di Valentina Cabiale

Judith Schalansky, Inventario di alcune cose perdute, trad. di Flavia Pantanella, pp. 258, € 19, Nottetempo, Milano 2020.

 

Solo ora che sto per finire questo libro, in cui i molteplici fenomeni di decomposizione e distruzione giocano un ruolo fondamentale, capisco che quello non è che uno degli innumerevoli modi di fare i conti con la morte, e che in fondo non è né più impotente né più premuroso della tradizione, testimoniata da Erodoto, dei Calliati, che usavano divorare i genitori defunti, tanto che scoprirono con orrore l’usanza greca di bruciare i propri cari. Perché, sulla questione se sia più vicino alla vita colui che ha costantemente davanti agli occhi la propria mortalità o colui che invece riesce a rimuovere la morte, ci sono pareri tanto contrastanti quanto sulla domanda se sia più raccapricciante l’idea che tutto finirà o che invece non ci possa essere nessuna fine.

 

Così la scrittrice e designer tedesca Judith Schalansky, nella prefazione a Inventario di alcune cose perdute (Berlino, 2018), vincitore del Premio Strega Europeo 2020, racconta in sintesi il tema del libro – la fine delle cose e della memoria, ma anche la possibilità di un loro recupero – e il suo percorso di formazione nello scriverlo.

Dodici cose perdute, dimenticate, la cui assenza viene ricostruita in forma narrativa con una notevole varietà di stili e linguaggi. Assenza che in qualche modo è presenza, ovvero il modo di essere di quegli oggetti e persone smarriti o conservati in frammenti. Schalansky cura anche l’aspetto grafico delle sue opere: le storie del libro sono intercalate da pagine nere sulle quali sono stampate a inchiostro scuro delle foto, a mala pena visibili; solo piegando il foglio, inclinando le pagine alla luce radente, in uno sforzo di immaginazione e di umiltà, si riescono a intravedere le forme delle decine e centinaia di cose perdute.

Tuanaki, isoletta del Pacifico indicata su vecchie mappe e inghiottita da un maremoto tra il 1842 e il 1843; le ultime tigri del Caspio, avvistate nel 1964, e un esemplare impagliato andato a fuoco negli stessi anni nel Museo di Storia Naturale di Tashkent; il primo film, muto, di Friedrich Wilhelm Murnau, dato per disperso; il castello dei Von Behr a Behrenhoff, uno di quei paesi di provincia “che si premuravano di nascondere il loro ben più fulgido passato”; un selenografo tedesco dell’800, C. A. Kinau, forse mai esistito; il porto di Greifswald, paese natate dell’autrice, scomparso dopo essere stato dipinto da Caspar David Friedrich; il palazzo della Repubblica della DDR, demolito definitivamente nei primi anni Duemila. E poi ancora lo scheletro di un presunto unicorno, in realtà un falso che il fisico Otto von Guericke assemblò a partire da ossa di vari mammiferi di età glaciale come il mammut e il rinoceronte lanoso, sostenendo di aver ricostruito uno scheletro ritrovato nel 1663 presso Quedlinburg.

La storia forse più riuscita è quella di Villa Sacchetti a Roma (o Villa del Pigneto), una delle principali opere giovanili di Pietro da Cortona, commissionata dal cardinale – aspirante papa –  Giulio Sacchetti e costruita tra 1628 e 1648 nella Valle dell’Inferno, tra il Vaticano e Monte Mario. Giulio Sacchetti non diventerà papa e la villa andrà precocemente incontro all’abbandono e alla rovina già sul finire dello stesso secolo; oggi ne restano pochi resti. Tra le ragioni dell’abbandono, il fatto che la valle fu usata come terreno per seppellire i malati di peste e i cedimenti strutturali dell’edificio dovuti alla natura del terreno. Intorno al 1760 un allievo del Piranesi, il francese Hubert Robert (Robert des Ruines) la disegnò, come si usava allora, con una serie di personaggi ornamentali: la ragazza con la brocca d’acqua sulla testa, la donna con in braccio un neonato e poi un cane, una mucca, una pecora. La novità consisteva nel fatto che si trattava di una rovina contemporanea, non il resto di un monumento antico come quelli disegnati dal Piranesi; quest’ultimo, architetto che non costruì mai nessun edificio, era convinto della superiorità del passato, di quello che lui stesso aveva creato a partire dalla sua personale visione delle rovine.

