di Elisabetta Michielin

Ultimo suo libro qui discusso e da poco uscito L’emancipazione a venire. Dopo la fine della storia (DeriveApprodi, Roma, 2021, pp. 219) è composto da un saggio iniziale “Per un pensiero politico controcorrente” e una raccolta di testi già pubblicati su siti e riviste on line raggruppati in tre capitoli “Del Metodo”, “Della storia”, “Della Politica” . Focus tematico sono gli anni della storia mondiale che vanno dal secondo Dopoguerra a oggi, periodizzati in tre epoche ben distinte: “i trent’anni gloriosi”, “i trent’anni ingloriosi” della globalizzazione neoliberale, gli anni più recenti etichettati come “sovranisti”, in quanto anche le politiche non dichiaratamente tali operano senza più riguardo alle sorti universalistiche dell’intera umanità e in base solo a supposti interessi di Stato. Attorno a questo focus vengono ripensati molti luoghi comuni di sinistra responsabili dell’attuale crisi di ogni forma della militanza volta all’emancipazione dal capitalismo.

Francesco Bergoglio è andato da Fazio (d’altra parte ci è andata anche Madonna, quindi non poteva mancare il papa…) a parlare a favore delle migrazioni e contro la guerra. Una lezione alla sinistra che poi è responsabile degli accordi con la Libia. Non è uno spettacolo bello questo di plaudire il papa e non sentirsi minimamente in causa! Quel che rilevi è invece ciò che hanno in comune i compagni con il papa quando pensano che “per essere di sinistra, per essere compagni, basta essere e comportarsi da critici contro i mali e le ingiustizie del capitalismo” e che la politica quindi sgorgherebbe “dalla vera umanità.” La mia prima domanda è allora questa: da dove “sgorga” secondo te la politica. ?

Il mio libro parte dal presupposto che la militanza anticapitalista (socialista, comunista, anticolonialista e così via) è in crisi e bisogna chiedersene il perché, così da potere  contemporaneamente, man mano che si avanza nelle risposte, agire di conseguenza. Certo il mondo attuale è così disperatamente ingiusto che ogni giorno c’è un buon motivo per indignarsi, insorgere e solidarizzare con chi lo fa. Ma se non ci chiediamo perché le politiche alternative al capitalismo languono, se ci consoliamo insistendo nell’esecrare la malvagità del capitalismo e a schierarsi con chi ne soffre e reagisce al momento, a me pare che si continui a non andare da nessuna parte. La grande questione sta chiedersi cos’è stata e cosa può essere una militanza politica anticapitalista. Per evitare questa grande questione e rassicurare la propria identità di sinistra ci sono molti modi: riaffermare la propria fede a certi valori o certe organizzazioni che immaginano di difenderli o fare l’apologia dei conflitti sociali, delle “lotte”, benedirle, encomiarle, incoraggiarle ovunque e comunque avvengono. L’attivismo più o meno sindacale o antagonistico che così si alimenta merita certo più interesse delle liturgie dei sempre fedeli a partitini antiquati. Ma in entrambi i casi ci si risparmia una fatica fondamentale: la fatica di studiare e pensare come riunire (quelli che tutt’ora semplificando si possono sempre chiamare) i proletari e,  solo a misura del loro unirsi, come adoperasi per favorirne le lotte. Non ho mai rinnegato la mia adesione all’impostazione del Che Fare? che è il testo che dal 1902 ha influenzato direttamente o indirettamente ogni forma della militanza anticapitalstica del secolo scorso. Un testo, questo, dove Lenin sostiene, da un lato, che senza una teoria ovvero una strategia nessuna politica per l’emancipazione universale è perseguibile, dall’altro, che nessuna di tali  teorie e strategie può venire se non da “dall’esterno”, dall’esterno di ogni movimento di lotta rivendicativa. Insomma sono convinto che perché ci siano alternative al capitalismo ci vogliono dei militanti, che si formino anche a tavolino, oltre che in relazione coi più diretti interlocutori dei loro intenti politici. Lo so di cadere così in una vera eresia secondo i canoni della “società democratica e della conoscenza”, che si suppone vigente!

Nel libro scrivi che “l’idea di comunismo in Badiou ha la caratteristica di essere concepita come «idea eterna» risalente addirittura a Platone, perciò relativamente indifferente alle sue vicende contingenti”, compresi gli orrori innegabili dell’epoca staliniana. Un po’ come i cattolici, sempre fedeli nonostante gli orrori dell’Inquisizione. Tu stesso concludi però che, visti i tempi, sarebbe più giusto chiedersi se la “giustizia universale” non sia rimasta appannaggio della religione piuttosto che del comunismo (altro nome per dire la “giustizia universale”). Se è così, com’è potuto accadere?

