di Filippo Luti

“Ma un teleologo tedesco è sempre cosa che fa tutti arricciare i peli per la paura.”   Paolo Mantegazza-

Premessa

Martin Lutero è considerato a ragione un imprescindibile elemento di quella trasformazione sociale conosciuta come la Riforma che, assieme ad altri fattori, ha traghettato la realtà europea e l’intera tradizione culturale europea verso la cosiddetta Modernità.

Osservando le azioni e i pensieri della figura storica si può rimanere interdetti non solo di fronte alla complessità, ma anche all’apparente discontinuità del personaggio e della sua esperienza.

Questo lavoro vuole parlare dela visione di Martin Lutero sulle responsabilità del potere temporale in relazione alle materie di fede concentrandosi in parte su un evento particolare, la condanna dei moti contadini: il Lutero precedente dal 1925 è coerente con quello successivo?

È plausibile l’accusa di essere il grande maestro della “Libertà di coscienza” ed il nonno dell’illuminismo, oppure il suo lascito culturale è stato diverso rispetto a quanto certe semplificazioni vorrebbero suggerire?

Alcuni precedenti: l’interpretazione della Bibbia ed esempi di  trattazione dell’Eresia dall’epoca patristica al medioevo

Il punto di riferimento per ogni trattazione cristiana è la Bibbia, divisa in due componenti dai diversi ruoli storici: L’antico Testamento, la Legge, ed il Nuovo, la Lieta Novella.

I due aspetti hanno goduto di alterne fortune nella tradizione teologica, nonchè di diversi utilizzi: naturalmente, il Vangelo è stato impiegato fin dal cristianesimo delle origini per esporre e giustificare i valori della mansuetudine della misericordia, caricati di una valenza morale rivoluzionaria per l’epoca, mentre l’originale testo sacro degli Ebrei aveva perso parte della sua importanza, uscito dalla particolare ottica  di quest’ultimi.

La Torah era l’incarnazione di uno spirito nazionale “ante-litteram“, che presentava figure di chiara matrice orientale dove la regalità si prendeva direttamente la responsabilità di gestire gli affari religiosi e di garantirli, a costo naturalmente di ricorrere ad una violenza esecrata  volte solo come “atto impuro”, di cui si sono macchiati persino canuti profeti come Elia; il filologo che può spulciare la nozione di “Cuore” come riferimento all’interiorità dei personaggi, può solo intravederci un abbozzo di quella secoli a venire sarà chiamata la Coscienza[1].

La sorgente maggiore di materiale fresco per la teologia sarà costituita dalla vicenda del Cristo: episodi come la parabola della zizzania o la cacciata dei mercanti dal tempio avranno enorme fortuna; nel primo caso, si assisterà ad un curioso fenomeno di trasformazione, poichè la perdurante ed iniziale interpretazione che precettava la tolleranza terrena contro i disturbatori dell’unità cristiana, lasciando il giudizio all’Altissimo, subirà delle trasformazioni ed obiezioni.

La questione dell’eresia si presenta nel mondo cristiano dopo i primi secoli, costringendo i padri della chiesa ad affrontarla con un approccio che cambia con l’ascesa sociale del cristianesimo.

Il cristianesimo prende le distanze dall’atteggiamento persecutorio di cui era vittima; la concezione della “forza” del cristianesimo, in antitesi con la repressione subita per conto delle istituzioni imperiali, si avvalora della nozione di centralità della realtà spirituale per esemplificare la necessità di ricorrere ad armi alternative alle lame terrene per difendere la fede o fare proselitismo, quali la mitezza e la forza della propria superiorità morale, nonché l’ostracizzante della scomunica come estremo rimedio contro  “pertinaci”, “anticristi” o “maghi”, che mettano in pericolo con le loro sregolatezze il successo dell’unanime missione del consorzio cristiano; nessun predicatore o legislatore si deve permettere di alzare le mani contro chiunque.

Una novità costituita dal cristianesimo è la prorompente divisione in due spazi della comunità/legalità: la comunità del cristiano, realizzazione in terra della comunità spirituale, la cui partecipazione viene scelta in virtù della propria coscienza in risposta alla rivelazione, si sommava alla comunità civile, la cui autorità temporale doveva giustamente far rispettare le norme del diritto puibblico, ma non farsi carico della vita spirituale dei cittadini[2].