La costruzione di un personale passato di riferimento è ciò che caratterizza anche la vita di Armand Schulthess, che a 50 anni lasciò l’impiego come segretario del Dipartimento Svizzero di Economia di Berna e andò a vivere in solitaria nella Valle Onsernone (Canton Ticino). Quando morì, il 28 settembre 1972 in seguito a una caduta in giardino, aveva creato nel bosco una personale enciclopedia del sapere costituita da più di mille targhe incise (spesso coperchi di barattoli di conserve), appese agli alberi e divise per tematiche (letteratura, astronomia, psicanalisi, musica, filosofia, scienza, …). Gli eredi fecero sgomberare la casa, gettando quasi tutto, dando fuoco a una biblioteca sul tema della sessualità composta da una settantina di volumi realizzati a mano, probabilmente con la tecnica del collage; qualche targa e qualche libro sopravvissuti entrarono a far parte della Collection de l’Art Brut di Losanna e di varie collezioni private.

A Schulthess si è ispirato Max Frisch per la figura del signor Geiser de L’uomo nell’Olocene. Il signor Geiser ha settantaquattro anni e vive da solo in una valle del Canton Ticino. Sa bene che sta perdendo alla memoria e cerca un modo per tenere insieme il sapere che gli sta sfuggendo o forse quello che non ha mai posseduto; sta di fatto che si mette ad appendere alle pareti ritagli di libri e di enciclopedie su argomenti svariati, ma non troppo: tutti riguardano la storia della terra e dell’uomo, la preistoria, la geologia, le origini, l’antichità dell’uomo, la durata delle ere geologiche, i dinosauri, la tettonica a placche. Si comporta come se stesse arrivando, o fosse già arrivata, la fine del mondo e salva quel sapere che ritiene più importante – la memoria temporale del mondo – il solo che gli permette di essere certo che il mondo esiste e che sono successe delle cose.

Tornando al libro di Schalansky, tra gli scritti quasi del tutto perduti ci sono anche i libri del profeta Mani, fondatore di una religione universale molto diffusa nella tarda antichità e poi declinata, perseguitata, vietata. Quasi nulla si conserva dei testi di Mani, in lingua originale (aramaico) come nelle traduzioni; ardito ma suggestivo è il parallelo proposto dall’autrice con la materia oscura dell’universo, una massa invisibile che si manifesta solo attraverso i suoi effetti gravitazionali e la cui presenza fu dedotta dall’astrofisico Fritz Zwicky negli stessi anni in cui alcuni studiosi berlinesi erano chini sui fogli di papiro di una biblioteca copto-manichea scoperta nell’oasi di Fayyum (Egitto) nel 1929. Una cosa che sai che c’è, che non può non esserci, influisce sulla tua vita, anche se non l’hai mai vista e non sai come fare a vederla; in che modo guardare, dove, quanto a lungo ancora.

Come reagiremmo se su un papiro venisse ritrovata integra una poesia di Saffo di cui finora si conosce soltanto una strofa, la metà di un verso o una singola sillaba? È un po’ come immaginare – se lo chiedeva Umberto Eco ne I limiti dell’interpretazione – che effetto ci farebbe la Venere di Milo completamente ricostruita grazie al fortunoso ritrovamento delle braccia e delle gambe. La cultura del frammento di stampo romantico è entrata così profondamente nella nostra visione estetica da rendere preferibile quell’interruzione del discorso (aposiopesi) che la punteggiatura definisce tramite i puntini di sospensione: ovvero la languida dimensione del sospeso, dell’essere sopraffatti, ma anche il perduto e l’ignoto, l’indicibile. Le poesie di Saffo, andate perdute un po’ per caso un po’ per selezione o distruzione mirata, sono mutilate e attendono un Bruno Munari che le completi immaginificamente (si pensi alle sue “Ricostruzioni tecniche di oggetti immaginari in base a frammenti di residui di origine incerta e di uso dubbio”; Ingannare il tempo. Bruno Munari archeologo – Chating time. Bruno Munari the archaeologist, Edizioni Corraini 2003).

Tentare di ricostruire – anche inventando di sana pianta, come nel caso dell’unicorno di von Guericke – quello che si è perso, che abbiamo smarrito o gettato, è un modo per fare i conti con l’esperienza della perdita.

