di Paolo Lago

Dante, il nuovo film di Pupi Avati, è costruito sulla struttura del viaggio, quello compiuto da Giovanni Boccaccio (Sergio Castellitto) per incontrare, a Ravenna, l’unica figlia di Dante rimasta in vita, suor Beatrice. Il film, che si ispira al Trattatello in laude di Dante, scritto da Boccaccio, alterna i momenti del viaggio a dei flashback in cui vediamo spaccati della vita del poeta, appartenenti soprattutto al periodo della sua giovinezza. Quello compiuto dal personaggio di Boccaccio assomiglia, per certi aspetti, al “viaggio dell’eroe” come è descritto da Chris Vogler nel suo manuale di sceneggiatura intitolato appunto “Il viaggio dell’eroe”. Come scrive Luca Cangianti nel saggio “Il viaggio dell’eroe e la coscienza di classe”, Vogler “afferma che il protagonista, l’eroe per l’appunto, è spinto a intraprendere un’avventura che lo strappa alla realtà quotidiana, portandolo alle soglie di un mondo straordinario nel quale dovrà superare prove mortali nel tentativo di sconfiggere il nemico. Tuttavia «gli eroi non si limitano a visitare il regno dei morti per poi tornare a casa. Ne escono trasformati»” (su Carmilla).

Il cinema di Pupi Avati già in passato ci aveva offerto degli intrecci basati sul viaggio di un personaggio che si reca in un luogo lontano e misterioso per poi essere avvolto da risvolti orrorifici e inquietanti. Questo luogo è spesso rappresentato da quel lembo di pianura padana che si confonde con le acque del Po fino a formare un territorio nebbioso ed ambiguo, attraversato dall’acqua e circonfuso di oscure leggende legate a uno spettrale passato. Basti ricordare La casa dalle finestre che ridono (1976), in cui Stefano, un giovane restauratore (interpretato da Lino Capolicchio), deve recarsi in un paesino sperduto della bassa ferrarese per riportare alla luce un macabro affresco. Macabri e putrescenti sono anche gli scenari che lo avvolgono: vecchie ville patrizie, campagne desolate, oggetti artistici e d’antiquariato che sembrano emergere da arcaici passati palpitanti di orrore. In Zeder (1983), invece, è un altro Stefano (Gabriele Lavia), uno scrittore che, incuriosito dalle leggende circolanti intorno ai fantomatici “terreni k”, i quali costituirebbero una porta verso l’aldilà, si reca al Lido di Spina, in un territorio anch’esso ambiguo ed acquatico. Non si può, poi, non ricordare il più recente Il signor Diavolo (2019), che narra il viaggio del giovane funzionario Furio Momentè da Roma a Venezia e, successivamente, a Lio Piccolo, un paesino della laguna veneta dove, al pari degli altri personaggi, verrà avvolto da una dimensione d’orrore.

Il movimento del viaggio avviene da un luogo conosciuto e familiare, connotato dalla razionalità, verso uno spazio liminale, segnato dal misterioso incontro fra la terra e l’acqua (la bassa ferrarese, la laguna veneta, il Delta del Po). Territori arcaici e intrisi di superstizione che avvolgono nelle loro spire gli “eroi” che si mettono in cammino circonfondendoli di un’ambigua atmosfera onirica e perturbante. Anche Boccaccio, come i due Stefano e Furio, si mette in viaggio verso quella parte di pianura padana che lambisce lagune e Delta del Po, stavolta declinata nella romagnola Ravenna, luogo in cui Dante si spense nel 1321. Tra l’altro, il “sommo poeta” morì proprio per aver contratto delle febbri malariche al ritorno da un’ambasceria a Venezia, mentre attraversava le paludose Valli di Comacchio. Ed è proprio verso quel territorio segnato dall’incontro tra terra e acqua ma anche dalle tracce eterne dell’arte che il personaggio di Boccaccio si dirige, non senza aver fatto testamento prima di partire. Boccaccio parte da Firenze, dalla natia e familiare Toscana, per intraprendere un viaggio in cui ogni tappa rappresenta un momento per ricordare squarci della vita di Dante, di quel “sommo poeta” che egli considera come il proprio padre e maestro.

Allora, all’interno del film, forse in maniera eccessivamente didascalica, in diversi momenti scaturisce la recitazione in voce fuori campo di alcuni versi di Dante mentre successivamente incontriamo un riferimento alla vicenda di Paolo e Francesca, vicenda che il poeta, da soldato, avrebbe ascoltato seduto intorno a un fuoco. La stessa Beatrice appare nelle vesti di una “dama senza pietà” quando – in un momento onirico in cui il tema del “cuore mangiato” sembra filtrato attraverso la lettura di La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica di Mario Praz – la donna fatale è impegnata a divorargli letteralmente il cuore (un momento sinceramente un po’ splatter, l’unico a riecheggiare certe atmosfere sanguinarie dei film precedenti). Rispetto alle sequenze che mostrano spaccati della vita di Dante, assai più convincente risulta la narrazione incentrata sul viaggio di Boccaccio. Un viaggio che, a differenza degli altri precedentemente ricordati, non possiede il timbro dell’orrore. Il protagonista, adesso, non compie un movimento verso insondabili e cupi misteri, verso macabre e demoniache magioni; il suo impervio cammino, disseminato di tappe (monasteri o umili case), si rivolge adesso verso il desiderio di conoscenza, verso l’ultima testimonianza vivente del poeta e scrittore che considera come suo maestro. Il Boccaccio che Avati ci dipinge appare quasi come l’antesignano del moderno biografo che ricerca ossessivamente luoghi e persone frequentati dal personaggio del quale si accinge a scrivere. Se uno squarcio d’orrore è presente nel peregrinare del protagonista, esso è rappresentato dalla cupa bambola che egli reca con sé per donarla alla figlia, bambola che era stata un dono di nozze per Beatrice e che adesso rappresenta solo una tetra reliquia, un volto ed un corpo inerte, perduto in una marmorea immobilità perturbante.

D’altra parte, il movimento compiuto da Boccaccio si innesta su uno sfondo profondamente corporeo (quasi come la cupa peregrinazione dei personaggi de Il settimo sigillo di Bergman), in un affresco rigoroso della società dell’epoca e delle sue piaghe sociali. Il personaggio scende fra le sepolture degli appestati, in cui i corpi sono illuminati dal fuoco di torce che si espandono in caravaggeschi bagliori e percorre i baratri di ambienti segnati dalla povertà e dall’emarginazione. Lo stesso corpo del personaggio appare segnato dalla malattia e il suo incedere è spesso stanco e affannato, circonfuso di una stanchezza che si ripercuote in ogni suo gesto e in ogni suo movimento. E la meta di questo viaggio di un corpo malato sarà il luogo ove un altro corpo malato, quello di Dante, ha finalmente trovato riposo: Ravenna, la pineta di Classe, la chiesa di Sant’Apollinare, in cui il poeta si sdraiava estasiato ad ammirare gli affreschi. All’orrore degli altri film, nel finale, si sostituisce una dimensione onirica che scaturisce dal racconto della figlia del poeta, incontrata nel convento, ma di nascosto e di notte. Una dimensione che racchiude in sé tutta la forza di un immaginario poetico e letterario legato alla figura di Dante che il protagonista Giovanni Boccaccio, come un’alchimia, è riuscito magicamente a creare.