Dopo le macchinazioni di Costantino, la crescente fortuna politica del Cristianesimo cambiano le carte in tavola: mentre il Cristianesimo diventa il nuovo instrumentum regni di un ordine imperiale necessitante un rinvigorimento intellettuale, gli imperatori si trasformano da persecutori a garanti e successivamente difensori di questa fede monoteista e perciò salutare per la tenuta del dominio politico, cosicché° il potere temporale si risolse infine in protettore ed impositore della fede cristiana e del suo dogmatismo, in contrasto con le minacce rappresentate dal rinnegato paganesimo e da correnti eretiche e scissioniste; il rifiuto della novella divenne reato di lesa maestà come lo era stato il rifiuto del culto dell’autorità imperiale.

Anziché creare da subito una connivenza di poteri, il cesaropapismo scatenò un putiferio intellettuale per tutto il periodo della tarda antichità, con numerosi teologi ed ecclesiastici che sconsigliavano non solo l’eccessivo coinvolgimento del braccio secolare, adducendo l’abolizione della regalità ierofora dell’antico Testamento e i discorsi di Cristo sui due regni, ma addirittura il ricorso a misure temporali eccesivamente crude e sanguinarie nella persecuzione persino dei più tracotanti eretici; e non mancarono neanche parole favorevoli all”intervento statale”.

Nel caso di Agostino d’Ippona(che avrà una sua influenza pesante su Lutero) si assiste ad un processo di mutamento: il padre si mostrò dapprima favorevole ad un atteggiamento clemente contro i disturbi donatisti nel nord africa, ma col tempo, arrivò a giustificare l’intervento dell’autorità contro gli eretici elaborandolo anche grazie ad una rilettura della parabola della zizzania, in nome dell’ordine sociale e della sicurezza della cittadinanza, scongiurando certamente i rimedi più sanguinari, ma offrendoci un esempio calzante di questo atteggiamento ambivalente[3].

Diversi secoli dopo,  il vecchio mondo in lento declino della romanità ormai traviato e sublimato da un’apocalisse civile inaudita, in Europa sorge una nuova civiltà, che come succede abitualmente rielabora gli spunti dei predecessori ridotti in polvere: la nuova grande autorità civile è un imperium basato su una realtà feudale che tenta di combinare la cultura del diritto a principi politici nordici, e accanto a lui sorge un’autorità spirituale ormai radicata e potentissima, dotata di un monopolio culturale inedito che ha relegato il paganesimo a vestigia di ceti umili, o ad enclavi poste ai confini dell’oikumene, destinate ad essere assimilate nella grammatica con il proselitismo mansueto e nella pratica con episodi di conversione forzate, o alle alterità minacciose in agguato al di fuori di esso.

Questo mondo non vanta più due civitas separate: di fatto il sacro romano impero assomiglia ad un mostro bicefalo, un guerriero che impugna le due spade, quella dell’autorità celestiale e temporale, e sull’utilizzo delle quali i due cervelli continuano a litigare tranne quando le coordinano contro i nemici da schiacciare, ammettendo inconsciamente o esplicitamente di condividere però gli stessi visceri.

I rapporti con ciò che sta oltre la Cristianità sono apparentemente contraddittori e differenziati da pareri diversi e contingenze: il contatto con la diversità interna degli Ebrei o con quella esterna come può essere dei mori è tollerabile quando non mini l’integrità della fede del cittadino cristiano, e che esso porti un buon esempio di morale al pagano è sempre cosa dolcissima e desiderabile; si può persino ammettere la bontà della coscienza di un infedele, o non ricorrere sempre a brutali conversioni forzate(sulle quale la maggior azienda concorrente, la mezzaluna, non calcava per furbizia fiscale)qualora, come diceva Bernardo di Chiaravalle, si preferisse il momentaneo quieto vivere.