La Chiesa cattolica romana dura da secoli, il comunismo e le sue organizzazioni sono durate poco più di un secolo. É un dato di fatto. Ma bisogna capire la differenza della posta in gioco. Se la prima dal consiglio di Nicea nel 325 d.C. voluto da Costantino ha sempre avuto come funzione decisiva di legittimare i poteri esistenti, specie quelli apicali, il secondo ha puntato a destituire ogni potere di coercizione di pochi sui molti. Se la prima ha sempre dovuto confermare l’esistente come fatalità provvidenziale, il secondo ha dato luogo alle più straordinarie e arrischiate sperimentazioni collettive mai conosciute dall’umanità. Alla domanda: perché il mondo attuale nelle sue tendenze più generali sta marciando verso la catastrofe? La prima risposta per me è: perché è orfano delle sperimentazioni  comuniste che lo hanno modellato (assieme e contro il capitalismo) e ora brancola in preda dei più avidi accumulatori di ricchezze e armi. Però la crisi attuale del comunismo non è per me come le tante che già ha attraversato. Come argomento ampiamente nel mio libro, da molto tempo oramai si è posto il problema di come continuare le sue esperienze cambiandone alcuni presupposti fondamentali: specie in rapporto alle questioni d’organizzazione e alla figura dello Stato e a ciò si sono chiamate “le masse”.

Come si concilia l’idea di comunismo come «idea eterna» con l’idea di Politica – suppongo con la P maiuscola) che sorge quasi per incanto da un evento eccezionale, nel tuo caso la Rivoluzione d’Ottobre)?

In questa locuzione “quasi per incanto” si sente chiaramente che il concetto di “evento” non ti convince. Bada però che in alternativa c’è solo la convinzione che da Adamo ed Eva le cose vadano più o meno sempre come Dio comanda, fino a che non arriva il giorno del giudizio universale. La storia come progresso dell’idea della libertà, la storia come storia della lotta di classe, la storia come imporsi della tecnica, l’eterno ritorno del Medesimo e così via, sono i tanti modi di vedere delle lunghissime continuità temporali ripetitive, ma anche queste visioni si trovano obbligate a pensare un evento finale (oltre a quello originario) che conclude i destini dell’umanità: il trionfo della libertà, la vittoria del comunismo, l’imporsi distopico o al contrario risolutore delle tecnologie oppure la fine del dominio della Metafisica e via dicendo.

Nella resistenza ad ammettere delle discontinuità molto più frequenti nel tempo trovo ci sia una specie di rifiuto di dovere cambiare angolatura nel vedere la cose. Un po’ come quando si prova a rassicurarsi sulla propria identità ripetendosi “io sono io!” anche quando si subiscono traumi o viceversa si vivono momenti di felicità tali da far svoltare profondamente la propria biografia e la propria percezione del “sé”.

Politica etimologicamente vuol dire polo, riunione, incontro, cioè qualcosa che non c’è sempre, che accade ogni tanto, dunque che si dà per eventi. Del resto la storia della politica, quella di cui ci si ricorda  in ogni angolo del pianeta, è incomprensibile senza  periodizzarla tramite eventi. Cosa per altro che avviene anche per la storia dell’arte e della scienza o per le storie tra amanti – per Badiou in effetti le esperienze per le quali gli eventi diventano universalmente rilevanti sono appunto politica, arte, scienza e amore. Ora da questo punto di vista per me, come spiego nel mio libro, c’è un problema tra l’affermare il comunismo come idea eterna e il considerare la politica come esperienza che si scandisce per eventi. Oggi in effetti mi pare che “comunismo” sia diventata una parola molto meno convincente di un tempo. Dopo il crollo dell’Urss in suo nome non è accaduto nulla di entusiasmante e le cose sono ancora peggiorate con l’ascesa della Cina a massima potenza mondiale, sempre “comunista a parole”, ma “socialfascista nei fatti” – come denunciavano i maoisti durante la rivoluzione culturale. Per parlare delle politiche egualitarie ed anticapitaliste che oggi languono, ma che ci auspichiamo riprendano quota, credo non sia il caso di continuare a chiamarle comuniste, anche se capisco che parlare invece di giustizia sociale o emancipazione risulti più complicato. È un prezzo da pagare per riuscire ad affrontare nella sua effettiva portata la confusione attualmente dominante in politica. È  il caso di ricordare che anche la storia del comunismo non è stata affatto continua. Divenuto protagonista col Manifesto del 1848 (ecco un evento degno di questo nome!) è stata offuscato dal termine “socialdemocrazia” ai tempi della Seconda internazionale, ed è tornata più che mai in auge dopo la Rivoluzione d’Ottobre e con la Terza internazionale.

