di Luca Cangianti

Girolamo Rossi, Musica politica. Dal canto sociale all’inno di partito, Castelvecchi, 2022, pp. 250, € 25,00.

Se andiamo indietro nella memoria è facile associare una canzone a un grande amore o una presa di coscienza folgorante. Può essere accaduto in adolescenza durante una vacanza, o più tardi, quando abbiamo deciso di andare allo sbaraglio, di partecipare all’occupazione della scuola oppure allo sciopero, nonostante il nostro contratto fosse precario. La musica, in quanto modalità di comunicazione emozionale ed estetica, è strettamente connessa con gli ambiti imprescindibili dell’esistenza umana (e non solo): nutrimento, corteggiamento, celebrazione, difesa, attacco, identità di gruppo, lutto.

Molti di questi aspetti rientrano nel novero delle attività storicamente connesse all’azione politica. Un recente saggio di Girolamo Rossi ricostruisce la storia del nesso tra musica e politica con spirito di sintesi, fluidità e generosità esemplicativa. Si tratta di Musica politica. Dal canto sociale all’inno di partito. La tesi del libro è che la politica vada concepita «non come un ambito di attività strettamente razionale e pragmatico, ma come frutto di un vissuto comunitario, di legami affettivi, di rituali e richiami identitari che attengono alla vita sociale e alla dimensione antropologica prima ancora che alla dottrina politica.» E così ci sono ritmi per gli scontri di piazza, melodie che alludono a nuovi mondi possibili, cori che celebrano l’appartenenza di classe, canti malinconici che evocano «il senso di un’umanità ferita, in attesa del proprio riscatto». Il rullo di tamburo galvanizza e si generalizza con la Rivoluzione francese, le campane vengono considerate strumenti reazionari e osteggiate durante la Repubblica romana del 1849, gli inni nazionali e quelli politici si diffondono a cavallo del XVIII e del XIX secolo. Entrambi aspirano a mobilitare la comunità e individuano i nemici da combattere: i primi celebrano il compimento di un processo, i secondi una realtà in divenire della quale bisogna tramandare i precedenti storici maturandone un giudizio morale. Diverso è il caso del canto di lavoro che descrive una vita sofferente, spunti di ribellione, ma anche di ritualizzazione dell’aggressività. È il caso dell’Incanata e del Canto dei mietitori, nei quali dopo la verbalizzazione del disagio si torna agli assetti gerarchici ordinari.

Le epoche di maggior fermento rivoluzionario sono anche quelle di massima sperimentazione: il compositore sovietico Arsenij Avraamov nel 1922 organizza nel porto di Baku una performance in cui L’Internazionale e La Marsigliese sono eseguite da un’orchestra di sirene di fabbrica, pezzi d’artiglieria, mitragliatrici, clacson di autobus e automobili, locomotive da manovra e sirene da nebbia della flotta del mar Caspio.
D’altra parte, non stupisce nemmeno che il governo militare statunitense durante l’occupazione della Germania post-nazista previde un programma di diffusione della musica jazz immaginando che potesse agevolare la diffusione di una cultura basata sui valori della democrazia borghese.
Con il declino del ciclo d’accumulazione fordista e l’emergere della fase neoliberista del capitalismo, nel mondo occidentale le cose sembrano cambiare. Viene meno il compromesso socialdemocratico e la dimensione identitaria della politica. Il canto politico si trasforma in un clip confezionato con espliciti criteri di marketing: si pensi all’inno di Forza Italia. In questo nuovo contesto Rossi ipotizza che la musica possa ridurre le sue ambizioni in ambito politico. Ciò è sicuramente vero se consideriamo la sfera della politica istituzionale – ormai svuotata della funzione di camera di compensazione sociale che aveva in epoca fordista. Se invece concepiamo la politica come elemento ineliminabile, già insito nel conflitto sociale (indipendentemente dalla sua rappresentazione istituzionale), le suddette ambizioni sono ancora pienamente legittime.
Infondo il primo atto normativo del nuovo governo nazionale è stato il cosiddetto “decreto rave”.