All’interno le cose vanno in maniera diversa: oramai la  nozione del contrasto alla fede come violazione della sovranità è conclamata ed attuata con rigore immensamente superiore anche a quello della tarda antichità, poiché sebbene per motivi combacianti, la cura d’anime e la cura dello stato possono utilizzare metodi diversi, attraverso l’istituzione dell’inquisizione e gli ordini restrittivi del potere imperiale; esemplificazione lampante del funzionamento di questo meccanismo diventa la crociata contro gli albigesi, dove si ricorse ad un vero e proprio genocidio contro personaggi noti per il comportamento lodevole,  ma pericolosissimi per la minaccia che il loro redivivo manicheismo costituiva per il dogma cristiano cattolico.

Nei secoli bui si discusse pure del tema seccante della coscienza erronea, il quale ovviamente creava un certo fastidio nella discussione su come affrontare l’eresia; sorsero due grandi scuole di pensiero, una, introdotta da Abelardo, giustificante il valore morale a prescindere, ed un altra, di maggior successo, intransigente nei confronti dell’ignoranza sulla Legge divina fino a livelli paradossali; ma un esponente di quest’ultimo gruppo, l’Aquinate, arrivò a a fare delle aperture per quei casi eccezionali di contingente ignoranza della dottrina o della volontà divina, con conseguenze non banali[4].

Un ulteriore salto nel tempo: alle soglie del cosiddetto Rinascimento, i conflitti interni al Sacro Romano Impero tra i sue due cervelli(risolti alle volte con sconfitte clamorose della corona sacra, come nel caso delle gesta francesi) e l’innegabile prepotenza mondana dell’istituzione papale portano assieme ad altre cause a sempre maggiori richieste di una riforma che risani la Chiesa dalla bancarotta morale che gli viene attribuita, in special modo al papato; nelle visioni di innumerevoli riformatori e proto-riformatori, e dei devoti moderni, esiste in realtà ancora la comunità spirituale, la Chiesa, solo però che stavolta il corpo marcio, l’eresia, viene identificata con le storture metodologiche e morali del vertice, la curia romana interessata ai giochi politici e ai lazzi della cultura e del lusso, e supportata da improbabili ordini monastici e da una fitta rete di possidenze e traffici più o meno ombrose; se tale organo decide di effettuare una repressione, più che per colpire l’eresia si sospetta che lo faccia per colpire minacce ai suoi interessi.

Questa emergenza morale porta alla ribalta personaggi come Jon Wycliff e Jon Hus, le cui avventure prendono spesso pieghe sfortunate qualora i risvolti teologici delle loro speculazioni riformistiche li facciano cadere in pasto alla repressione anti-eretica; anche questi incidenti riportano in voga la discussione sui metodi da usare per identificare ed affrontare l’eresia; d’altro canto, l’incapacità del sistema curiale di staccarsi da quelle forzature e cadute tipiche del tardo medioevo non faceva che esasperare l’impressione della sua bancarotta morale, contribuendo al fiorire di movimenti di contestazione interessati a cercarsi da soli quella riforma tanto ambita, con lo scopo di ricostruire il valore della religiosità cristiana, in risposta alle angosce e alle preoccupazioni di un’epoca di cambiamenti[5].

Nel dibattito entra dirompente una nuova forza  culturale, l’Umanesimo, il cui apporto scompagina e rivoluziona non solo il dibattito teologico, ma l’intera vita culturale europea;  la rivalutazione del mondo antico e la creazione di un senso della storia sono di enorme impulso per la discussione sulla tolleranza religiosa e civile, accanto alle nuove sensazionali scoperte geografiche e scientifiche, ma spesso l’interesse di questi intellettuali si rivolge non tanto verso qualcosa di ravvicinabile alla nozione contemporanea di tolleranza, bensì ad un desiderio irenista ed universalista atto a scongiurare conflitti e che restituisca unità e qualità alla grande comunità cristiana, purgandola dai mali dell’ignoranza e dell’inutilità scolastica; tale atteggiamento sarà disperso ed avrà declinazioni personali e contraddittorie: un Tommaso Moro può scrivere l’Utopia canzonando le storture di un sistema corrotto e superstizioso, ma ciò non gli impedirà di mantenersi inorridito e risoluto nei confronti dei più tumultuosi stimoli rivoluzionari a lui contemporanei, fino a morire per aver contestato il particolarismo del proprio sovrano[6]; un Nicola Cusano può riproporre la visione di uno pseudosincretismo che veda le varie religioni come vulgate della rivelazione di qualità differente, destinate un giorno forse a qualcosa di meglio[7].

