di Jack Orlando

Mario Tronti, La saggezza della lotta, Derive Approdi, Roma, 2021, pp. 45, € 5,00

Prepararsi alla Storia, imparare a prevederne le torsioni, per romperne gli argini e deviarne il corso, è compito del politico.
Questo e nient’altro è l’ossessione che si porta appresso chi ha imboccato la via della militanza come scelta di vita. E in questi tempi di palude, è più che necessario sottolineare questa dimensione esistenziale della politica. È un rivoluzionario chi ha bruciato i ponti della ritirata diceva, pressapoco, quello famoso.

La vita politica allora, non è fatta di ritualismi, né di riflettori mediatici, semmai questi ne sono scomodi accessori. È un percorso accidentato che contiene in sé l’estasi dei momenti d’attacco e il bruciore delle sconfitte, si districa in un grigio e quotidiano lavoro della talpa, conosce la ciclicità ma rifugge la ciclotimia; prevede periodi sorridenti, in cui si naviga tra tanti porti amici e altri di arsura, in cui si attraversano i deserti dei riflussi.

È un qualcosa che si avvicina alla scienza, per le concatenazioni di cause-effetti, per le sue norme intrinseche e per la mole di tecnica e conoscenza che si è costituita nel fiume del suo sviluppo, con cui ci si deve obbligatoriamente rapportare per l’evoluzione del pensiero e della pratica; ed allo stesso tempo si nota una straniante somiglianza con l’arte, per le sue sottigliezze, per l’intuito soggettivo che precipita nell’istante, nella capacità di sconvolgere il campo delle emozioni umane.
Eppure, c’è un di più che non permette di assorbirla in nessuna di queste discipline, un’eccedenza che fa della politica una disciplina a sé, ne segna l’irriducibile autonomia e taglia distintamente la figura del suo professionista, che non può essere un freddo tecnico o scienziato, confinato alla sua accademicistica e pedante indagine dei fenomeni e al vuoto riprodurre tecnicismi e formule nelle sue stanze, scoloriti burocrati senza nemmeno più partito; né può essere l’artista, coi suoi edonistici individualismi e le sue vanità, con l’incapacità di distinguere il confine tra reale e desiderio, tra necessità collettiva e sentimento personale; il tempo delle soubrette della politica è durato fin troppo e troppe macerie ha lasciato dietro di sé per non essere archiviato definitivamente.

È all’animale politico che spetta la disciplina di cui parliamo o, più prosaicamente, al militante, quella drammatica forma antropologica emersa dal fango dei campi e forgiata negli altiforni delle officine, per essere scagliata nel maelstrom del ‘900, con la sua immensa tragedia, fatta di assalti e tentativi, con in mezzo una immensa vittoria del partito ed infine una devastante sconfitta del movimento operaio. Con un dopo che non è ancora passato, in cui la categoria rivoluzione e il soggetto militante annaspano ancora tra le sabbie mobili del capitale, in cerca di una via d’uscita, una rinnovata riemersione della forza.

Strana creatura, l’animale politico, chiamato ad abitare una doppia dimensione.
Da un lato la necessaria solitudine contemplativa, una dimensione di profondità, in cui si è osservatori, nel senso più creativo del termine, del divenire storico, dei processi sociali che determinano la vita oggettiva, un luogo dove il pensiero si può sviluppare liberamente, radicalmente, fino all’estremo, e indurirsi nella prospettiva lunga, quella della strategia, del punto di vista irriducibile, della volontà capace di recidere i compromessi anche col proprio stesso ambiente. È la cittadella interiore dove si addestra l’animo a sempre maggior forza, perché ci si vota all’organizzazione del conflitto, ma si deve sempre coltivare un sereno distacco, per mai affezionarsi alle proprie creature, alle forme contingenti dell’agire piuttosto che alla sua essenza, per non esserne egotici schiavi.
L’altra dimensione, che potremmo definire di ampiezza, è quella sociale, collettiva.
È infatti sul piano collettivo che la battaglia si dispiega e la forza cresce, perché a restar troppo soli nella propria profondità poi ci si scopre inutili e inesplicabili come un geroglifico. Si può, si deve, ben conoscere il nemico, e tuttavia non lo si combatte senza l’amico. E l’amico è la propria parte, il soggetto subalterno in cui ci immergiamo, che viviamo, o dovremmo vivere, con disincantata internità.
La militanza è anche una redenzione soggettiva, riscatta l’umano da una vita mutilata tramite una libertà difficile ma immediata, ma certo non si fa politica per sé stessi, è sempre questione di appartenenza. E non la si fa efficacemente se non si cercano le risposte per le strade e negli ingranaggi del modo di produzione, con le sue umanità alienate e fratturate. Nel piano sociale il militante cerca le piste da seguire, apprende il gioco della tattica, cerca gli amici (politicamente intesi, non fraintendiamoci, per carità!) e con essi il profilo di quella figura storica chiamata classe, mai data in partenza ma sempre da contendere e strappare al dominio del capitale.

