di Gioacchino Toni

Attorno alla metà degli anni Novanta del secolo scorso, quando ormai la fotografia è costretta a fare i conti la svolta digitale, vissuta all’epoca da diversi “addetti ai lavori” come una vera e propria invasione barbarica che avrebbe di lì a poco condotto a un’era “postfotografica”, nel trattare del diverso modo con cui si ritiene la fotografia si rapporti con la realtà, con un’efficace metafora, l’artista e saggista catalano Joan Fontcuberta, ricorre a due figure che manifestano nei confronti dello specchio un atteggiamento antitetico: il Vampiro che cerca di sottrarsi al riflesso e il Narciso che invece non riesce a farne a meno.

Anche se la svolta digitale della fotografia sembra infrangere definitivamente lo specchio, ossia spezzare il cordone ombelicale tra realtà e immagine, questa non sembra smettere di fingersi «messaggera autorizzata del Vero», come scrive Michele Smargiassi nella sua presentazione al volume di Joan Fontcuberta, Il bacio di giuda. Fotografia e realtà (Mimesis, 2022), in cui sono raccolti otto saggi critici sulla fotografia scritti dal catalano a proposito della creazione delle immagini e della cultura che le vorrebbe espressione della verità e prova dell’esistente.

Nella fotografia Fontcuberta intravede la crisi del rapporto ultramillenario tra essere umano e immagini ed anziché domandarsi, come tanti, cosa la fotografia sia, preferisce indagare cosa essa faccia. Per il catalano, scrive ancora Smargiassi, «non è la fotografia che impone la propria veridicità con la apparente potenza del suo procedimento di raccolta meccanica di impronte del mondo fisico. È vero il contrario: sono i contesti ideologici intenzionali in cui la incontriamo a conferirle un’autorevolezza che da sola non avrebbe. La fotografia è la servizievole, efficiente collaboratrice di più ampi progetti di mascheramento del reale» (p. 9). La fotografia entra nella cultura moderna ricevendo

il mandato di naturalizzare l’ideologia del capitalismo e di tradurla in un’etica della visione che avesse l’indiscutibilità di una religione rivelata. Bene: quel mandato storico, ci svela Fontcuberta, pur essendo infondato, ebbe sicuramente successo; ma ora è terminato. Si è esaurito. Non serve più. Il sistema, ora, per poter garantire la continuità del proprio potere, ha bisogno di distruggere la fiducia dei cittadini nella possibilità di affermazioni vere, non più di imporre persuasivi realismi (pp. 9-10).

Anziché farsi da parte, la fotografia continua, imperterrita, a «fingersi modello privilegiato di rappresentazione della realtà, nascondendo la sua nuova funzione di simulazione come un cavallo di Troia» (p. 10). Al catalano non interessa smascherare i meccanismi di finzione adottati dalla pratica fotografica, il suo l’obiettivo è piuttosto «demolire radicalmente il fallace paradigma verosimilista con cui abbiamo finora guardato e usato le fotografie (o meglio, abbiamo lasciato che ci usassero)» (p. 11).

Uno spirito ragionevolmente scettico ci spinge a concludere che credere che la fotografia testimoni qualcosa implica, prima di tutto, proprio questo: il credere, l’avere fede. Il realismo fotografico e i valori che esso sottende sono una questione di fede. Perché non c’è alcun indizio logico convincente che garantisca che la fotografia, per sua natura, abbia più valore come promemoria di quanto ne abbia un nodo al dito o una reliquia. Il messaggio di Michelangelo Antonioni in Blow up, oltre a dirci che la manifestazione ordinaria del mondo nasconde altre realtà, si riassume nell’idea che tutto – inclusa la certezza fotografica – è pura illusione: nella sequenza finale del film un gruppo di mimi gioca a tennis con una pallina invisibile, fino a che questa oltrepassa la recinzione del campo e uno stordito Thomas, trasformato in complice di quella illusione, dovrà essere colui che recupererà la pallina invisibile affinché la partita possa continuare (pp. 68-69).

A lungo la fotografia è stata considerata come «il modo in cui la natura rappresentava se stessa» (31), una sorta di conseguimento diretto, naturale, senza mediazioni, della verità.

L’annoso dibattito su ciò che è vero e ciò che è falso è stato sostituito da quello che distingue tra “mentire bene” e “mentire male”. La fotografia è una finzione che si presenta come veritiera. A dispetto di ciò che ci hanno inculcato, a dispetto di ciò che siamo soliti pensare, la fotografia mente sempre, mente per istinto, mente perché la sua natura non le permette di fare diversamente. Ciò che conta, però, non è quell’inevitabile menzogna. Ciò che conta è il modo in cui se ne serve il fotografo, con che proposito la usa. In sostanza, ciò che conta è il controllo esercitato dal fotografo per dare una direzione etica alla propria menzogna. Il buon fotografo è quello che mente bene la verità (p. 23).

Insomma, la fotografia, sostiene Fontcuberta, è po’ come il bacio di Giuda: «un amore fasullo venduto per trenta denari» (p. 25).


Il reale delle/nelle immagini – Serie completa