Sempre a proposito dell’evento. Anche tu – credo sulla scorta di Badiou – non vuoi vederne le cause perché, presumo, se ci fossero non si potrebbe più parlare di evento. Puoi solo riconoscerlo a posteriori, appunto dalla Politica quando ne raccoglie la “portata innovativa”. Ma questo punto di vista a posteriori (in proposito tu hai scritto delle bellissime pagine sui partigiani) non rischia di essere solo la descrizione ex post di ciò che è accaduto? E, soprattutto, di lasciarci in attesa di ciò che di nuovo può succedere?

Ma non è che confondiamo l’evento col miracolo! Certo che l’evento ha sempre delle cause, che vanno analizzate come tali! L’importante è sapere cogliere che l’evento introduce una rottura tra  un  “prima” e un “dopo” nella concatenazione delle cause, per cui le cause del “prima” non funzionano più come le cause del “dopo”. Che sia imprevedibile e che possa passare inosservato, una volta accaduto, non esclude che debba essere pazientemente preparato, non solo atteso. Ad esempio, non ho alcuna remora a confessare che l’evento per me da attendere e preparare sia qualcosa come il proliferare di organizzazioni politiche capaci di riunire la maggior parte di coloro che subiscono e soffrono ingiustizie sociali, al fine di combatterle. Così me lo immagino, ma è chiaro che se dovesse accadere qualcosa di simile o che va in questa direzione non sarà mai come me lo immagino. E magari rischierò persino di non riconoscerlo conforme alle mie attese, anche se lo è ma non in modo per me evidente. Conoscere questo rischio di sicuro serve a contenerne i danni e  a impegnarsi nel lasciarsi stupire.

Torniamo all’oggi perché la politica ha senso solo pensata come pratica o esperienza di oggi. Nel tuo libro scrivi che “se oggi in nome di un mondo più giusto c’è solo attivismo o filantropia, e non più militanza, è proprio perché non si crede più che la politica meriti un pensiero”. Puoi spiegare meglio questo assunto? E, anche, perché dovrebbero essere i migranti, i «nomadi» come li chiami, gli “inventori” di una nuova politica di “giustizia universale”?

L’attivismo è specialistico, si occupa direttamente di un segmento dei problemi sociali, mobilitando soprattutto esperti di quel settore in termini tecnici. Lo slogan ecologista di Greta è molto chiaro: “ascoltate gli scienziati!”. Durante la pandemia non  abbiamo sentito dire altro. I governi hanno creduto conveniente per cavarsi d’impaccio di ridursi nella parte degli attivisti.  La chiesa è invece universalistica, ma la soluzione i problemi sociali la rimanda al  giorno del Giudizio. Una politica degna di questo nome (capace di unire l’umanità, dividendola dai suoi nemici interni – e non di unirne dei pezzi privilegiati dividendola dal resto) dovrebbe essere universalistica come la chiesa e operativa come l’attivismo, ma per mobilitare insieme queste caratteristiche non c’è sapere, esperti o tecniche che tengano. Occorre certo studiare e analizzare le situazioni concrete, ma soprattutto riuscire pensare in modo del tutto singolare: assieme a chi più soffre dei problemi sociali con metodi adeguati. Marx a suo tempo individuò questa popolazione negli operai di fabbrica, nonostante che allora non fossero che quattro gatti di fronte alla massa di altri lavoratori, contadini, artigiani, servi, schiavi, poveri e così via. Il fatto è che Marx con grande lungimiranza scommetteva sull’industrializzazione, nonostante che a metà Ottocento fosse un’attività sporadica a livello planetario. Oggi non è più così. E il fenomeno che mi pare di sicuro avvenire è il rimpicciolirsi del mondo, il riavvicinarsi delle popolazioni più diverse. Il capitalismo ha implementato questo fenomeno in termini anzitutto finanziari. E ora c’è la reazione sovranista che attecchito anche tra i democratici, cosicché il rischio di una guerra mondiale aumenta. I migranti lo stanno invece sperimentando sulla propria pelle: anche se sono quattro gatti rispetto alla popolazione globale (direi non tanto più del 3% ) sono ovunque nel pianeta e quindi costituiscono per me una componente essenziale di quello che oggi si può intendere come proletariato.

