un… solo a sentirlo parlare delle vibrazioni particolari, ecco». A una domanda se anche Gramsci rappresentasse un simbolo, Giacomo risponde: «Gramsci sì. Vabe’ di Gramsci poi, non è che abbia letto tutto, ma avevo già letto allora diverse cose. Quindi anche Gramsci, ma non come Berlinguer». Anche Giacomo, come Donato, ha partecipato ai funerali di Berlinguer: «È stata una emozione grandissima proprio».

Conclusioni

Le due interviste con Donato e con Giacomo, messe a confronto, ci possono permettere di fare alcune conclusioni che esulano dal carattere strettamente locale, con l’aiuto di una letteratura selezionata. Banalmente, entrambe le interviste presentano delle scene di politica novecentesca che nell’odierno mondo “post-ideologico” possono sembrare lontane anni luce come la politica faccia a faccia, le visite, la distribuzione dei giornali, le sezioni. Altra cosa che oggi può sembrare lontana anni luce è che sia Giacomo sia Donato fanno esplicito riferimento a un partito che aveva un riferimento di classe (per quanto ampiamente inteso), cosa ben diversa dall’odierna politica. I quartieri che sia Giacomo sia Donato visitavano erano quelli periferici e popolari, abitati dai lavoratori. Un altro punto in comune delle due interviste è che in entrambe si fa riferimento a un impegno politico nato da stimoli etico-morali più che prettamente ideologici (l’antipatia verso le spartizioni o lottizzazioni partitiche).

La svolta della Bolognina

Alcune questioni più generali si intrecciano ai temi toccati nelle interviste. Che cos’era il Pci? Il Pci ha fatto bene a sciogliersi come ha fatto? Era una scelta inevitabile? Esiste oggi una sinistra in Italia? Se esiste, perché è cambiata tanto da diventare irriconoscibile? Il marxismo è morto? Sulla questione dell’inevitabilità della storia, sarebbe bene fare tesoro della lezione di Richard Pipes, che notava come certe cose possano facilmente apparire inevitabili a posteriori, ma ciò non significa che il paradigma dell’inevitabilità della storia sia sempre utile e giusto [16]. In generale, sappiamo da Lucio Magri che la decisione di sciogliere il Pci fu presa d’imperio per bypassare l’opposizione di buona parte della base [17]. Tuttavia, è indubbio che lo scioglimento fu la conseguenza di una profonda crisi, della quale qui non è possibile indagare completamente la genesi e le cause.

Come si accennava, si possono solo offrire alcuni spunti critici. Parlando dell’ammirazione per Enrico Berlinguer, molti ex militanti del Pci assumono toni nostalgici, quasi commossi. Se per qualcuno era addirittura un «idolo», per altri era comunque un «simbolo», anche ben più importante di Gramsci. La cosa che colpisce è la scarsità o assenza di resoconti critici su questa importante figura, che lasciano spesso il posto a una agiografia più o meno marcata. E il problema non è affatto facilitato dal fatto che molti dei commentatori appartengono all’area (post)Pci [18]. C’è di più: una agiografia di parte su una figura così importante potrebbe anche non stupire, ma stupisce e preoccupa il fatto che la simpatia e l’ammirazione sembrino universali, unendo anche personaggi lontani da quella tradizione politico-culturale, come Gianroberto Casaleggio e Marco Travaglio [19].

Un possibile approccio critico potrebbe partire da un esame più obiettivo di alcuni miti fondanti del “berlinguerismo” (termine giustificato sia dalla forte identificazione degli ex Pci con la figura di Berlinguer, sia dall’oggettiva differenza tra quest’ultimo e la precedente tradizione marxista), come per esempio il Compromesso Storico. Un tentativo è stato fatto da Lucio Magri e Paolo Persichetti, che nei loro libri notano che il Compromesso Storico fu in realtà una strategia molto mitizzata ma in un’ultima analisi irrealistica e fallimentare, per una serie di motivi [20]. La c.d. “questione morale” berlingueriana sarebbe un altro mito da rivedere criticamente. Quasi nessuno, infatti, fa notare che questa “questione morale” si riduce a un richiamo all’onestà, privandosi di qualunque elemento ideologico alternativo come l’emancipazione delle classi subalterne [21]. Usando la metafora del mercato politico, un consumatore/elettore sceglie una merce in base a delle caratteristiche che la differenziano dalle altre merci. Se le differenze non ci sono o non sono sostanziali, perché dovrebbe sceglierla? Senza contare che (naturalmente questo Berlinguer non poteva saperlo, essendo morto prima) dopo Tangentopoli questione morale e giustizialismo si sono mescolate creando un mix esplosivo, in gran parte responsabile dell’ascesa degli odierni populismi.