Eppure le speranze universaliste dovranno essere disattese, nonostante anche i più ostinati riformatori, i serafici mistici o visionari anabattisti pensassero alla grande “comunità spirituale”; tra questi protagonisti, si affacciò pure Martin Lutero, ed il suo messaggio sarà espressione di una vera “via moderna”: non uguale ai discorsi del medioevo, ma incline a qualcosa di molto differente dai miti dell’umanesimo.

Fortuna e dottrina sociale del barbaro  Lutero

Un personaggio come Martin Lutero non può essere compreso senza avere conoscenze delle sue personali idiosincrasie, delle sue esperienze di vita e dei suoi studi particolari; rimuovendo questo individuo per molti versi eccezionale, per caratterestiche e prestazioni, è impossibile razionalizzare gli esiti dei movimenti riformisti.

Di estrazione umile, Lutero rinunciò alle aspirazioni avvocatizie preferite dalla famiglia per andare incontro alla propria natura, diventanto un monaco agostiniano estremamente zelante nella condotta e rigoroso nella teologia; una crescente frustrazione interiore dovuta all’insoddisfazione per le proprie prestazioni religiose e curiose esperienze epifaniche sul senso del peccato e sulla potenza della divinità[8].

Questa tensione verrà sfogata in un lavoro intellettuale volto a contestare gli aspetti più ambigui e corrotti del potere cattolico e le ricadute a carattere economico; in particolare, a portarlo definitivamente alla ribalta è la lotta contro le indulgenze, contrastate su base teologica in base a spunti su cui il monaco affinerà la propria particolare teologia della salvezza.

Il punto centrale del disegno salvifico della divinità per Martin Lutero risiede nell’azione del Cristo, che tramite il sacrificio devastante della croce ha permesso da solo la possibile salvezza spirituale del genere umano dal potere pernicioso e micidiale del peccato, che trova la sua forma più intrinseca e pertinace nell’incarnazione del tradimento originale di Adamo; il cristiano deve partire dalla fede assoluta in questo atto compiuto per lui, ed attraverso l’esperienza spirituale e le scritture, rendersi sempre più conscio di questo disegno e se esso fosse aperto anche a lui.

Il ruolo delle opere viene ribaltato nella moralità Luterana, e  le azioni pie non sono più un tramite per la salvezza, ma diventano invece una conseguenza di essa, poichè il fedele che si rende conto di essere stato salvato tramite la fede è portato a seguire i precetti cristiani e quindi a tutelare il prossimo; voti e buoni azioni compiute per attirare la divinità era giudicabili come peccati.

Questo ragionamento, rivoluzionario, ha una sua utilità nell’opera di delegittimazione di pratiche religiose da Lutero ritenute esteriori e deleterie, quali la vita monastica, o i lati più idolatri dei sacramenti e delle cerimonie; oltretutto, Lutero esaltava l’importanza della scoperta individuale della propria salvezza, che poteva avvenire tramite un cammino spirituale interiore; questo richiamo ad una “libertà di coscienza” teologica riscuoteva un fascino non indifferente, nonostante si concatenasse con altre delle più tetre e conservatrici posizioni luterane, quali i risvolti della predestinazione delle anime[9].

Sotto una certa luce, Lutero non sembrava neanche uno dei più accaniti e distruttivi riformatori, ma pareva anzi uno dei più conservatori, e la sua predicazione mostra sfaccettature: egli credeva nel valore della comunità cristiana e da giovane era più vicino alla posizione di chi auspicava una “guarigione” della chiesa; la sua teoria del sacerdozio universale sembrò spesso incorrere in ambiguità e contraddizioni; in alcuni momenti volle tollerare la messa cattolica ed in altri proibirla; di estrazione agostiniana, finì per esortare gli ex colleghi ad abbandonare conventi e monasteri, equiparando la vita monacale quasi alla superstizione; sil suo atteggiamento verso la questione ebraica rassomiglia l’atteggiamento psicotico di un innamorato pentito.