Nel tuo libro «comunismo» e «giustizia universale» sono due modi diversi per dire la stessa cosa. Ma se il comunismo è giunto, come dici, ad avere un “significato equivoco” – è il motivo, credo, per cui dedichi a questo tema molte pagine di critica senza mai scadere nell’anticomunismo – nessuna riga dedichi invece al concetto di “giustizia universale”. Non pensi che anche questo concetto sia da mettere in questione considerando che il pensiero femminista, anticoloniale, etc. lo ha già fatto?

Per scrivere il mio libro mi sono cimentato nella classica discussione sul concetto di giustizia (da Platone e Aristotele  a Rawls e Sen  confrontandomi anche con la monumentale Una storia della giustizia dell’amico compianto Paolo Prodi), ma alla fin fine mi sembrava una questione troppo filosofica – e pur apprezzando la filosofia, mi guardo bene dal considerarla dirimente in ciò che più mi interessa che sono il pensiero politico e l’antropologia come disciplina ad esso attualmente quanto mai indispensabile. Quindi il termine “giustizia” come quello di universalismo ho preferito lasciarli  a livello intuitivo. Capisco che ciò può creare perplessità nel lettore, visto anche il furore antiuniversalistico che si è diffuso anche a sinistra, specie a partire dagli Stati Uniti.

Dopo quasi un secolo di egemonia culturale, oltre  che militare ed economica, di questo paese sull’intero pianeta, le sue opinioni dettano legge ovunque. Il guaio è che fin dalla sua più lontana fondazione ad opera dei “padri pellegrini”, quel che si chiama l’America è stata concepita come “eccezione”, come “sacro esperimento” per forgiare un popolo “eletto”, eletto da Dio ben inteso, anche se poi si è realizzato come coacervo di comunità tra loro ostili. É da qui, secondo me, che viene l’attuale discredito generalizzato nei confronti del concetto dell’universalismo. La cui accettazione, invece, la ritengo obbligatoria per dirimere una questione intellettuali tra le più importanti: il  riuscire a distinguere tra le opinioni circolanti nella comunicazione e il pensiero che punta a misurarsi sul reale. Il pluralismo, le particolarismo, le singolarità, le differenze in quanto tali, sono oggi molto spesso opposte frontalmente ad ogni idea che può unificare il mondo, subito sospettata di totalitarismo, colonialismo e così via. Va da sé che il colonialismo occidentale dominando il mondo ha imposto ovunque e anche ferocemente la sua cultura. Ma non cadiamo nella trappola delle origini, altro tema quanto mai religioso. La bontà o meno di un’ idea non la si può giudicare in base alle sue origini di classe o etniche, ma solo valutando se unifica o divide l’intera umanità.

Nonostante la vicinanza all’operaismo e al post operaismo, ne dichiari anche tutta la lontananza, in particolare sull’inchiesta. Ai nostri imputi di andare alla ricerca della supposta “coscienza di classe” mentre tu, rifacendoti sempre a Badiou e in particolare a Lazarus, proponi un’inchiesta che ha come presupposto il fatto che “la gente pensa”. Ma naturalmente non c’è garanzia che la gente pensi il giusto e il buono. Oggi in particolare sembra che pensi proprio lo sbagliato… E il riferimento è naturalmente anche alle manifestazioni no green pass e, con le dovute differenze, ai no vax.

Uno dei libri più famosi di Lévi Strauss si intitola Il pensiero selvaggio. Il che non voleva dire che tutti i “selvaggi” pensano, e pensano giusto, ma voleva contestare l’idea che il pensiero degno di questo nome fosse solo quello riconoscibile da parte degli esperti del sapere scientifico. Praticamente è quasi lo stesso che vuol dire la formula “le gente pensa” elaborata nel testo Anthropologie du nom di Sylvain Lazarus. Formula e testo risalenti a più di vent’anni fa, che non riprendo nel mio libro e rispetto ai quali ho maturato non poche riserve. Comunque per la precisione l’idea che anche popolazioni senza qualifiche, potere o competenze siano in grado di pensare in proprio, al pari di qualsiasi eccelso esperto o potente riccone, va assunta al condizionale. Non ci si deve immaginare che la capacità di questo pensiero generico sia un dato ontologico, come in fondo accade per le teoria della “moltitudine” e delle “singolarità”, tanto per accennare ai filosofemi post-operaisti. Se sostengo la convinzione che anche un migrante, con scarsi livelli di istruzione e competenze linguistiche, può pensare cose altrimenti impensabili e per di più universalmente rilevanti, sostengo anche l’idea che questa rilevanza possa diventare tale solo in certe condizioni. La prima è che esista qualcuno, un militante, antropologo o chi per lui, in grado di distinguere tra le opinioni dominanti che il migrante, come chiunque, sicuramente ripete e la singolarità del suo pensiero: pensiero, che è da apprezzare come tale solo se elabora l’esperienza diretta del migrante fino a dare spunti utili a trovare alternative alle attuali infami politiche d’accoglienza o di gestione delle migrazioni. Questo approccio consistente nel partire da cosa dice e pensa chi più soffre direttamente delle ingiustizie sociali per me è obbligatorio se si  vuole rilanciare qualsiasi politica di emancipazione. Che questo sia impossibile, che alla fin fine il “dar parola” a chi non conta sia sempre un “mettergli in bocca” discorsi preconfezionati: questi dubbi ricorrenti, questo scetticismo sempre affiorante (in fondo anche in intellettuali di grande importanza come Spivak) per me non sono che un’eredità dei vecchi pregiudizi. I pregiudizi per cui solo chi sa e chi più ha potere sugli altri può pensare per loro. I pregiudizi per cui la “gente” è sempre ignorante, tranne me, l’ “io” che lo sa.

