di Franco Pezzini

Jules Evans, Estasi: istruzioni per l’uso, ovvero L’arte di perdere il controllo, ed. orig. 2017, trad. dall’inglese di Cristiano Peddis, Carbonio, Milano 2018.

 

Non soltanto Platone e Aristotele, ma anche

le menadi. […] Noi ci siamo limitati a staccare

una pagina dall’antico libro greco.

(Aldous Huxley, L’isola)

 

Usciti mai totalmente da una crisi che ha fatto trovare ogni scusa ai furbetti del quartierino in politica ed economia per sottrarre diritti e spazi di libertà; usciti non ancora da una pandemia affrontata dai Grandi Manovratori con ogni tipo di abusi, e un sovrano disinteresse verso ogni ricaduta non asfitticamente economica di due anni di prigionia in casa; entrati nel delirio peloso di una guerra dove ogni straccio di dignità è perduta (oltretutto con aumenti dei prezzi da ribellione popolare in un paese che fosse meno psicologicamente depresso); incastrati nelle mille trovate ammannite da piccoli affaristi di lotta & di governo, tutti uniti in cordata (non di casta, ma di classe) fingendo antagonismi cosmici per giochini elettorali: insomma, in questo penoso purgatorio dove è sfibrante arrabattarsi, che ci si scopra inariditi e demotivati ad affrontare la quotidianità è il minimo. E realizziamo di aver bisogno di qualcosa che ci sollevi fisicamente e psicologicamente: le esortazioni virtuose servono a poco, tanto più che spesso arrivano da chi beneficia o almeno non è troppo danneggiato dal contesto. A volte avremmo – ma vorrei dire abbiamo – bisogno di poter uscire da noi stessi e da questo quadro per un tempo minimo necessario a respirare: non una fuga dalla realtà, al contrario, ma il tempo breve di un recupero di forze per affrontarla (in sostanza, una vacanza o una sbronza non sono sufficienti). Avremmo, abbiamo bisogno di un tipo di esperienza psicologicamente forte, esistenzialmente significativa a sostegno della stessa dimensione fisica: e riflettere seriamente sull’estasi, come propone questo bel libro, pare tutt’altro che una facile evasione.

Sarebbe sbagliato confondere Estasi: istruzioni per l’uso, di notevole interesse e intelligenza, con una delle tante pubblicazioni New Age o di filosofia all’acqua di rose sulla necessità di restare psicologicamente integri e di non mutilare dimensioni feconde della vita: ci arriviamo, grazie, mentre l’approccio qui resta saggiamente problematico. Anzitutto perché (la quarta di copertina mette le mani avanti),

 

L’estasi di Dioniso necessita di essere bilanciata dallo scetticismo razionale di Socrate. Senza Dioniso, la razionalità socratica è arida e priva di anima, ma senza la pratica e la riflessione socratica, l’estasi dionisiaca non è che una fiammata.

 

E poi perché una mappatura delle varie esperienze estatiche – come l’autore qui tenta, con il giochino dell’ipotetico Festival dell’estasi diviso in padiglioni, a definire il discorso in spazi corrispondenti ai capitoli e relative divisioni – può riservare sorprese. Premettiamo subito, l’approccio dell’autore, che dopo una lunga e radicata adesione ai principi stoici cerca di superarne i limiti e arricchirne la visione, non è di chi cerchi di barare: nessuna ambiguità di confessionismo nascosto nel constatare con Aldous Huxley il “bisogno, profondamente radicato [nell’uomo] di autotrascendenza”, con Abraham Maslow la necessità di “esperienze picco” che permettano di “superare il proprio Sé e […] sentirsi in connessione con qualcosa di più grande” e con Mihály Csíkszentmihályi la realtà di una diffusa ricerca del flow, “il flusso, termine con il quale lo studioso intende quei momenti in cui siamo così assorti in qualcosa che perdiamo la cognizione del tempo e ci dimentichiamo di noi stessi”, sorta di estasi sottotono. Il fatto è che la vita civile in Occidente ci obbliga a un continuo controllo di noi e delle nostre emozioni, all’inibizione degli impulsi: ma la nostra identità continuamente arginata, controllata, assoggettata a censure (su temi, spesso, non così indiscutibili) ha bisogno di un respiro più ampio, di un sollievo fisico-psicologico e di una comunione con il resto della realtà (e non della sua caricatura premasticata a colpi di inni nazionali dai balconi e messaggi “Andrà tutto bene” appesi come addobbi nazionalpopolari).