Essenzialmente, l’apparente oscillare delle posizioni luterane se studiato minimamente rivela una parabola mutante, in cui i punti di riferimento e gli spunti iniziali permangono continuamente, ma che si evolvette nel tempo; non bisogna dimenticare l’opera di consiglieri e collaboratori come Filippo Melantone, che limarono le rozzezze dell’opera e della persona.

Il coraggio che egli dimostrò (o mostrò?) fin dall’inizio lo avrebbe portato la sua parabola ad un epilogo brutale se, oltre alle sue personali specialità, non fossero intervenute circostanze speciali, esterne a lui, di cui seppe approffttare.

Perché quando alle critiche e alle repressione della Chiesa si unì anche la presenza dell’autorità imperiale, Lutero si salvò perchè era riuscito a portare dalla sua parte innumerevoli persone delle terre di nazione tedesca, e da esse trasse esplicitamente la propria forza.

Forse Lutero non dava veramente peso all’eleganza delle sue argomentazioni, ma non doveva neanche farlo, poichè la predicazione luterana ottenne il suo scopo: rivolgersi al numero più vasto di persone e come conseguenza riscuotere, in un modo o nell’altro, il consenso più ampio possibile.

Nonostante l’innegabile e sopraffina formazione teologica, lo stesso Lutero ammise varie volte di possedere diverse lacune culturali, e queste erano collegate al suo fondamentale anti-umanesimo: qualora non mostrasse indifferenza, egli veicolò un disprezzo risentito verso la scolastica e la filosofia generale pari a quello che nutriva per le metastasi della gerarchia ecclesiastica; il non plus ultra di ogni discussione doveva essere la scrittura, imprescindibile strumento d’educazione e di intuizione della volontà divina; badasi bene, intuizione epifanica, preferibile ai voli più superbi ed ambiziosi della ragione umana basilare.

La sacra scrittura, appunto, doveva essere aperta a tutti, e così egli curò una pioneristica edizione preparata in un tedesco popolare, una traduzione non solo del linguaggio ma dei concetti che era nelle intenzioni del curatore, sia prodotto che proposta per la brava gente; Martin Lutero sostenne l’importanza di un’educazione di stampo moderno diffusa, inclusiva anche di materie tecniche, progressista quanto quella degli Erasmiani e dotata di un ancor maggiore pragmatismo politico, nel senso di un’istruzione come fucina di bravi cristiani equivalenti a bravi cittadini[10].

Per tutta la vita Lutero  curò una vasta e prolifica produzione di prediche, opuscoli, tra cui i “discorsi a tavola” e i catechismi piccolo e grande, redatti in uno stile che combinava immediate citazioni di passi danzanti dall’antico al nuovo testamento ad un eloquio trascinante, oratorio, ricco di cambi di tono, effetti teatrali quali metafore, paradossi e persino motti di spirito, retto in un vocabolario di non difficile comprensione; una combinazione che catturò una moltitudine di cuori anche perché in essa vi si trovavano espliciti richiami morali che svicolavano nelle orecchie dei tedeschi fino a solleticarle l’orgoglio, facendoli riflettere sulle innumerevoli angherie inflitte dall’autorità remota e corrotta della curia, sulla impossibilità loro e dei loro principi di avere voce in capitolo per i capitoli ed altre cariche ecclesiastiche, nonchè sulla mortificazione della libertà della propria coscienza, in quel senso particolare che Lutero in realtà intendeva, smpre però uno spazio in cui nessuno altro poteva entrare.

Il senso di responsabilità paradossale che la dottrina della salvezza di Lutero implicava poteva forse avere un enorme fascino nell’industriosa società germanica dell’epoca, dove la superstizione e la marcescenza teologica dell’ortodossia avevano dato un’impressione fatalista, contribuendo ad accendere le risposte riformiste.

