di Sandro Moiso

Emiliano Brancaccio – Raffaele Giammetti – Stefano Lucarelli, La guerra capitalista. Competizione, centralizzazione, nuovo conflitto imperialista, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2022, pp. 280, euro 20,00

Quando il sottoscritto, nel 2019, pubblicò, proprio per le edizioni Mimesis, La guerra che viene. Crisi, nazionalismi, guerra e mutazioni dell’immaginario politico, l’argomento “guerra” costituiva, sia per l’ideologia mainstream che per gran parte di quella antagonista, un autentico tabù. Una sorta di coscienza rimossa dell’inevitabile divenire della Storia che sfociava in forme di ignoranza crassa degli implacabili meccanismi di funzionamento del capitale e dell’imperialismo. Tanto da far chiedere a chi scrive se colui che all’epoca, proprio a proposito della guerra nelle sue forme allargate, aveva affermato, in occasione della presentazione del libro di allora al primo Carmilla Fest al Centro sociale Vag di Bologna, che «la guerra mondiale non è più possibile poiché Russia e Stati Uniti si sono accordati sul gas», avrebbe ancora il coraggio di sostenere una tale proposizione.

Mala tempora currunt, così nel frattempo anche i banchi delle librerie si sono nel frattempo riempiti di danni collaterali editoriali ovvero di un numero eccessivo di libri dedicati alla guerra (in generale e russo-ucraina in particolare) che, troppo spesso, all’ignoranza hanno aggiunto la beffa, poiché nella maggior parte dei casi schierati partigianamente e inopportunamente con una delle parti in causa.

Poiché, come ha affermato ancora in varie occasioni pubbliche chi scrive, parlare di guerra mentre è in corso un confitto dalla portata potenzialmente devastante, ben al di là dei confini entro cui attualmente si svolge, costituisce una grande responsabilità morale ed etica, ancor prima che politica, ben venga dunque il volume appena pubblicato dalle medesime edizioni. In cui fin dall’Introduzione, illustrando il contenuto della terza parte della ricerca, si afferma, a proposito della guerra in Ucraina e delle sue cause reali:

Con buona pace delle ideologie propugnate dalle rispettive fazioni in campo, […] mostreremo che sullo scacchiere mondiale agiscono almeno due diversi imperialismi, legati tra loro dal grande squilibrio accumulato nell’era del libero-scambismo globale e logicamente consequenziali l’uno all’altro. Da un lato c’è il vecchio blocco imperialista definibile “dei debitori”, a guida americana e anglosassone, con l’Europa al traino, impegnati a difendere un’infiacchita egemonia con tutti i mezzi possibili, prima militar-monetari e dopo la grande recessione anche protezionistici. Dall’altro lato, c’è un emergente blocco imperialista “dei creditori” a guida cinese, che coinvolge russi e vari asiatici e registra un’indubbia fase di ascesa. Quest’ultima, tuttavia, è resa instabile proprio dalla decisione di rispondere al protezionismo dei debitori con una scompaginante aggressione militare: un attacco inedito che sfida il monopolio della guerra imperialista con cui, dopo il crollo dell’URSS, gli Stati Uniti e gli alleati occidentali hanno impunemente messo a ferro e fuoco vari pezzi del mondo. E’ una situazione in larga parte senza precedenti, ma ch eper certi aspetti richiama la crisi dell’impero britannico del secolo scorso, con tutte le sue terrificanti implicazioni1.

E’ bene iniziare da qui visto che, proprio in data 26 novembre 2022, il nuovo quotidiano delle mosche bianche e dei grilli parlanti, «Domani», ha affermato nel suo editoriale la preoccupazione per gli sconvolgimenti degli equilibri globali portati dal fatto che i nuovi imperi (Russia, Turchia. Cina anche se non citata) starebbero esercitando una forma di rivincita sugli stati-nazione poiché «non hanno mai amato confini troppo definiti, sempre alla ricerca di un’espansione e di un’influenza oltre frontiera»2. Dimenticando così, e in un sol colpo, le appassionate difese della globalizzazione imperialista occidentale e le accuse di populismo e sovranismo contro coloro che si macchiavano precedentemente della colpa di voler difendere gli interessi e i confini nazionali, l’editorialista riscopre il pericolo rappresentato dall’espansione imperiale (altrui).

