di Gioacchino Toni

«I Mäneskin sono il contributo italiano a questo nuovo mondo in cui tutto ciò che prima era rottura, negazione, malattia e perversione, è sempre più funzionale alle logiche dello spettacolo globale» (Nello Barile)

Dopo esserci soffermati sull’assorbimento dello street style da parte dei grandi brand della moda [su Carmilla] e sui rispettivi rapporti con social media e nuove tecnologie [su Carmilla], facendo nuovamente riferimento al saggio di Nello Barile, Dress Coding. Moda e stili dalla strada al Metaverso (Meltemi 2022), qualche ulteriore riflessione viene qua riservata al cortocircuito di rimandi che si è andato a determinare tra il look delle celebrità dello spettacolo – soprattutto della (video)musica –, quello giovanile ed il mondo della moda.

Nel suo ruolo di settore trainante dell’industria culturale moderna, il cinema si è sempre rapportato con le tendenze moda agendo contemporaneamente da registratore e da suggeritore. Se tradizionalmente ciò è avvenuto soprattutto attraverso l’immagine delle star, il cinema degli anni Novanta palesa lo schiacciamento dello stars system sul quotidiano; a differenza delle stelle degli anni trenta, i nuovi “quasi-divi” non abitano più l’Olimpo ma si trovano a «confrontarsi con il progressivo inglobamento dell’individuo comune nelle rappresentazioni mediali che hanno decretato il tramonto della società dello spettacolo […] e l’avvento di un sistema iperspettacolare, nel quale ogni spettatore è potenzialmente attore» (p. 101).

Reale, vissuto e strada si intromettono dunque nello spazio mediale ed il cinema non manca di testimoniare i «processi che hanno rivoluzionato la mappa degli stili di strada e la loro contrapposizione al sistema della moda ufficiale» (p. 101). Se a lungo l’abbigliamento di alta moda ha marcato «la separazione strutturale tra star e pubblico in virtù delle sue qualità straordinarie, oggi invece esso è sempre più un abito concreto, reperibile nei circuiti commerciali o, addirittura, nei canali di distribuzione alternativi» (p. 101).

Nel corso degli anni Ottanta si modifica anche il rapporto tra scena musicale – sempre più indissociabile dal video – e moda, tanto che, a partire da questo decennio, le nuove star della musica finiscono per sostituirsi ai vecchi divi del cinema nel ruolo di testimonial dei grandi marchi della moda in un sistema in preda a un cortocircuito di rimandi che vede stilisti derivare idee per le loro collezioni dall’abbigliamento degli adolescenti che a loro volta si ispirano alle star della musica mentre queste ultime, una volta scese dal palcoscenico, indossano le produzioni degli stilisti più alla moda.

La diffusione dei videoclip musicali e la successiva presenza sul Web di tutti i soggetti in questione ha drasticamente cambiato le modalità con cui il pubblico si rapporta all’estetica delle celebrità – e viceversa – rendendo la circolazione/condivisione dei codici sempre più frenetica e caotica in un contesto in cui, paradossalmente, la questione dell’autenticità sembra essere divenuta centrale nelle dinamiche del sistema moda del nuovo millennio, un’autenticità (più verosimile che veritiera) che necessita di essere costruita ricorrendo ad accattivanti storytelling (soprattutto) per immagini.

All’epoca delle prime rock star, che attingono dall’immaginario cinematografico della gioventù più inquieta e riottosa, l’interscambio tra il sistema della moda e l’immagine spettacolare del ribelle può dirsi abbastanza debole e casuale. L’immagine del primo Elvis, ricorda Barile, è stata ad esempio cerata da uno stilista specializzato nell’abbigliamento di derivazione zoot-suit per i giovani afroamericani, con cui il musicista viene a contatto frequentandone il negozio. Soltanto nella fase del tramonto la sua immagine abbandona la carica trasgressiva e provocatoria delle origini preferendo ricorrere a costumi di scena spettacolari, come le celebri tute dei concerti di Las Vegas realizzate da un nuovo stilista.

Se per la rock star statunitense il binomio moda-musica è volto a rimarcare la singolarità della celebrità potenziandone le caratteristiche di esclusività, per quanto riguarda la scena londinese il rapporto tra moda e musica si rivela decisamente più effervescente e complesso; numerosi sono infatti i soggetti che cooperano alla creazione della swinging London. Gruppi come i Beatles ed i Rolling Stones, tuttavia, sottolinea Barile, pur in maniera differente, si rapportano in modo originale tanto all’effervescenza delle subculture del periodo quanto alla moda più innovativa vicina al mainstream.