La necessità insomma di trovarci, in qualche misura, “al di fuori” di noi stessi, come evocato dal termine antico greco ékstasis. Un’esperienza che, a ben vedere, può non essere affatto uno spasso, recando uno sbatacchiamento dell’anima fino a un senso pieno e terribile del termine stupore. Poi certo, può esistere una trascendenza salutare e una nociva, al ribasso, che ci danneggia: per cui imparare a perdere il controllo in modo sano, intuisce il filosofo Evans, sembra un obiettivo degno di ricerca. Per far ciò incalza per anni la quest dell’estatico, attraverso esperienze dirette con una pletora di gruppi, sondaggi, dialoghi con specialisti di varie discipline e un attento esame di sé, e questo volume è il risultato della sua indagine.

A fronte dell’esame condotto nel 1971 dall’antropologa Erika Bourguignon su 488 società di diverse aree del mondo, è emerso che “nel 90 per cento dei casi esistevano rituali istituzionalizzati per raggiungere una condizione di perdita dei confini dell’Io”. Non nella società occidentale, come conseguenza dell’Illuminismo “e del passaggio da una visione del mondo incantata [in cui la psiche umana è “porosa”] a una di stampo materialista”, dove l’estasi è una semplice illusione della mente e i Sé sono schermati, separati dalle altre persone da una sorta di muro e dalla natura per opera della nostra autocoscienza razionale. “Il controllo razionale è alla base della moralità, e la perdita di questo controllo è qualcosa di cui vergognarsi”. In fase di introduzione, l’autore propone dunque una sintesi di come si sia arrivati a una demonizzazione dell’estasi, poi a un suo revival negli anni Sessanta e alle successive analisi del fenomeno come rilevante a quattro livelli (corpo, mente, cultura e spirito) e nei suoi portati positivi (l’estasi guarisce, motiva e agisce da collante sociale) ma anche negativi. Nel procedere idealmente da un padiglione all’altro della ricerca rileveranno – secondo la terminologia di Timothy Leary – il set (atteggiamento mentale del soggetto) e il setting (il contesto dell’esperienza estatica).

L’itinerario parte con l’esperienza personale di Barbara Alexander, diciassettenne nel 1958 quando vive un’esperienza estatica spontanea, “un incontro furioso con una sostanza viva che arrivava fino a me attraverso tutte le cose in un unico momento […] Niente avrebbe potuto contenerlo”, altro che beatifiche fusioni con il Tutto, che la condurrà poi come studiosa – con il nome di Barbara Ehrenreich – a occuparsi del fenomeno: peraltro non ignoto a mappature scientifiche, considerando gli oltre 6000 resoconti di esperienze analoghe raccolti al Religious Experience Research Centre (RERC) di Lampeter in Galles dall’eminente biologo Sir Alister Hardy. Certo, esiste il problema di trovare una tassonomia adeguata all’analisi di tali fenomeni, e Hardy ha dovuto affinare via via (tale per esempio la dicitura con parole chiave della diciottesima voce nel database: “Visioni ossido di azoto dentisti movimento tunnel luce karma barba Paul reincarnazione Cristo cervello”) a testimonianza di un’estrema varietà. Tuttavia queste esperienze spirituali – usando l’aggettivo nell’accezione più ampia – risultano sempre più diffuse, in particolare durante infanzia e adolescenza: a falsare l’indagine è la resistenza a raccontare gli episodi per appartenenze confessionistiche o rifiuto delle medesime, o in generale per il timore di passare per matti, ma lentamente a grandi numeri tali riserve stanno indebolendosi. Tre sarebbero le tipologie principali di questi fenomeni spontanei, cioè epifanie di connessione e unione con la realtà, esperienze di abbandono a Dio in coincidenza di momenti particolari di sconforto, esperienze di pre-morte, ed Evans ne affronta le connotazioni senza nascondere le interpretazioni più scettiche. Analizza poi benefici e rischi di tali esperienze, compresi i casi in cui

 

la presenza spirituale che si incontra potrebbe essere percepita come minacciosa, malevola, perfino demoniaca. Quasi il 10 per cento delle NDE [esperienze di pre-morte] include un’esperienza infernale – alcuni resoconti sono degni dell’immaginazione pittorica di Hieronymus Bosch.