Del rapporto con la religione e di una lettura parziale del berlusconismo come causa primaria della crisi del Pci si è già detto. Il fatto che le letture di alcuni quadri del Pci fossero Tex e Capitan Miki merita un’ulteriore riflessione. Con tutto il rispetto per l’arte del fumetto, sembra che il Pci non curasse molto la formazione dei suoi quadri locali. Da dei membri di un certo livello di un partito che diceva di voler fare gli interessi della classe lavoratrice ci si aspetterebbe qualche incursione anche in autori come Marx e Gramsci, del resto ampiamente disponibili e ricchi di sistematicamente ignorati insegnamenti (il travisamento del quale Gramsci è stato vittima dalla sua morte a oggi meriterebbe un discorso a parte) [22]. Questo carattere negativamente “nazionalpopolare” (populista?) del Pci viene talvolta presentato dai suoi agiografi come prova di una grande vicinanza alla classe lavoratrice. Eppure non si direbbe, dato che l’evoluzione della sinistra italiana negli ultimi decenni è andata in un senso sempre più anti-popolare, elitista, post-ideologico e iperliberista.

Di fronte alla gravissima crisi che il marxismo ha vissuto verso la fine del XX secolo, vi sono stati vari approcci. Quello scelto dalla maggior parte delle élite di sinistra e da molti militanti è stato quello di appiattirsi sulle posizioni dell’ideologia avversaria, annacquare sempre di più la propria storia, le proprie origini e la propria specificità, presentando il tutto – è il colmo! – come una dolorosa necessità o addirittura come un impavido atto di coraggio [23]. Questo ha portato a una involuzione nella quale l’elettorato storico della sinistra, lasciato solo e disorientato, è stato facilmente captato dai partiti di vecchie e nuove destre, talvolta con sfumature rossobrune o neofasciste [24]. Del resto, la cosa sembra non essere compresa dalle élite di sinistra, ma è compresa benissimo dalle suddette destre [25].

Bisogna però dire che in questo desolante appiattimento capitolardo c’è stata una eccezione interessante, lo storico Domenico Losurdo (1941-2018). Nonostante alcune sue cadute stalinoidi e la sua visione eccessivamente realpolitik e campista della storia del movimento comunista e delle relazioni internazionali passate e presenti, bisogna dare a Cesare quel che è di Cesare. Losurdo ha avuto un atteggiamento diverso da quello di tanti suoi (ex) compagni. Eppure, proveniva dall’area culturale Pci! Anzi, si può dire che ne fu un intellettuale organico! Già negli anni ’90, infatti, mise in chiaro che c’era una bella differenza tra autocritica e autofobia, e la sinistra già da allora era purtroppo in preda alla seconda, con un atteggiamento religioso paragonabile a quello del primo messaggio cristiano: il mio regno non è di questo mondo! [26] Notò, inoltre, come l’Italia e non solo fosse ormai in preda a un vero e proprio monopartitismo competitivo, animato da leader di vari partiti che rappresentavano sostanzialmente gli stessi interessi socioeconomici [27]. Già nel XXI secolo e poco prima della morte, scrisse anche un libro eloquentemente intitolato La sinistra assente, dove documentava e si interrogava su questa grave assenza (o metamorfosi?) [28]. Fino alla fine, non smise mai di ribadire la necessità della rinascita del marxismo in Occidente [29]. Questo atteggiamento più critico, serio, e non agiografico, forse, potrebbe aiutarci a capire meglio la crisi in cui ci troviamo, e ad ideare le vie per uscirne fuori.

