di Sandro Moiso
Chuăng, Il sorgo e l’acciaio. Il regime sviluppista socialista e la costruzione della Cina contemporanea, Porfido Edizioni, Torino 2022, pp. 200, euro 12,00
La prima cosa che salta all’occhio, fin dalla lettura delle prime pagine, nel testo prezioso appena pubblicato dalle Edizioni Porfido è che a differenza dell’Italietta, in cui la sinistra antagonista troppo spesso continua a portarsi appresso le incrostazioni del gramscismo e di un certo operaismo ancora influenzato da brandelli di maoismo, in altre e ben più significative aree del mondo, in questo caso Cina e Stati Uniti, il riferimento ai linguaggi e alle esperienze teoriche della Sinistra Internazionalista costituisce una solida base per l’analisi dei più importanti fenomeni sociali, politici ed economici e delle inevitabili contraddizioni di classe che hanno contraddistinto la Repubblica Popolare Cinese dalle sue origini fino a oggi.
Indagare sulle origini e le ragioni dell’attuale salda integrazione della Cina nella “comunità materiale del capitale” è il compito che si sono posti i membri del collettivo comunista internazionalista Chuaˇng, gruppo anonimo i cui membri si distribuiscono appunto fra la Cina e gli Stati Uniti. Il carattere Chuaˇng, da cui il collettivo prende il nome, in cinese è riassumibile nell’immagine di un cavallo che sfonda un cancello e riveste il significato simbolico di liberarsi, attaccare, caricare, sfondare, forzare l’entrata o l’uscita: agire con impeto.
Da alcuni anni le pubblicazioni sull’omonima rivista e la serie di articoli traduzioni e interviste ospitate sul blog chuangen.org, rappresentano una delle fonti di informazione e analisi più attente e pertinenti sulle dinamiche e le traiettorie delle trasformazioni sociali e del conflitto di classe nella Cina attuale. Il libro, appena tradotto in Italia ma già apparso nel 2016 sul primo numero della rivista, rappresenta la prima parte di un progetto in corso di pubblicazione sulla storia economica della Cina che, con taglio dichiaratamente “materialista”, vuole smarcarsi tanto da una letteratura “di sinistra” da anni sostanzialmente monopolizzata e caratterizzata dalle varie correnti ideologiche di origine “maoista” che, occorre qui ricordarlo, hanno spesso poco a che vedere con il marxismo inteso in senso stretto, quanto dallo specialismo di chiara marca accademica.
Come hanno sottolineato gli autori:
ripercorriamo lo sviluppo materiale della società cinese per evitare di rimanere invischiati nelle battaglie ideologiche del passato. Qua non si tratta di difendere una tradizione di sinistra contro un’altra. Anzi, a differenza della maggior parte delle ricostruzioni, la nostra serie storica de-enfatizza intenzionalmente i dibattiti ideologici e il ruolo dei leader, compresi quelli di Mao e Deng. Non siamo qui per riportare in vita i morti o per far rivivere le glorie del passato. Anche nel nostro lavoro di ricostruzione storica, il focus resta totalmente orientato al presente. Ripercorriamo gli sviluppi materiali della società cinese per tracciare le possibili aperture politiche del nostro tempo1.
Il sorgo e l’acciaio si concentra sul periodo che va dalla fondazione della Repubblica Popolare fino agli anni della Rivoluzione culturale. A partire dalla ricostruzione del contesto economico e sociale in cui maturò il progetto rivoluzionario cinese (costantemente inteso nella sua dimensione collettiva di fenomeno di massa), ci guida nei meandri del processo di costruzione di quello che viene definito “regime sviluppista socialista”, vero assemblaggio in corso d’opera di pratiche, sistemi produttivi, metodi di inquadramento e disciplinamento della forza lavoro ed estrazione dl surplus agricolo, definito dal rapporto tra il Partito Comunista Cinese e la base sociale della rivoluzione.