 

Tiene ovviamente presente la teoria della psiche di James-Myers-Jung, e cerca di individuare “una terra di mezzo tra la ricezione acritica di simili esperienze quali perfette rivelazioni, e il completo rifiuto di esse quali patologie mentali”, con la sfida per chi le vive di scinderne gli aspetti positivi dai negativi anche attraverso il supporto di una comunità circostante (familiare, amicale, scientifica…).

È impossibile ripercorrere analiticamente il contenuto di tutto l’itinerario tra diversi padiglioni che Evans propone: ci limiteremo qui a cenni, rinviando però caldamente alla lettura. Il cap. II riguarda le esperienze estatiche dell’autore con comunità di cristiani carismatici dell’attivissimo Holy Trinity Brompton (HTB) in una Gran Bretagna ormai per altri versi post-cristiana: il nodo di partenza è l’esperienza del non sentirsi amati, del disperato bisogno di approvazione da parte del mondo, ma la comunità ti accoglie e invita lo Spirito Santo a manifestazioni come quelle presenti nella Chiesa primitiva (glossolalia eccetera). Un’occasione per affrontare in chiave di sintesi la storia del cristianesimo carismatico, emerso in Inghilterra tra le diffidenze della chiesa di stato e degli stessi riformati di maggioranza (luterani, per esempio) contro gli “entusiasti” che chiedono i doni dello Spirito, associati agli ordini sciolti per ordine regio e più avanti – ai tempi del Dio orologiaio – a casi di malattie mentali. L’estasi torma solo col Metodismo e una serie di moderni movimenti di revival, fino appunto all’HTB e ad altre realtà minori. Evans partecipa, resta convinto e commosso, a un certo punto si converte suscitando reazioni sdegnate tra gli iscritti alla sua newsletter – tanto più considerando il rigorismo conservatore dei carismatici in fatto sessuale – e si pone il problema se la propria esperienza non abbia avuto connotati ipnotici, confrontandosi con uno specialista: ne matura la convinzione che quello religioso carismatico rappresenti uno degli “spazi controllati in cui perdere il controllo” in interscambio collettivo. Poi, “In termini di ‘setting’ del Cristianesimo carismatico, esiste, ovviamente, il rischio che le chiese diventino un ambiente di trance collettiva”, già le lettere paoline mettevano in guardia contro un certo atteggiamento e la chiesa anglicana ha molto chiaro il pericolo. L’HTB rifugge da atteggiamenti settari, ma Evans mette a fuoco una serie di meccanismi discutibili lì riscontrati – sorta di buone tecniche di vendita – e dopo un po’ l’abbandono è inevitabile, pur non impedendogli di considerarsi ancora culturalmente anglicano.

La tappa successiva (III) richiama Il Cinema Estatico – ma è aperta a un contenuto molto più ricco. Attraverso la realtà del sogno (“la più comune delle esperienze estatiche”), le letture di Freud e Jung e il rapporto con l’Ombra, si arriva al macrotema delle arti: “secondo Jung, ci rendono capaci di comunicare con la nostra mente subliminale per mezzo del linguaggio onirico dei simboli, delle metafore e del mito” (il che è una sintesi un po’ concentrata, ma si può perdonare la semplificazione all’autore che un po’ in tutto il libro lavora di sintesi su posizioni di enorme latitudine o complessità). Dopo essersi interrogato se le arti possano essere un sostituto della religione, poi sul rapporto tra culto e cultura e sulla separazione consumata a seguito della Riforma, che prepara alla distinzione tra scienza e arti dell’Illuminismo – con una salutare liberazione, va detto, delle medesime dai vincoli religiosi – nota però che dopo la cancellazione delle visionarie, incantate processioni medioevali dei Misteri per opera dei puritani, un nuovo tipo di spettacolo, il teatro elisabettiano e in particolare di Shakespeare, prende il posto delle liturgie vietate. Con effetto tanto febbricitante che Huxley segnalerà: “L’aggettivo che più spesso vi si applica è transporting: ti trasporta, ti trascina fuori da questo mondo, e ti conduce in un Mondo Altro”. Evans continua:

 

Le commedie di Shakespeare sono sogni estatici in cui le tradizionali strutture dell’Io vengono violate. I personaggi si scambiano i partner, nonché il genere, lo status, la sessualità, perfino la specie. In tutti loro c’è un tocco della malizia di Puck – l’Io non è stabile come lo concepiamo, e il teatro ci permette di assumere delle identità alternative. Le tragedie, ovviamente, sono più vicine all’incubo nel loro indagare l’Ombra più oscura dell’identità umana – cosa significa essere traditi, abbandonati, uccisi, scacciati dalla propria casa e lasciati a vagare nel deserto? Le tragedie del Bardo ci aiutano quindi a guardare in faccia questi incubi, e a opporre, collettivamente, resistenza.