Chiarissimo, ma non unico, esempio di come il capitale occidentale, sentendosi minacciato dall’ascesa non solo più economico dei Brics e di altre componenti del capitalismo planetario non dislocate nelle solite metropoli occidentali, non esiti a ricorrere ai tamburi di guerra e ai richiami per allodole dei riferimenti alla nazione e ai suoi confini. Confermando ciò che poco prima si diceva attraverso la citazione tratta dall’introduzione al testo qui recensito. Che così continua:

Osservata in questo quadro generale, la stessa guerra in Ucraina assume caratteri piuttosto diversi rispetto alle solite narrazioni. Non si tratta semplicemente di una guerra per l’autodeterminazione di una regione o per la sovrantà di una nazione, né per la denazificazione di un territorio o per la libertà di un popolo aggredito. Piuttosto, quel conflitto sanguinoso, scatenato dall’oligarchia russa e surrettiziamente avvallato dai suoi grandi sodali, segna l’avvio di una contesa su vasta scala, che servirà a verificare se gli Stati Uniti e i loro alleati possono tranquillamente saltare dal libero-scambismo al protezionismo e tutti gli altri debbano passivamente adattarsi o se, da ora in poi, le regole del gioco economico dovranno esser decise in base ad un diverso ordne di rapporti di forza globali3.

Poche righe che servono a ridefinire completamente i confini del dibattito in corso sulla guerra, sia da parte dei rappresentanti del capitale che dell’antagonismo, o presunto tale. Con una differenza, però, poiché, come affermano ancora gli autori, siamo oggi in presenza di una sconcertante presa d’atto «di un Marx “rapito dal nemico”: tanto dimenticato dai sedicenti tribuni degli oppressi del nostro tempo quanto studiato e rivalutato dagli agenti del capitale, soprattutto per le virtù premonitrici della marxiana “legge” di centralizzazione»4.

Nella prima parte del testo, intitolata non a caso Capitali di tutto il mondo, unitevi!, vengono infatti sviluppate le premesse «di una nuova teoria della riproduzione e della tendenza verso la centralizzazione capitalistica, un approccio che si contrappone al paradigma teorico mainstream ma solleva anche obiezioni ai filoni del pensiero critico che hanno ridotto il marxismo a un intoccabile reliquiario antiscientifico, o che da lungo tempo tacciono sul grande tema delle “leggi generali”»5.

I tre autori, rispettivamente professore di politica economica presso l’Università degli Studi del Sannio il primo, ricercatore in economia politica presso l’Università degli Studi di Cassino e del Lazio Meridionale il secondo e professore di politica economica presso l’Università di Bergamo il terzo, non solo si sforzano di indicare nel movimento costante del Capitale verso la sua centralizzazione il motore di ogni guerra imperialista, ma anche di individuare con precisione la “legge generale” del suo essere non solo “valore in processo”, ma anche indirizzato ad una costante rimessa in discussione degli equilibri precedentemente raggiunti in nome di nient’altro che della progressiva e frenetica centralizzazione delle “ricchezze”. Cui l’Occidente, evidentemente, non basta più come unico centro di raccolta e accumulazione.

L’opera, come si è già accennato prima, è divisa in tre parti e in una serie di appendici, tutte molto interessanti e pertinenti oltre che accompagnate da alcune tabelle riguardanti le variazioni della spesa militare dei principali paesi nel corso degli ultimi vent’anni e dalle posizioni nette estere (in attivo e passivo) dei principali paesi.
In quest’ultimo caso si può rilevare come i principali paesi in attivo siano, in ordine discendente: Cina, Giappone, Germania, Canada, Arabia Saudita e Russia. Mentre all’opposto siano in passivo, sempre nello stesso ordine: Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Australia, Messico e Brasile.

Come si può cogliere attivi e passivi sono divisi tra polo occidentale e altre aree, ma ciò che maggiormente colpisce è il fatto che il solo debito degli Stati Uniti (18124 miliardi di dollari nel 2021) sia superiore all’attivo dei primi sei paesi (12735 miliardi di dollari nello stesso anno) e rappresenti più dell’80% del debito accumulato complessivamente dai sei paesi più “indebitati” (22533 miliardi di dollari totali).

Quanto potrà essere ancora accettata dai competitor tale situazione, soprattutto oggi che Stati Uniti e alleati hanno scelto la strada del sequestro degli investimenti altrui nelle banche da essi controllati? Non sarà per caso questo un altro motivo di inasprimento dei conflitti, più che del conflitto, a venire? Insomma, quanto l’imperialismo occidentale e statunitense riuscirà ancora a centralizzare a proprio vantaggio il capitale mondiale? E, soprattutto, avrà davvero ancora la forza militare per farlo, come ai tempi delle cannoniere e delle operazioni di polizia internazionale?

Questi sono i concreti quesiti che La guerra capitalista impone ai lettori più attenti, al di fuori delle narrazioni manichee e semplicistiche dell’una e dell’altra parte.


  1. Introduzione a E. Brancaccio- R. Giammetti- S. Lucarelli, La guerra capitalista, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2022, p.11  

  2. Mario Giro, La rivincita degli imperi ora minaccia la stabilità, «Domani» 26 novembre 2022  

  3. E. Brancaccio- R. Giammetti- S. Lucarelli, op. cit., pp.11-12  

  4. ivi, p.10  

  5. ibidem