di Franco Pezzini

Ivo Torello, La casa delle Conchiglie, prefaz. di Paolo Di Orazio, pp. 420, € 16,90, Hypnos, Milano 2018.

Di norma si può nutrire una certa diffidenza per la letterarizzazione dei bordelli, spregiudicate fabbriche di sfruttamento del corpo femminile. L’arte concede tuttavia dei lasciapassare: pensiamo soltanto a certe pagine del Satyricon, con il sapore onirico e straniante accentuato dalla perdita di interi stralci del testo, o alle fulminanti, meravigliose e terribili scene postribolari evocate da Füssli, colte come da un buco della serratura con quel tanto di febbre sufficiente a sprofondarle in una dimensione da incubo. Se del resto a regnare non è un clima di equivoca estetizzazione di un recinto di fantasie maschili, e tanto più quando le letture virano iconoclasticamente sull’ironico e il grottesco, il visionario e il fantastico, possiamo evitarci inutili pruderie nella considerazione che una società possa leggersi anche da quel punto di osservazione.

Come nel bellissimo, coltissimo, fantasiosissimo La casa delle Conchiglie di Ivo Torello: un romanzo di genere non scevro da vere e proprie qualità letterarie, con soluzioni anche di grande eleganza.  Un trionfo di intelligenza, cultura e fantasia nella messa in scena, tra pseudobiblia, afrodisiaci luciferini e sedute spiritiche, dietro il paravento di un bordello assai particolare, la Maison des Coquillages dal salone centrale incastonato di ammoniti fossili e tappezzata di opere di Courbet, Gérôme, Daumier, Chéret e Doré; una mitologica, fantomatica casa di piacere della Montmartre borghese degli anni Sessanta dell’Ottocento frequentata in modo più o meno costante dall’intero panorama di pittori, fotografi, scrittori, musicisti, agitatori culturali che associamo a quella Parigi. Dumas, Nadar, i Goncourt, Bizet, Camille Flammarion, Moreau, ovviamente Courbet in odore di L’origine du monde

A gestire l’intrapresa è una fantastica figura femminile, Madame Dauphine Sabatière che presto diverrà vedova de La Châtre, “una trentenne volitiva, colta e bellissima, elegante e scaltra come una gatta”. Oh, non aspettiamoci che Madame rispetti tutte le norme dei catechismi ecclesiali o laici, e neppure che faccia sempre le scelte giuste – come quando, per un certo orripilante rituale di magia nera consigliato nel Cultes Innommables del von Junzt (il lettore di fantastico dovrebbe già drizzare le orecchie), si procura imprudentemente un cadavere senza informarsi dei trascorsi del medesimo. Ma lei e la sua squadra – quasi tutte donne, comprese le sceltissime ragazze nelle quali ravvisa il petit voyant, “la piccola luce ‘che brilla nell’occhio delle signore quando si accenna loro ai misteri della natura’” e che lì hanno una libertà professionale del tutto inedita per un bordello – riescono a far fronte a un mondo non certo femminista con virtuosistica abilità.

Impensabile banalizzare in un riassunto le infinite avventure offerte da questo tripudio gotico e romantico, in un brillante e originalissimo mix di arte, magia nera, sessuologia e storia della cultura dove il fantastico esonda, compreso quello dell’erotica che ne ricorda le dimensioni teatrali, antinaturalistiche e fittizie, in sostanza fantastiche. Un libro scritto per il puro piacere della scrittura, alieno dal desiderio di compiacere chicchessia, e che dunque si lascia andare al divertimento e allo sberleffo (in chiave erotica, perché no), con una sincerità rara: sberleffo anche a un certo horror alla moda dell’oggi, che celebrando e banalizzando Ligotti e altri alfieri del Nero, celebra l’iperviolenza sterile, il maledettismo ripiegato su se stesso, un certo uso gratuito dell’angoscia e – fuori tempo massimo – dello splatter. Comprese le sacrestie dei finti outsider fitte di devoti a un Lovecraft premasticato: e in effetti qui troviamo – con benvenuta vis polemica – entità paralovecraftiane adorate dai beceri cultisti dell’Ordine del Dio Dormiente o Confraternita di Dagon, evolianamente maschilisti, compiaciuti nella messa in scena distorta e distorcente di copioni che hanno preteso di arraffare, credendo di celebrare il politicamente scorretto e corteggiando solo un modaiolo grottesco. Non è forse un caso che gli odierni cultisti di HPL sminuiscano la carica critica di questo bel romanzo. Regolarmente penalizzato anche dall’algoritmo bacchettone dei social, cieco e idiota come certe entità lovecraftiane: il seno all’aria sulla copertina (“L’orrore. L’orrore…”) sembra recare problemi più gravi agli uomini di Zuckerberg di certi repellenti post o gruppi neofascisti. Il che, diciamolo, stupisce moderatamente.