E’ fra i meandri di questo processo che vediamo emergere tutti gli elementi che andranno a definire i contorni dell’attuale conflitto sociale in Cina: l’irrisolto divario tra città e campagna, la sovrapposizione fra strutture partitiche e apparati dello Stato, la graduale formazione di una classe dirigente di “ingegneri rossi” da un lato e di un semi-proletariato a cavallo fra mondo contadino e sfruttamento urbano, dall’altro. “Uno dei più importanti slanci verso lo sviluppo nella storia dell’umanità”: un sistema, come ci illustra Chuăng, crollato sotto il peso delle proprie contraddizioni e del contesto storico internazionale in cui viene a maturare, ma che, nondimeno, sedimenta gli elementi strutturali che, a partire dalla successiva fase di “riforma ed apertura”, porteranno […] la Cina degli ultimi decenni a rappresentare non solo l’ancora di salvezza per un’economia globale scossa da una crisi ancora irrisolta, ma che ha costituito anche il teatro di una vivace, quanto in parte misconosciuta, conflittualità sociale e di classe, protagonista una giovane e massiva classe operaia cinese. Le sue lotte ricalcano in parte le caratteristiche e i limiti del ciclo di conflittualità globale dell’ultimo decennio, anche se, considerata la posizione strutturale del Paese, hanno, e non potranno che aver anche in futuro, un’eco e una portata mondiale2.
Per tutti questi motivi, si afferma ancora nella Prefazione:
Approcciarsi ad una comprensione della Cina contemporanea appare oggi compito non più procrastinabile. La rapida mutazione dello scenario internazionale, le linee di faglia che vanno ad approfondirsi, i tamburi di guerra totale sempre più incalzanti che fanno da sfondo a questa fase di transizione del capitalismo globalizzato, rendono ormai imprescindibile dotarsi di una cassetta degli attrezzi analitica e teorica “di parte”, che provi a sottrarre la “questione” della Cina tanto al tifo per un fantomatico “socialismo con caratteristiche cinesi”, che assumerebbe sempre più i tratti di faro alternativo per una parte consistente di periferia del mondo, quanto, soprattutto, alle sirene di una sinofobia occidentale sempre meno strisciante, substrato ideologico e narrativo dello scontro inter-imperialistico a venire3.
Attrezzarsi, dunque, non solo per capire la Cina e le sue contraddizioni, ma anche il conflitto interimperialistico allargato che verrà e che è già nell’aria e che, per forza di cose, vedrà coinvolte direttamente una potenza al suo tramonto e una già emersa da tempo. Non a caso due aree, quella dell’America settentrionale e quella sino-asiatica, da cui gli osservatori e i “tifosi” del conflitto di classe potrebbero e dovrebbero attendersi le sorprese maggiori.
Il presente volume costituisce, nell’intento degli autori, il primo volume di una serie di tre dedicati all’«emergere della Cina fuori dagli imperativi globali dell’accumulazione capitalista» e nello stesso si analizza
la fase esplicitamente non capitalista di questa storia, l’era socialista ed i suoi prodromi, durante la quale vide la luce la prima infrastruttura industriale moderna dell’Asia orientale. Il secondo volume coprirà la “Riforma e l’Apertura” avviate alla fine degli anni ’70, per giungere alla cosiddetta distruzione della “ciotola di riso di ferro” durante l’ondata di deindustrializzazione degli anni ’90. La sezione finale, che coprirà il terzo volume, illustrerà il periodo successivo a questa fase di deindustrializzazione ancora in corso, ivi inclusa la trasformazione capitalista dell’agricoltura e la creazione del proletariato cinese contemporaneo4.
Nell’analizzare l’evoluzione dei rapporti sociali e di classe all’interno del sistema politico-economico cinese i compagni di Chuăng utilizzano, come anticipato già dal sottotitolo dell’opera, la definizione di “socialismo sviluppista”, riferito in particolar modo al periodo compreso tra il 1949 e il 1969 ovvero tra l’affermazione della Repubblica Popolare e la fine della Rivoluzione culturale (1966-1969). Secondo gli autori, infatti:
Il sistema socialista, al quale qui facciamo riferimento come “regime sviluppista”, non fu né un modo di produzione né una “fase di transizione” tra capitalismo e comunismo, tantomeno tra modo di produzione tributario e capitalismo. Non costituendo un modo di produzione propriamente detto, esso non rappresentò nemmeno una forma di “capitalismo di Stato”, nel quale gli imperativi capitalisti potessero essere perseguiti sotto l’egida dello Stato, con una classe capitalista semplicemente sostituita nella forma, ma non nella funzione, da una gerarchia di burocrati governativi.