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Note

[1] Come esempio di agiografia in occasione del centenario: Fabrizio Rondolino, Il nostro Pci, 1921-1991. Un racconto per immagini (Milano: Rizzoli, 2021). Purtroppo, anche una rivista che si occupa di storia orale e che ha l’ambizioso intento di occuparsi del «mondo popolare e proletario» come Il De Martino, ha pubblicato in occasione del centenario un contributo meramente agiografico e senza nessuna riflessione critica: Maria Luisa Righi et al., «Storie e memorie del Pci: voci, suoni e miti del comunismo Italiano», Il De Martino 23 (2021).

[2] Alessandro Portelli, «What Makes Oral History Different» in The Oral History Reader, a cura di R. Perks e A. Thomson (London: Routledge, 1998): p. 68.

[3] Nel suo libro L’ uccisione di Luigi Trastulli: Terni, 17 marzo 1949. La memoria e l’evento (Foligno: Il Formichiere, 2021), Alessandro Portelli fa una lunga e interessante riflessione sul perché un nutrito gruppo di operai si erano collettivamente sbagliati sulla data e sulle circostanze della morte di un loro compagno. Come spiega bene Portelli, ciò non era causato dal fatto che gli operai volevano “mentire” allo storico, ma dal fatto che la loro memoria si era sedimentata collettivamente in un certo modo per ragioni precise.

[4] Per opere generali sulla storia della DC, vedasi: Agostino Giovagnoli, Il partito italiano: la Democrazia Cristiana dal 1942 al 1994 (Bari: Laterza, 1996); Nico Perrone, Il segno della DC (Bari: Dedalo, 2002); Luciano Radi, La Dc da De Gasperi a Fanfani (Soveria Manelli, Rubbettino, 2005); Giorgio Galli, Storia della Dc (Kaos edizioni, 2007).

[5] Vladimir Ilʹič Lenin, Che fare? (Roma: Editori Riuniti, 1970).

[6] Massimo Parisi, Il patto del Nazareno (Soveria Mannelli: Rubettino, 2016).

[7] Giuseppe Fiori, Il venditore. Storia di Silvio Berlusconi e della Fininvest (Milano: Garzanti, 1995).

[8] Stefano Rodotà, Il diritto di avere diritti (Roma-Bari, Laterza, 2012).

[9] Karl Marx e Friederich Engels, Manifesto del partito comunista (Roma: Editori riuniti, 1980).

[10] Ibid., pp. 86-87.

[11] Ibid., p. 87.

[12] Karl Marx, Scritti politici giovanili (Einaudi, Torino, 1975), p. 395.

[13] Nello Ajello, Il lungo addio. Intellettuali e Pci dal 1958 al 1991 (Roma-Bari: Laterza, 1997).

[14] Qui si dà solo qualche sintetico accenno: Dimitry V. Pospielovsky, A History of Marxist-Leninist Atheism and of Soviet Anti-religious Policies (New York: Palgrave, 1987); Felix Corley, Religion in the Soviet Union (London: Macmillan, 1996); Paul Froese, «Forced Secularization in Soviet Russia: Why an Atheistic Monopoly Failed», Journal for the Scientific Study of Religion, Vol. 43, No. 1 (Mar., 2004), pp. 35-50; M. Sherwood, The Soviet War on Religion (London: Modern Books); Sabrina Petra Ramet (a cura di), Religious Policy in the Soviet Union (Cambridge: Cambridge University Press, 1993); Victoria Smolkin, A Sacred Space is Never Empty. A History of Soviet Atheism (Princeton: Princeton University Press, 2018).

[15] Giovanni Sartori, Homo videns. Televisione e post-pensiero (Roma: Laterza, 2011); Neil Postman, Amusing Ouselves to Death. Public Discourse in the Age of Show Business (London: Penguin, 2005).