Profondità e ampiezza, le due dimensioni esistenziali del politico. Entità differenti, mai separate e mai sovrapponibili. Poli magnetici mantenuti in un permanente rapporto dialettico, veicolato sugli elementi di ricerca e di lotta, che non giunge mai a risoluzione definitiva ma solo all’apertura di nuovi problemi e tracce da seguire, una dialettica che d’altronde non può mai essere risolta, pena lo scadere nell’autoreferenzialità del praticismo o nell’autocompiacimento del teorico, in ogni caso nell’innocuità.
È da qui che discende un particolare tipo di sapere, una saggezza, che non è intellettualistica e soddisfatta, ma pratica, solida, inquieta soprattutto, perché ancorata al reale della propria esistenza, ed al suo essere di parte, orientata al combattimento ed all’imposizione di una verità che ribalta la serenità ottusa della democrazia capitalista, alla continua ricerca di una via d’uscita da essa.
È una saggezza ruvida che parla la lingua della plebe ma sa maneggiare lo stile alto, aristocratico.

Lo stile alto. Un punto da riconquistare, una posizione di forza da cui stracciare questo insopportabile nanismo della politica che ci tocca subire.
Tanto quello della politica mainstream, di palazzo, in mano ad un’umanità talmente scadente da far risaltare di luce propria perfino quei grigi amministratori, mandati a gestire le leve del comando con la benedizione dell’interesse generale. Quanto quello di un antagonismo sciatto, fatto di parole vuote stampate su insipidi volantini, teorie di bassa lega e accaniti particolarismi, più polverosi di un paio di sandali birkenstock ad un rave.
Saper pensare bene, fare bene, parlare, scrivere, finanche vestire bene; ma essere capaci di ponderare e agire anche il male quando necessario. Portarsi quindi ad una altezza sempre maggiore, perché questo richiede la missione del politico, la sfida alla Storia, e la medesima cosa esigono il rispetto ed il riscatto di quella storia lunga, antica e nobile, che è il moto di liberazione degli oppressi che ci si carica sulle spalle. Questo, lo stile alto che tocca disseppellire, qualcosa da imporre ed imporsi.

“La saggezza della lotta”. Sono poche pagine per dire tanto, e d’altronde non servono fiumi d’inchiostro per tirare fuori l’essenziale, anche quando questo è un abisso.
E Mario Tronti, superata la linea d’ombra dell’età dei patriarchi, scava nell’essenziale e mette insieme un dono prezioso, raccolto in un’esperienza lunga quasi un secolo, il secolo delle guerre civili, di cui porta nel presente il carico drammatico e prolifico della politica al suo zenit di inimicizia, di contrasto socialmente organizzato e di pensiero schierato come arma, il carico del militante come soggetto della frattura.
Ma questo non è il grande ‘900. E ancora non si vede la via d’uscita da questo incidente della storia che chiamiamo oggi, una gabbia di imbonitori, pagliacci e ballerine; eppure sommovimenti tellurici giungono in superficie, come terremoti alle volte, più spesso come flebili scricchiolii. Questa saggezza della lotta ci è ancor più necessaria allora, perché ci aiuta ad attraversare il nostro maledetto tempo ostile, con i piedi ben ancorati a questa terra che trema e lo sguardo a scrutare, oltre e al di sopra della cronaca, i punti deboli di un’epoca che urge affondare.

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