Ogni cultura ha ritualizzato la morte, punto di origine dell’eredità e della memoria. Sono stati ideati diversi tipi di cerimonie e di pianti funebri, strategie di trattenimento del passato, funzionali – quantomeno in apparenza – a costruire e mantenere il ricordo piuttosto che a dimenticare. Nella psiche individuale si mettono in atto anche dei riti preventivi, come quella che Schalansky chiama la “magia apotropaica del dolersi anzitempo”, quando si cerca di impedire che qualcosa di inevitabile accada anticipandolo nella mente. Ad aumentare il dolore concorre il fatto che quando viene a mancare una persona cara la perdita non è mai totale, ne rimangono i lasciti materiali: la salma, l’eredità e un’infinità di oggetti. Questa è la domanda che sostiene l’intero romanzo: cosa ce ne facciamo non tanto del dolore, quanto di quello che rimane, che ci ricorda irrimediabilmente che quella persona o cosa intera non esiste più. Sarà per questo – il ricordo dell’intero perduto – che talvolta capita, quando si è ancora in vita, di volersi disfare anzitempo dei propri oggetti, dei mobili, di un’intera casa; quel fastidio che ci invade nel vedere la materia che ci circonda e a volta sovrasta e sempre, sempre, ci ricorda – per il solo fatto di essere rimasta – che quegli altri noi non esistono più. Meglio allora sarebbe bruciare, distruggere tutto, come ha desiderato Luigi Pintor in un capitolo de I luoghi del delitto: bruciare non il mondo intero che va in malora per conto suo, ma il suo piccolo mondo; a cominciare dai libri, gli spartiti musicali, il fortepiano giapponese lungo e nero. Ma soprattutto gli oggetti,

 

queste cose inerti che spuntano dappertutto ma non si sa da dove vengano e perché stiano lì e quanti anni abbiano, oppure si sa ed è peggio perché simulano il passato. I ricordi che incorporano non tengono compagnia, sono quasi sempre malinconici e la cornice di una fotografia non serve lucidarla perché domani sarà opaca come ieri.

E poi i vestiti, le camicie di cotone, i maglioni di lana regalati a natale, le cravatte che non porto, l’impermeabile usato e quello ancora nuovo, il cappotto scuro e quello chiaro, le scarpe a bocca aperta e anche l’orologio da tasca che segna i decimi di secondo e mi accorcia il tempo. Nell’armadio e nei cassetti tra quelle stoffe si annidano fantasmi che la canfora lascia indisturbati.
Di tutto vorrei fare una catasta piramidale.

(L. Pintor, I luoghi del delitto, in La vita indocile, Bollati Boringhieri 2013)

 

Ma poi non accade quasi mai che si dia fuoco agli oggetti personali, pur se spinti da forti motivazioni. Magari qualche lettera. Succede più spesso che si rompono, li perdiamo, li buttiamo, passano in eredità, noi o qualcun’altro li rivende, entrano a far parte della categoria degli oggetti usati, o vengono riciclati, compressi e inceneriti. Una minima parte finirà sottoterra e un archeologo li potrà ritrovare; dovrà tentare di capirli: la scheggia di un piatto, un nocciolo di pesca e una fibbia di scarpa, tra «le cose incomprensibili dell’aldiqua» (ancora Pintor).

L’archeologia in fondo può essere vista come una elaborazione del lutto o come l’evidenza che non abbiamo elaborato abbastanza; per questo cerchiamo di dissotterrare il passato e di conservarlo (musei, archivi, giardini zoologici, biblioteche, riserve naturali sono definiti da Schalansky  “cimiteri amministrati”): per poterlo liberamente dimenticare, una volta che gli abbiamo trovato un posto; per definire una volta per tutte il nostro rapporto con l’esperienza della perdita e perché “la distinzione tra presenza e assenza può essere marginale finché esiste la memoria”. In questa ricerca, tra le tantissime cose che scompaiono, molte riappaiono: negli scavi archeologici, negli archivi, nelle soffitte e negli armadi, nei depositi dei musei.

Questo fa dire all’autrice che diversamente da quello che pensiamo non è il futuro, ma il passato, a rappresentare un “autentico spazio di possibilità”. È il passato che le dittature cercano di comandare, di modificare, abolire, reinterpretare; il passato è uno spazio di libertà, mobile e malleabile come il futuro – ciò che sta per accadere – non può essere. In questo senso, quel che resta (rovine, oggetti, frammenti) ha un fascino perché rappresenta un compiacimento della fine e del proprio dolore ma anche una possibilità e una premessa di rinascita. Ed è questo il risvolto positivo della perdita, esperibile grazie alla scrittura e a ogni forma di arte e di finzione.