 

Per il grande studioso Sir Jonathan Bate, Shakespeare sta “consapevolmente sperimentando l’idea del teatro quale sostituto di quei rituali cattolici che la Riforma aveva spazzato via”. Anche se ovviamente i valori etici della “religione del teatro” sono diversi da un culto tradizionale, e spingendosi oltre i confini dell’Io il teatro permette di incontrare la più ampia e fertilmente molteplice varietà di entità (“‘Chi è là?’ recita la primissima battuta dell’Amleto”), preziosa per un’epoca di scetticismo. Un’estasi insomma nel segno dell’ambiguità, derubricata a “trucco” o illusione da Teseo nel Sogno di una notte di mezza estate. Al che però Ippolita gli ribatte:

 

Ma il racconto di tutto ciò che accadde questa notte, e il fatto che le menti di ognun furon stravolte, attesta qualcosa di più che fantastiche visioni, e la cosa assume grande consistenza – per quanto strana e prodigiosa.

 

Una posizione pragmatica che prelude a letture moderne sull’estasi: sia o meno legata a “spiriti”, quella consistenza è rilevante sia nelle nostre singole vite, sia anche a livello di uno sconvolgimento comunitario (le “menti […] stravolte”).

A distanza di cinque secoli, il teatro offre ancora momenti di trasporto per cui il riferimento all’estasi non è inadeguato, ma all’avvio dell’età moderna anche la poesia inizia a emergere “quale canale di accesso quasi-laico all’esperienza estatica”. Se un’intera scuola di mistici cristiani aveva rivendicato ispirazioni estatiche (si pensi solo alla Commedia dantesca), inizia ad apparire qualcosa di nuovo: “In L’Estasi, il poema di John Donne, è l’amore sensuale, non lo Spirito Santo, a trasportare il poeta oltre i confini del proprio Io”, e lo smarcamento sarà via via sempre più accentuato: Wordsworth, Coleridge, Keats… fino ad autori molto più moderni come Rilke (“è nel potere dell’artista creativo gettare un ponte tra i due mondi”) e Seamus Heaney (la poesia come “una porta verso l’oscurità”).

E poi c’è il romanzo, per Evans “una tecnologia in grado di incidere profondamente sulla nostra coscienza. Nel mondo creato da un buon libro, noi ci perdiamo” o – come dice il neuroscienziato Norman Holland autore di Literature and the Brain: “Raggiungiamo stati mentali unici, simili alla trance nei quali diventiamo inconsapevoli del nostro corpo e dell’ambiente che ci circonda. Veniamo trasportati”. E di lì il discorso si apre all’arte come portale estatico, in tutta la latitudine del concetto, fino a concentrarsi su “Cinema e realtà virtuale come caverna dei sogni” che – così David Lynch – “concede la parola al subconscio”. Per allargarsi nuovamente a discorsi generali sull’estasi dell’ispirazione creativa, sull’ispirazione come dono dall’alto, sulle arti come sogno collettivo e sulla questione se possano sostituire la religione.

L’indagine prosegue con il rock and roll (IV), con impagabili incontri tra reverendi canterini, memorie delle leggende della musica, libertà estatica nella danza, commistioni di sacro e profano (“Puoi salvare delle anime!” urla il produttore Sam Phillips a Jerry Lee Lewis, dubitoso di incidere Great Balls of Fire in quanto presuntamente demoniaco), musica che cura, autorizzazioni a perdere il controllo e venerazione degli idoli rock. Come afferma Springsteen al “New Yorker”, “Sul palco sei un po’ uno sciamano che guida la congregazione […] Sei il canale di contatto”, magari attraverso alter ego funzionali all’uscita dall’Io e per sbloccare aspetti subliminale della psiche. Dove i festival diventano “zone temporanee autonome”, come li definisce il filosofo sufi Kakim Bey, “spazi per il sogno collettivo”.