Anche in ambito statunitense si hanno esempi di reciproca influenza tra la scena musicale e moda; emblematico il caso dei Valvet Underground capaci di precorrere alcuni stilemi punk e post-punk. A condurre alle estreme conseguenze le premesse dello star-system formulate nel decennio precedente è invece l’eterogeneo fenomeno del cosiddetto glam-rock nella sua propensione ad estremizzare i tratti distintivi delle celebrità riprendendo meccanismi propri degli ambienti queer e drag.

È con il fenomeno punk che non solo diviene evidente il raggiungimento di un intreccio inestricabile tra abbigliamento, linguaggio, stile di vita, modalità di suonare e cantare ecc. ma anche, la sostanziale omologia tra il palco e la strada, tra band e pubblico, in una spettacolare oscillazione tra il “do it yourself” e il recupero al business del fenomeno. La devastazione creativa del punk ha presto finito per dare nuova linfa all’industria e all’immagine britannica; si pensi, ad esempio, a quanto rapidamente nelle strade londinesi alla paccottiglia per turisti incentrata su Her Majesty si sia affiancata quella relativa ai suoi detrattori. In cambio di qualche pound, ad ognuno il suo “God Save the Queen” made in England.

Per certi versi è proprio nel sapiente sfruttamento della deflagrazione punk che si pongono le basi della cultura dell’immagine audiovisuale che prende il via negli anni Ottanta, quando, d’altra parte, lo stesso punk, abbandonata – quando non esplicitamente ripudiata – la carica eversiva iniziale, con personaggi come Bob Geldof si sposta verso estetiche più edulcorate e sonorità più orecchiabili considerate più in linea con l’impegno etico solidaristico spettacolarizzato e funzionali all’ottenimento di un successo decisamente più allargato. In un tale contesto, il sodalizio con la scena musicale «ha procurato alla moda non solo tanta pubblicità, nuove idee creative ma anche dei veri e propri mondi di riferimento che hanno definito, nella confusione generalizzata del mercato, il posizionamento di alcune case» (p. 119).

A proposito dell’universo musicale più recente, Barile nota come, a parte qualche caso del passato in ambito progressive, non si sia mai data una conquista di credibilità internazionale da parte di un gruppo italiano come quella ottenuta nel giro di pochissimo tempo dai Mäneskin.

Nonostante lo storytelling circa la costruzione dell’identità del gruppo insista sul mito delle “origini di strada” è probabilmente nel suo passaggio ad X-Factor che si può individuare un punto di svolta capace di proiettare la band nello show biz internazionale. Il mito delle origini “di strada” è però funzionale a costruire quell’immagine di autenticità che nel panorama mediatizzato contemporaneo pare caratteristica irrinunciabile a quel processo di identificazione funzionale alle logiche dello spettacolo globale.

Saltano dunque i parametri, i confini, i generi attraverso cui valutavamo certi fenomeni musicali e di stile. Non solo la questione underground versus mainstream, superata ormai da anni, ma anche il modo in cui una attitude rock tipica negli anni Settanta e Novanta viene rilanciata proprio nel momento in cui il rock alternativo quasi scompare dagli ascolti della Generazione Z (soprattutto italiana), ormai sostituito da variegate forme di pop, trap e pseudoindie ecc. La loro partecipazione a Crudelia, spin off del vecchio classico disneyano ma anche un po’ Miranda de Il diavolo veste Prada, suggella questo momento critico in cui nulla è più come prima. La Disney e le piattaforme governano un immaginario globale fatto di star hollywoodiane e consumi per l’infanzia che si riposizionano per gli adulti (e viceversa), con brevi video che sostituiscono i vecchi trailer. Così i Mäneskin riadattano in chiave glamour la durissima e sadomaso I wanna be you dog degli Stogees, già rifatta in chiave noise dai Sonic Youth negli anni Ottanta. Nel video domina la nuova Crudelia di Emma Stone, a metà tra Marie Antoniette, Eyes Wide Shout e Lady Gaga. Sin dagli esordi nel mondo dei talent, il look dei Mäneskin è stato curato da Veronica Etro […], che ne ha esaltato la matrice non binary e gender fluid. Va detto che, nonostante gli innumerevoli paragoni con le star del glam-rock, da Bowie a Lou Reed, il dandysmo del leader esprime molto più un’androginia ossimorica in cui il massimo di mascolinità si assomma al massimo di femminilizzazione (un po’ in stile Perry Farrel dei Jane’s Addiction). I Mäneskin sono il contributo italiano a questo nuovo mondo in cui tutto ciò che prima era rottura, negazione, malattia e perversione, è sempre più funzionale alle logiche dello spettacolo globale (pp. 129-130).


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