Il regime sviluppista socialista designò invece la rottura di qualsiasi modo di produzione e la scomparsa dei meccanismi astratti (siano essi tributari, filiali o di mercato) che governano i modi di produzione in quanto tali. In queste condizioni, solo forti strategie di sviluppo a trazione statale furono in grado di guidare lo sviluppo delle forze produttive. La burocrazia dilagò perché non poté farlo la borghesia. Dato l’alto tasso di povertà e la posizione ricoperta dalla Cina lungo l’arco dell’espansione capitalistica, solo i programmi di industrializzazione “big push” di uno Stato forte, associati a resilienti configurazioni di potere locale, consentirono l’edificazione di un sistema industriale. Ma tale realizzazione non coincise con una transizione di successo ad un nuovo modo di produzione.
Questo sistema industriale non fu immediatamente o “naturalmente” capitalista. La storia è fondamentalmente contingente. Nell’era socialista non esistevano mercati, né in forma simile a quella assunta durante il precedente sistema imperiale, né con le modalità con cui si sarebbero sviluppati in futuro. Il denaro esisteva nominalmente, ma non era soggetto agli imperativi mercantili del modo di produzione tributario né agli imperativi del valore del sistema capitalista; rappresentava invece il mero riflesso meccanico della pianificazione statale, che non veniva calcolata in base ai prezzi ma in base alla pura quantità di prodotto industriale. Il denaro non poteva funzionare come equivalente universale. Nelle campagne la rendita veniva estratta sotto forma di grano, attraverso il sistema della “forbice dei prezzi”, ma questo prelievo non rispecchiava quello del sistema di tassazione imperiale, né si realizzava come espropriazione dei contadini e privatizzazione delle terre agricole. Fatto più importante, forse, mai in nessuna delle fasi precedenti della storia cinese la massa contadina era rimasta così ancorata alla terra. La divisione fra campagna e città che emerse in questi anni sarebbe diventata una caratteristica fondamentale del regime sviluppista. Sotto il socialismo non si verificò alcuna sostanziale urbanizzazione, a parte quella causata dall’immediata ricostruzione post-bellica o quella legata all’andamento naturale, e la transizione demografica (che vede la crescita dei lavoratori urbani impiegati nell’industria e nei servizi soppiantare la popolazione rurale) non ebbe luogo.
Allo stesso tempo, non v’era evidenza alcuna di una transizione verso il comunismo, che rimaneva un orizzonte puramente ideologico. La forza lavoro si espanse, l’orario di lavoro tendeva ad aumentare, e la socializzazione della produzione creò unità produttive locali autarchiche ed atomizzate: una vita collettiva su piccola scala, lontana però dalla nuova società comunitaria promessa. La libertà di movimento diminuì con il proliferare delle crisi, presero forma due distinte classi di élite, il divario rurale-urbano si ampliò e, gli ultimi decenni del periodo videro l’emergere di una nuova classe di lavoratori diseredati. Ondate di scioperi ed altre forme di agitazione culminarono nella “breve” Rivoluzione culturale del 1966-1969 […] Nei primi anni del dopoguerra, il PCC fu in grado di mantenere l’egemonia sul progetto comunista grazie alle campagne ridistributive nelle aree rurali e la ricostruzione delle città. I fallimenti della fine degli anni ’50 (carestia nelle campagne e scioperi nelle città costiere), non solo misero in discussione il mandato popolare del partito, ma segnarono l’inizio del processo di ossificazione del progetto comunista stesso. Con l’evaporarsi della partecipazione popolare seguita a questi fallimenti, quello che era stato un progetto comunista di massa si ritrovò ridotto ai suoi mezzi: il regime sviluppista. Questo stesso regime necessitava per il suo mantenimento dell’intervento sempre più esteso del partito, destinato così a fondersi con lo Stato (come apparato amministrativo burocratico de facto) e a recidere i legami con il progetto originale(( Ivi, pp.14-16 )).