[16] Richard Pipes, A Concise History of the Russian Revolution (New York: Vintage Books, 1996), pp. 383-384. In realtà, Pipes contraddice la sua saggia riflessione poche pagine dopo, quando dice che la fine dell’Urss era inevitabile (p. 405).

[17] Lucio Magri, Il sarto di Ulm. Una possibile storia del Pci (Milano: Il Saggiatore, 2012).

[18] Giuseppe Fiori, Vita di Enrico Berlinguer (Roma: Laterza, 2004). V. anche il documentario di Walter Veltroni Quando c’era Berlinguer (2014). In Enrico Berlinguer e la fine del comunismo (Torino: Einaudi, 2006), Silvio Pons fa un tentativo (per quanto insoddisfacente) di uscire dal paradigma agiografico.

[19] V. Gianroberto Casaleggio intervistato da Marco Travaglio, https://www.youtube.com/watch?v=OWsaWMcPkMo,https://www.youtube.com/watch?v=8ZmulG8z5iI. È anche significativo che Travaglio concluda il suo spettacolo del 2009 Promemoria con le famose parole di Enrico Berlinguer sulla questione morale.

[20] Magri, op. cit. V. anche Paolo Persichetti, La polizia della storia (Roma: DeriveApprodi, 2022).

[21] Salvo Lo Galbo, «Le stelle che si frantumano e la caduta delle meteore», Unità di classe n. 9, marzo 2021, pp. 4-5.

[22] V. Marco Gabbas, «Guerrilla War and Hegemony: Gramsci and Che», Tensões Mundiais/World Tensions v. 13, n. 25 (July-December 2017): pp. 53-76, https://revistas.uece.br/index.php/tensoesmundiais/article/view/346). Sull’”operazione Gramsci” v. anche: Nello Ajello, Intellettuali e PCI: 1944-1958 (Roma: Laterza, 1997). Anche Aurelio Lepre fa saggiamente notare nel suo libro Che c’entra Marx con Pol Pot? (Roma: Laterza, 2001 – versione ebook) che Gramsci perorava la “guerra di posizione” in Occidente, ma «[Q]uesto non significa che fosse diventato un socialdemocratico o un riformista: come affermò esplicitamente nella sua analisi dei rapporti di forza, anche per lui il momento dello scontro militare era decisivo. […] In realtà, Gramsci aveva della democrazia una concezione ben diversa da quella liberaldemocratica e, pur criticando Stalin (ma non Lenin), rimase sempre un comunista. […] Gramsci voleva una “democrazia organica”, che doveva realizzarsi non sul piano individuale, ma all’interno della “personalità collettiva” delle classi». Interessante che in tempi recenti anche Diego Fusaro abusi del concetto gramsciano del nazionalpopolare per i suoi fini populistici.

[23] Naturalmente, le tante folgorazioni sulla via di Damasco sono state alimento anche per una letteratura comico-satirica. V. Ilya Kuriakin, Il compagno Veltroni. Dossier sul più abile agente della Cia (Roma: Stampa alternativa, 2000). V. anche: Denis Jeambar e Yves Roucaute, Éloge de la trahison. De l’art de gouverner par reniement (Paris: Seuil, 1988).

[24] Alessandro Dal Lago, Populismo digitale. La crisi, la rete e la nuova destra (Milano: Raffaello Cortina Editore, 2017); Thomas Picketty, Capital and Ideology (Cambridge: Harvard University Press, 2020).

[25] Adriano Chiarelli, Capitan Selfie. Eccessi, contraddizioni e manie nelle dichiarazioni di Matteo Salvini (Roma: Nutrimenti, 2020).

[26] Domenico Losurdo, Fuga dalla storia? La rivoluzione russa e la rivoluzione cinese oggi (Napoli: La scuola di Pitagora, 2005).

[27] Domenico Losurdo, La seconda repubblica. Liberismo, federalismo, postfascismo (Torino: Bollati Boringhieri, 1994).

[28] Domenico Losurdo, La sinistra assente. Crisi, società dello spettacolo, guerra (Roma: Carocci, 2014).

[29] Domenico Losurdo, Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere (Roma: Laterza, 2017).

 

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