Sono stati questi pregiudizi che hanno conosciuto un incredibile revival in questi anni di pandemia. A ridargli slancio e orchestrarli in occidente sono stati sopratutto i governi per distogliere l’attenzione dalle loro evidenti inadempienze anche sul piano sanitario e legittimare le loro politiche che nella salute non vedono altro che un businness, specie in pandemia, ma che, seguendo la tendenza sovranista (di cui il mio libro offre una visione elaborata) hanno anche colto l’occasione per alimentare il più possibile quelle che un tempo si sarebbero chiamate “le contraddizioni in seno al popolo”.

Finita l’intervista è scoppiata la guerra. Un evento catastrofico. Che fare?

Quel che c’è da fare ora è soprattutto cercare di attenersi a principi chiari, evitare le confusioni, astenersi dal suffragare le furibonde propagande avverse. Sì l’invasione russa dell’Ucraina è proprio un disastro o come lo chiami tu un evento catastrofico. Ma non solo e non tanto perché si tratta di guerra, fenomeno quanto mai diffuso in tutto il mondo, salvo che nell’occidente più ricco. Il peggio di questa  invasione è da vedersi secondo me sotto due angolature. Primo: sul piano geopolitico fa riapparire nel suo volto meno raccomandabile la smania egemonica e militaresca della Russia, la quale invece negli ultimi anni si era dimostrata capace di contrastare ragionevolmente (specie in Siria e nel contrasto a Daesh) la “guerra infinita” perseguita dall’agonizzante impero americano. Certo, ora Putin ha giustificati motivi di non volere una Nato tanto espansa a est da occupare persino la confinante Ucraina, ma il ricorso furbesco ad un attacco di sorpresa e i pochi chiari intenti di tutta l’invasione lasciano temere i più foschi scenari. L’obiettivo iniziale di una difesa di Donetsk e Luhansk si è infatti ben presto accompagnato a quello iperbolico di  “denazificare” l’intera Ucraina e sostituirne il governo a suon di cannonate! Secondo: tutto ciò conferma quanto sostengo nel mio libro. Che a livello mondiale oramai siamo finiti in un’epoca dove domina il sovranismo, cioè la lotta per la supremazia di questo o quel territorio, di questa o quella popolazione sul resto mondo, senza più alcuna idea, né preoccupazione su quelli che potranno essere i destini di un mondo sempre più in frantumi. L’intento americano di voler democratizzare il pianeta anche tramite bombardamenti a tappeto era certo spudoratamente ipocrita, ma almeno teneva ancora aperta la questione (postasi più che mai alla fine della seconda guerra mondiale) di cosa pensare e volere dell’avvenire dell’intera umanità. É attorno a questa questione che secondo me ci si dovrebbe più dare da fare, alla ricerca di un nuovo universalismo internazionalista.

 

Valerio Romitelli (nato nel 1948 a Bologna) ha insegnato e fatto ricerche in università italiane e straniere. Sue discipline: Storia delle dottrine politiche, Storia dei movimenti e dei partiti politici e Metodologia delle scienze sociali. Attualmente tiene un seminario di Antropologia Politica presso l’università di Bologna. Tra i suoi ultimi lavori La felicità dei partigiani e la nostra. Organizzarsi in bande. Cronopio, Napoli, 2015 e l’Enigma dell’Ottobre ’17. Perché ripensare la rivoluzione russa, Cronopio, Napoli, 2017.