Il capitolo V riguarda la psichedelia, su cui la ricerca dopo quarant’anni sta ripartendo, nell’eco di pratiche antichissime che hanno conosciuto un grande oblio nella cultura occidentale per millecinquecento anni – salvo il fatto che alle tradizionali piante psichedeliche si affiancano oggi i prodotti estatici sintetizzati in laboratorio. Qui un po’ più nota è la storia della diffusione e della successiva criminalizzazione degli psichedelici, mentre sul funzionamento, la presenza di tesori & mostri liberati abbassando la soglia della coscienza, il rapporto con la concezione di un cosmo animista, l’opportuno discernimento degli spiriti o l’adozione degli psichedelici in chiese locali sudamericane come quella del Santo Daime (cioè “Dammi”) alcune informazioni potranno giungere nuove al lettore non specialista.

Si passa poi alla contemplazione (VI), e Evans si è assoggettato qui a un difficile ritiro di meditazione Vipassanā: in questo contesto prende in esame il declino della contemplazione cristiana (ma qui, come altrove, l’occhio dell’autore è troppo concentrato sulla situazione britannica, nel continente la situazione è un po’ diversa), poi il dilagare delle pratiche orientali, della mindfulness, i rischi della meditazione – che può far affluire esperienze anche traumatiche per chi non sia preparato.

Il nuovo padiglione visitato, altro tema noto, concerne l’estasi delle pratiche sessuali (VII). Passiamo così attraverso il Tantrismo e le dottrine di Osho (ma anche le deviazioni di alcune sue comunità) con pratiche curiose di rimozione delle inibizioni; i pregressi storici dal mondo antico alla “polizia antivizio” della cristianità, ad “Amor cortese e scopate illuministe”, “contro-Illuminismo romantico e […] sesso mistico”, fino alla rivoluzione sessuale modernista, alla religione del sesso di D.H. Lawrence, agli orgasmici anni Sessanta e al “lato oscuro dello scambismo” nel decennio successivo. Inevitabile approdare al rapporto sadiano tra agonia ed estasi e alla via del dolore BDSM; e infine a quella tormentata eredità della rivoluzione sessuale che non impedisce all’attività sessuale ordinaria “occasionali momenti di estasi” (al di là dei tracolli del desiderio da lockdown successivi all’uscita di questo libro), ma vede oggi soprattutto acquisito il più modesto obiettivo di un minor imbarazzo rispetto al sesso e una maggiore accettazione di scelte sessuali diverse. Un po’ sull’onda degli scritti di Colin Wilson proposti dallo stesso editore Carbonio, è inevitabile realizzare che c’è qualcosa di profondamente asfittico nella sessualità vissuta in occidente, tra sesso virtuale e psicologicamente depresso, laddove una maggiore intelligenza e vivacità nell’attingere a una certa dimensione recherebbe un beneficio dalle ricadute collettive anche in termini di modelli sessuali. In coda al capitolo Evans affronta anche un diverso e particolarissimo tipo di estasi, quella che può instaurarsi tra genitore e figlio.

La tappa ulteriore è più spiacevole, l’estasi della violenza e della battaglia (VIII) tra hooligan, veterani del Vietnam, militari di servizio in Iraq e fondamentalisti islamici: dall’idea di guerra come mito sacro alla catarsi del sangue, dalle estasi nazionaliste alla “Venerazione del Leader Glorioso”, fino allo Stato laico come antidoto all’estasi e ai sostituti mimetici che fungono da sbocco per la medesima. Come lo sport, con la catarsi del sudore, le sue comunioni estatiche e i danni – ebbene sì – che possono derivarne.

Ma per scoprire la nostra connessione col pianeta e reintegrare il rapporto con la Natura, un ulteriore tipo di estasi è quello qui affrontato sotto il titolo “La Foresta delle Meraviglie” (IX): ecologia profonda, eco-centrismo, recupero di una connessione amorosa con la natura… È l’occasione per una breve storia dell’estasi relativa, del rapporto nel cristianesimo tra natura e trascendenza del divino, del passaggio dalla natura incantata a quella materialista. Sostituto naturale dell’estasi diviene allora la meraviglia; ma “Fin dagli inizi della rivoluzione scientifica, alcuni pensatori romantici hanno messo in discussione i principi del materialismo meccanicista nel tentativo di ritrovare una connessione estatica con la natura”, e tra i loro ideali predecessori c’è Thomas Traherne, oscuro sacerdote seicentesco anglicano – fermo oppositore del meccanicismo di Thomas Hobbes – la cui opera è stata riscoperta e valorizzata solo con il ritrovamento fortuito di un manoscritto nel 1896. Comprendeva un volume, Le meditazioni di un pastore, che C.S. Lewis definirà “probabilmente il più bel libro mai scritto in lingua inglese”. Dal rapimento cosmico di Traherne si passa qui alla riflessione su Sublime di Burke (1757), all’estasi neo-animista di Wordsworth, all’ambientalismo estatico di John Muir e di ambientalisti odierni come Jay Griffiths e George Monbiot. Evans esamina con simpatia le ragioni di queste posizioni, ma non ne nasconde i rischi, compreso un iperattaccamento New Age alle esperienze estatiche che può condurre a una scissione bipolare con lunghe cadute nella depressione, e un ripiegamento personale che può ostacolare cambiamenti politici. D’altronde “Il feticismo delle epifanie personali viene senza sforzo impacchettato nella forma del turismo di consumo”, si tratti dei pellegrini romantici nel Lake District di fine Settecento o del Yosemite Park invaso un secolo dopo da adoratori della natura; mentre il nesso “facile” di romanticismo & esotismo non permette di cogliere gli aspetti conservatori e patriarcali di culture native degnissime di attenzione ma al filtro dei dovuti strumenti critici.

