di Mauro Baldrati

Difficile, se non impossibile, dopo aver visto Genius (su Prime), del regista britannico Michael Grandage (già noto e stimato nel mondo teatrale), non correre a comprare O Lost, di Thomas Clayton Wolfe. Si può scegliere la versione originale o quella, col titolo Angelo, guarda il passato, sottoposta a una severa revisione fatta soprattutto di tagli radicali che ne ridimensionarono pesantemente la foliazione. Certo che viene spontanea una “affinità anti-elettiva” tra lo scrittore americano (Asheville 1900 – Baltimora 1938) e il francese Céline (Courbevoie 1894 – Meudon 1961): il primo accettò di lavorare fianco a fianco col famoso editor Max Perkins (già scopritore di Hemingway e di Scott Fitzerald), che negli anni ’20 accettò il monumentale manoscritto, mandando l’autore in uno stato di shock emozionale che gli provocò una crisi di pianto e quasi uno svenimento; il secondo invece scriveva all’editore: “Preferirei morire piuttosto che sopprimere una parola, una virgola. Con o senza il mio accordo, non dovete sopprimere nemmeno una lettera.”

Ma nessuna valutazione di merito. La scrittura expanded, rovente, poetica, che veicola una grande epica americana attraverso le vite di tre nuclei famigliari, non ha nulla in comune con quella sperimentale, aggressiva, invelenita dall’uso intensivo dell’argot, dei tre puntini di sospensione e degli ossessivi punti esclamativi. Invece possiamo affermare che entrambi, con stili e sensibilità diverse, incarnano il personaggio dello “scrittore totale” novecentesco, nel quale una specie di parassita – la scrittura – se lo mangia dall’interno, con modalità differenti: Thomas Wolfe – un tornado, come lo definì Thomas Bernhard – in una interminabile agonia mentale e nervosa elabora una prosa potentissima, sofisticata e puramente narrativa; Céline brucia di odio, di sarcasmo, con una lingua violenta che profana quella maggiore, tanto che Gilles Deleuze ha definito Morte a credito il testo più rivoluzionario della letteratura moderna.

Genius ha al centro Thomas Wolfe (da non confondere con l’autore omonimo del famosissimo Falò delle vanità), interpretato da un ottimo Jude Law – a parte il fisico, infatti l’originale era alto due metri per oltre un quintale di peso – con tutta la sua esaltazione, il suo egocentrismo e la sua fedeltà alla missione: la scrittura. La vicenda è impostata soprattutto sul rapporto autore-editor, il cui alter ego cinematografico è Colin Firth – attore dotato e suggestivo, benché non palpiti mai di simpatia – che durante tutto il film ha sempre il cappello in testa, anche durante i pranzi di famiglia.

“Ella sapeva che nel suo utero scuro e pieno di dolore era venuto alla vita uno straniero, nutrito dai contatti perduti con l’eternità, fantasma di se stesso, incubo della sua stessa casa, straniero per sé e per il mondo: O, perduto.”

Lavorano fianco a fianco, di notte e di giorno, completamente isolati dal resto del mondo, in un caos di fogli volanti, come se il mostruoso manoscritto fosse esploso. E qui come non evocare un’altra favola americana, William Burroughs perso a Tangeri, sommerso dai fogli sparsi del Pasto nudo, tanto che dovettero raggiungerlo Kerouac e Ginsberg per aiutarlo a ricombinare il tutto. Tra i due ossessi si posiziona dolorosamente la moglie Aline, il cui personaggio è affidato a Nicole Kidman – anche qui con una piccola dissonanza, nella realtà aveva quasi vent’anni più di Thomas – la quale, forse per difendersi, cerca di chiarire a entrambi che ciascuno userà l’altro finché gli farà comodo, ma è pronto a mollarlo in qualsiasi momento.

E aveva ragione naturalmente.

Thomas Wolfe: O Lost Elliot, Roma 2021 pagg.768 € 26.60
Angelo, guarda il passato, Amazon 2015, pagg. 424 € 14.55