Sopra il popolo, Lutero lusingava in egual modo i principi: il potere temporale veniva riconosciuto come protagonista imprescindibile; nel famoso appello ai principi, definiti come di nazionalità tedesca, essi vengono chiamati a difendere i cittadini tedeschi dalle trame e dalle tassazioni imposte dal clero romano, nonché a lavorare per creare un’indipendenza salutare dalle decisioni papaline che permetta la quieta libertà spirituale delle coscienze ed una migliore gestione dello stato, anche attraverso la tutela dei cittadini più bisognosi[11].

è nel suo trattato sull’autorità secolare che però si manifesta in maniera compiuta la dottrina di Lutero sulla giustificazione delle possibilità del potere: per il predicatore, il ragionamento parte dall’ammissione della duplicità dei regni dell’uomo, la coesistenza del regno spirituale formato dalla comunione delle anime, ed il regno materiale del mondo, con le sue contingenze e le sue limitazioni.

Se il mondo fosse abitato solo da cristiani, certamente, sarebbe possibile realizzare la chiesa celeste in terra; ma nella realtà dei fatti, Lutero ammette l’esistenza al mondo di un enorme quantità di anime irredimibili e malvagie, che imperversano nei loro peccati contro il resto del genere umano.

A questo punto, per tutelare la sopravvivenza degli innocenti e dei fedeli su questa terra, la presenza dell’autorità secolare si rendeva necessaria, e purtroppo che essa ricorresse alla spada temporale era un male necessario; male però giustificato dalla divinità stessa, che richiedeva il mantenimento di un ordine nel mondo terreno subordinato all’ordine maggiore del mondo spirituale.

Per Lutero naturalmente, il compito del principe rischia di scadere disastrosamente se esso non è un buon cristiano o almeno una persone capace, e non c’è niente di più riprovevole di un tiranno; il predicatore espone una serie di situazioni richiamata da scenari biblici per esortare a non fidarsi troppo dei consiglieri, a non scadere nel lusso, a non dimenticarsi il senso del potere come missione per conto della divinità, in una sorta di versione da osteria universitaria del principe di Machiavelli, dove il richiamo ai re antichi è più narrativo-teologico che filologico.

Crimine per Lutero imperdonabile è l’intromissione del principe nella vita interiore del fedele, contro la quale i fedeli devono portare avanti una resistenza non violenta ostinata fino alla stolidità di farsi prendere di peso e trattenere la scrittura fra le mani[12].

Le energie che Lutero aveva scatenato gli permisero di bruciare le scomuniche papaline e poi balzarono contro la traballante istituzione imperiale, che finì umiliata ed offesa dallo scontro tramutato in incontro con la protesta luterana a Worms, e Carlo V non potè che mostrare accondiscendenza, passando dalle marce ai colloqui, vedendosi l’eresiarca tutelato al di fuori delle proprie possibilità d’azione, quando quelli che dovevano essere suoi alleati nella conservazione di un determinato status quo erano di fatto suoi rivali nella spartizione egemonica di un dominio su cui non tramontava certo ma il Sole, ma su cui stava per farlo l’astro dell’Impero universale.

(Continua)

[1]    Joseph Lecler, Storia della tolleranza nell’età della Riforma, Brescia, Morcelliana, 1967, vol. 1,  pp. 23-26

 [2]    Ivi, pp. 27-47

[3]    Ivi, pp. 48-84

[4]    Ivi, pp. 84-128

[5]    Bernard Reardon, Il pensiero religiosa della riforma, Bari, Laterza, 1984, pp. 1-30

[6]    Joseph Lecler, Storia della Tolleranza nel secolo della Riforma, cit, pp. 159-167

[7]    Ivi, pp. 129-132

[8]    Bernard Reardou, Il pensiero religioso della riforma, cit, pp. 58-65

[9]    Joseph Lecler, Storia della tolleranza nel secolo della riforma, cit, pp. 66-106

[10]  Fiorella de Michelis Pintacurd, Tra Erasmo e Lutero, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2004, pp.131-145

[11]  Vedasi l’opera “Appello ai principi cristiani di nazione Tedesca“per osservare l’elaborazione di questo populismo sciovinista

[12]  Vedasi l’opera “Trattato sul’autorità secolare” per vedere come Lutero non riesca a rinnegare l’importanza di istituzioni terrene