Ultima tappa dell’itinerario è “Futureland” (X) sulla filosofia transumanista e le tecniche estatiche piratate qui e là, seguendo il misticismo evoluzionista del fratelli Huxley (Aldous e Julian) e le dottrine dello Human Potential Movement a colpi di LSD, nuove tecnologie e loro applicazioni (stimolazione magnetica transcraniale, dispositivi di bio-feedback delle onde cerebrali…) e – futuro assoluto per gli anni Sessanta – uso del personal computer come strumento di liberazione della coscienza. Con trovate – in cui ha un ruolo importante lo scrittore visionario e imprenditore del network Stewart Brand – che prefigurano Google: come scriveva Brand, “La vera eredità della generazione dei Sessanta è la rivoluzione del computer” e il World Wide Web prende ad apparire come una comunità spirituale con caratteristiche estatiche – il tutto nel preteso spirito di un’immensa comune hippie, contro tutte le avide corporation. Fino a vivere il cyberspazio come esperienza extracorporea, dal riconoscibile sapore gnostico nell’urgenza di trascendere la materia e divenire pura informazione, magari nella forma della realtà virtuale. La “beatitudine geek” indicata da William Gibson sarà a quel punto la creazione di un’intelligenza artificiale (AI) capace di superare i limiti dell’uomo. Evans narra l’esperienza della “dot.comune” nella San Francisco degli anni Settanta, in start-up come Apple o Intel dove alla dedizione totale si accompagna il flusso di cocaina, con guru come Steve Jobs che sceglie “di dipingere la Apple come un eroe ribelle in lotta contro il Grande Fratello delle società vecchio stile (ovvero la IBM)”, e di lì ai modelli di estasi aziendale degli anni seguenti; ma ne delinea anche il lato oscuro.

 

La venerazione che i transumanisti riservano alla tecnologia mi ricorda l’adorazione romantica per la natura, o quella dei neoliberisti verso la mano invisibile che governa il mercato. Si tratta di atteggiamenti fideistici riservati a forze non umane, cui viene attribuita una volontà benigna. La tecnologia ci renderà liberi, se ci abbandoneremo alla sua energia. Ma proprio come Werner Herzog che, guardando la natura, ha visto solo indifferenza, così un tecnoscettico come Nicholas Carr, osservando la tecnologia, ne coglie solo la natura amorale. “Se ne infischia se ci porta a una coscienza superiore o una inferiore” scrive. “Non gliene frega una mazza di noi”.

 

Fino al panorama di una grande truffa che stordisce la massa arricchendo un’esclusiva casta di sacerdoti della tecnologia; e a un’estasi della fuga da un pianeta alla fine. Concludendo – no, preparandosi a proseguire personalmente – l’itinerario, la risposta resta aperta: l’estasi ha una dimensione utilissima, va riscoperta e non può essere bandita come pensava di fare Penteo, ma va integrata in modo da garantire un equilibrio tra Socrate e Dioniso. Evans ammette di non avere le risposte, ma invita a riconsiderare una lunga storia di tradizioni accantonate, per imparare poco a poco, ciascuno a proprio modo, a perdere il controllo. Ammette di aver trascurato nell’esame tante piste – tra le quali la relazione tra estasi e mondo femminile – ma si tratta dell’avvio di un discorso. Condotto oltretutto sulla base di una ricchissima bibliografia e con uno stile narrativo di grande eleganza.