Per questi motivi non solo i compagni del collettivo possono affermare che a differenza di molte sinistre, non devono nemmeno cercare di tracciare il “filo rosso” della storia, «per scoprire dove il progetto socialista “sarebbe andato storto” e cosa si sarebbe potuto fare per instaurare il comunismo in qualche universo parallelo», ma anche che
Ai comunisti di oggi, tra i quali ci collochiamo, la pratica, la strategia e la teoria del PCC (così come quella di altre formazioni all’interno di questa corrente storica) appaiono nel migliore dei casi estranee e, nel peggiore, aberranti. Nonostante i duri limiti materiali dell’epoca, possiamo affermare chiaramente come molte delle azioni introdotte dal PCC siano semplicemente ingiustificabili. Altre appaiono oscure o incomprensibilmente presuntuose. Ma questo genere di giudizi di valore ha scarsa utilità analitica. Esistono già numerosi resoconti che si prodigano a dipingere i fatti nei termini di un tradimento da parte di “falsi” comunisti, o semplicemente come prodotto dell’azione di una leadership avida e zelante. La storia qui esaminata non è una storia della morale. In accordo con il nostro approccio materialista, le questioni del tradimento o della rettitudine non costituiscono che fattori di minima rilevanza. Il progetto comunista cinese è stato fenomeno collettivo, frutto dello sforzo e del sostegno di milioni di persone. In questa sede tenteremo di scrivere una storia di tale progetto, e del suo fallimento5.
Resta, però, all’interno dell’analisi condotta nel testo un dubbio per il lettore più attento, riguardante la differenza che si vuole rimarcare tra esperienza cinese e esperienza russa.
Nostro obiettivo resta inoltre quello di analizzare l’era socialista cinese […]. Studi comparativi sui diversi progetti rivoluzionari sarebbero certamente utili, ma richiederebbero adeguati parametri di confronto. Oggi, la letteratura sulla Cina e su altri stati socialisti tende ad essere fortemente appiattita sull’esperienza russa. Una delle nostre tesi fondamentali è come semplicemente la Cina non fosse la Russia. Anche se influenzati dall’esperienza sovietica, i tentativi cinesi di emulazione non furono mai completi, comunque sempre applicati in un contesto fondamentalmente differente. Ancor più importante, il punto di riferimento risultava esso stesso in costante mutamento, ed i cinesi, nel progettare le proprie forme di gestione e pianificazione industriale, spesso attinsero da periodi divergenti della storia russa.
Al di là di questo, la geografia dell’influenza sovietica non fu uniforme. Al di fuori del cuore industriale del Nord-Est, la produzione cinese fu fortemente modellata su altri sistemi di gestione aziendale, pianificazione economica ed amministrazione statale. Assunta la Russia come modello, i cinesi attinsero anche dall’esperienza dell’epoca imperiale, del regime nazionalista del periodo repubblicano, dai giapponesi e dalle imprese occidentali nelle città costiere. Tutte queste influenze furono combinate nel tentativo consapevole di creare una nazione distintamente “cinese”, con una propria economia nazionale unitaria6.
