di Francesco Festa

-Io ho fatto un corso di marxismo-leninismo tanti anni fa, ma non ci ho guadagnato un cazzo – disse lo sconosciuto.
-Ma quella non è filosofia, è più un miscuglio di dottrina politica, economia e filosofia. E poi parliamoci chiaro, l’hanno trattato proprio male nel secolo scorso: era una pizza margherita, e invece hanno cominciato a metterci sopra cose improbabili, tipo l’ananas. Facile che il corso te l’abbia fatto uno che adesso vende pentole a pressione in televisione.

Verità, leggerezza e quell’ironia cinica e naïf, ma non meno letale di un pugno ricevuto in pieno stomaco. Questo mix di concetti è la cifra dello stile di Sirio Lubreto, giunto con La verità non è mai nuda (CasaSirio Editore, Roma, 2022, pp. 180, €15) al suo terzo romanzo. L’abilità e la virtù di Lubreto è nella scrittura. Ovvio, direste: come se un idraulico non sapesse da che parte si sviti un bullone. Eppure lui scrive con una leggerezza davvero estasiante: accompagna il lettore parola dopo parola, frase dopo frase, mano nella mano, finché non gli fa partire una bordata diretta allo stomaco e fargli riprendere contatto con la realtà.

L’autore riesce certo ad operare con leggerezza, secondo l’arte descritta da Calvino nelle sue Lezioni americane, ossia di sottrarre peso alle città, agli edifici, ai personaggi, per aiutarli a diventare parte di una fiction. Ma a questa, va aggiunta la critica tagliente, da far sanguinare e lasciare cicatrici, che per certi versi rievoca la prosa di Wallace, muovendosi tra il moderno e il post-moderno, fra una società organizzata parossisticamente attorno all’accumulazione di merci, da una parte, e dall’altra, di un accumulo stratificato di difetti, vizi e droga. Come se tutti i rifiuti riposti sotto l’antico tappeto persiano da centomila euro, col tempo, divengano una montagna insormontabile.

La prosa de La verità non è mai nuda si snoda in una Berlino posta fra due epoche, così come i suoi personaggi paradossali, anch’essi situati lungo quel crinale: un passato intramontabile, anche se morto, e un nuovo che si rispecchia, senza volerlo, ancora in quel passato. Un ex agente della DDR, un prete e una massaggiatrice che convivono con la propria zona d’ombra, fra alcool, droghe e sessuofobia. E sullo sfondo, l’infelicità, da scacciare se non si è capaci di governarla, e che funge, sottotraccia, da spinta per lasciar convivere pendant la vita con i propri vizi.

In fin dei conti il romanzo di Lubreto è un distillato della verità. Badate, però, dietro la verità si cela sempre il suo profilo osceno con cui doverci fare i conti. Prima o poi. Anche se ci si affida alla religione o a qualsiasi “oppio dei popoli”, in cerca di una condizione di felicità fallace, poiché gli uomini, giocoforza, hanno motivo di “drogarsi” per far fronte ad una società invivibile.

“Alcuni di voi proveranno a sfuggire al peccato confidando nella misericordia del Signore, altri persevereranno nel vizio ignorando del tutto il giudizio divino; ma tutti, immancabilmente, vi scorderete della compassione verso l’umanità che vi circonda. Non vi giudico, sono stato vivo anche io, ma una cosa almeno tenetela a mente: la verità non è mai nuda”.

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