Ciò non toglie però che l’economia cinese sia passata proprio nel periodo esaminato attraverso alcune tipiche contraddizioni di quello che era stato considerato il “socialismo in un solo paese” dell’URSS di età staliniana e successive. Per esempio la permanenza di un sistema salariale che, come si afferma ancora nel libro:
rispecchiasse le priorità strategiche d’investimento dello Stato centrale. In base a ciò, fra i lavoratori impiegati nell’industria pesante, gli addetti ai lavori manuali percepivano i salari più alti, con paghe per le maestranze di grado superiore quasi equivalenti a quelle dei quadri di medio livello (come i capi reparto), e fondamentalmente alla pari con le paghe dei docenti universitari e assistenti ingegneri. I lavoratori dell’industria pesante di grado inferiore, invece, ricevevano poco meno della media degli insegnanti di scuola elementare. Questo a sottolineare quanto le stratificazioni salariali progettate dal partito fossero destinate non solo a differenziare i diversi settori industriali urbani, ma anche i lavoratori stessi all’interno della fabbrica7
Mi perdonino gli autori, ma altro che “socialismo”, qui ci troviamo davanti agli stessi problemi sociali e organizzativi emersi durante l’industrializzazione forzata di staliniana memoria, con tutte le conseguenze politiche e di classe che ne derivarono. Motivo per cui, anche se non è il caso di riaprire qui il dibattito sulla permanenza o meno del capitalismo, seppur di Stato, in presenza del regime salariale di scambio ineguale tra lavoro e sua effettiva retribuzione, certo è difficile cogliere una significativa differenza tra il regime del lavoro vigente in URSS e quello cinese del periodo preso in esame. Questo paragone può valere poi ancora per la violenta, e drammatica, mutazione avvenuta in agricoltura che portò a momenti di carestia e fame diffusa.
Nella pratica le politiche del Grande Balzo finirono per minare le fondamenta stesse del regime sviluppista socialista arrestando la produzione e l’esportazione delle eccedenze di grano dalle campagne verso le cttà. Con una sottrazione di una significativa quota di forza lavoro dal settore agricolo e, allo stesso tempo, con la requisizione crescente di grano per il consumo industriale, la produzione totale del cereale rimase ben al di sotto del fabbisogno reale. L’agricoltura collettivizzata risultava in grado di fornire un surplus, ma senza riuscire a innescare quel tipo di rivoluzione della produttività che avrebbe resp veramente possibile un effettivo slittamento demografico. La produttività del lavoro agricolo non era progredita in modo sostanziale, specialmente se paragonata alle prototipiche rivoluzioni agricolebche avevano aperto la transizione capitalista delle nazioni europee. I risultati furono la carestia ed un devastante collasso economico8.
Ancora una volta lo stesso effetto ottenuto in Russia con l’industrializzazione forzata e la collettivizzazione agraria dall’alto degli anni Trenta. Occorrerebbe dunque evitare di negare la similitudine tra rivoluzione cinese e trasformazioni dell’URSS in chiave capitalistica, considerato che in entrambi i casi il termine socialismo è spesso servito per mascherare il salto verso lo Stato e l’economia di stampo capitalistico. Anche l’accentramento svolge questa funzione per un’economia arretrata o parzialmente tale oppure in crisi. Come accadde infatti anche nell’Occidente capitalistico con la Grande Crisi e l’intervento statale nell’economia ad opera del Fascismo, del Nazismo e del New Deal. Allora non è forse proprio lo sviluppismo a costituire il problema di fondo di transizioni che hanno avuto essenzialmente caratteri nazional-borghesi più ancora che socialisti?
Fatte però tutte le dovute considerazioni, non resta che sottolineare l’utilità del testo e il metodo applicato per arricchire un dibattito che ancora oggi, all’alba del terzo millennio e di un nuovo conflitto di portata mondiale e devastante, definire asfittico è ancora troppo poco.
Grazie dunque ai compagni di Chuăng e a quelli delle edizioni Porfido per l’impegno assunto nello stimolarlo con le loro ricerche e questa pubblicazione, motivo per cui non ci rimane che attender l’uscita degli altri due volumi previsti dell’opera.
https://positionspolitics.org/dirty-work/ ↩
Prefazione all’edizione italiana di Chuăng, Il sorgo e l’acciaio. Il regime sviluppista socialista e la costruzione della Cina contemporanea, Porfido Edizioni, Torino 2022, pp. 6 -7 ↩
ivi, p.7 ↩
Chuăng, Introduzione op. cit., pp. 13-14 ↩
Ivi, p.17 ↩
Ivi, pp. 17-18 ↩
Ivi, p.89 ↩
Ivi, p. 133 ↩